Innovazione e sabotaggio: verso un’ecologia sensibile
L’ultimo contributo per «Discutere Genere e capitale» di Silvia Federici è un commento di Caterina Ciarleglio alla critica del progresso che Federici elabora, nel volume e altrove, dialogando con Marx e soprattutto con un'idea oggettivata di sviluppo proposta dal marxismo successivo. Uno sviluppo lineare e teleologico, ineluttabile quanto desiderabile, lungo il cammino ideale verso il comunismo. Un'idea di sviluppo che sollecita sentimenti contrastanti e spesso rifugge in un astorico precapitalismo.
Lo stesso Marx, tuttavia, ci ha mostrato che il capitale contiene già, in sé, gli elementi del suo superamento. Lo sviluppo capitalistico, e con questo la scienza, l’uso della tecnica e la stessa idea di progresso di cui si nutre, vive nell’ambivalenza strutturale tra dominio del capitale e lotta di classe. Quando la scienza è subalterna alla razionalità capitalistica, mangia capacità umane, erode abilità, impoverisce i soggetti e banalizza, piuttosto che arricchire, l’esperienza soggettiva. Tuttavia, nel suo concreto dispiegarsi, il «progresso» apre uno spettro variegato e ampio di possibilità, segnato dell'irriducibile antagonismo tra le classi, ed è qui che occorre portare l’attenzione. Avanzando l’idea di un’«opera di sabotaggio» per invertire la direzione di marcia di un progresso, con tutta evidenza, piegato all’utilità capitalistica, il testo che dialoga con l’ecofemminismo e l’ecologia politica, propone un’«ecologia sensibile» come lavoro di risignificazione concettuale e politica che, «senza paura di misurarsi con l’innovazione tecnologica (…) riconfiguri i bisogni a partire da ciò che, al capitale, può e deve essere sottratto». Come già prima di lei Timeto (che ha affrontato il nodo del rapporto tra produzione, riproduzione e tecnologia: https://www.machina-deriveapprodi.com/post/discutendo-genere-e-capitale) e Slavina (che ha discusso di sessualità, lavoro e piacere sessuale: https://www.machina-deriveapprodi.com/post/discutere-genere-e-capitale-ma-il-sesso-%C3%A8-solo-lavoro), Ciarleglio spinge oltre se stessa la critica al progresso contenuta in Genere e capitale e mette a lavoro il metodo teorico-politico della critica femminista a Marx: piegare l’analisi, che è sempre materialista e contestuale, alle esigenze della lotta. Un esercizio di pratica teorica che «Discutere Genere e capitale» ha inteso praticare, con l’obiettivo di elaborare nuovi strumenti politici e concettuali per agire le sfide del presente [a.c.].
Immagine: Chiara Susanna Crespi, Angeli incustoditi
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Il rapporto dell’ecofemminismo con il progresso e l’innovazione tecnologica non è di certo un rapporto facile. Tutte le appartenenti a questo movimento sono state a più riprese tacciate di rifarsi a forme arcaiche di ruralismo, di invocare il ritorno, romanticizzato e idealizzato, a stili di vita ormai irrecuperabili e incompatibili con il sentire contemporaneo. Celebri le critiche verso una tendenza all’essenzialismo, soprattutto nel pensiero di Vandana Shiva. Ancora più famose forse le accuse da parte dello xenofemminismo di Helen Hester a Maria Mies circa la romanticizzazione della gravidanza come celebrazione dei processi naturali, in contrapposizione a un’idea di corpo come potenziale luogo di intervento tecnopolitico [1]. È certamente vero che l’ecofemminismo, ponendosi in maniera critica nei confronti di progresso e industrializzazione, in quanto motori di ogni forma di sfruttamento e accumulazione ai danni della «natura», sembra facilmente dare adito a queste critiche. Il rifiuto di ogni forma di innovazione tecnologica, proprio perché intrinsecamente legata alla produzione industriale, occupa indiscutibilmente un posto d’onore in queste analisi e riflessioni.
Genere e capitale. Per una lettura femminista di Marx di Silvia Federici [2], per la sua capacità di raccogliere alcune delle tematiche care all’ecofemminismo e di integrarle nella feroce critica che l’autrice muove al pensiero marxiano, non è di certo da meno. Per stessa ammissione dell’autrice, i saggi che compongono questo testo si inseriscono perfettamente nel solco tracciato da Shiva e Ariel Salleh.
In che misura però queste autrici affrontano il tema dell’innovazione tecnologica? In che modo quest’ultimo si lega a quello del progresso e allo sviluppo industriale? E, in ultima istanza, come andrebbe effettivamente analizzato? L’operazione che qui proponiamo è forse controversa ma utile proprio in virtù della sua contraddittorietà. Si tratta di proporre un’analisi ecologico-politica, condotta attraverso gli strumenti propri dell’ecofemminismo, che non metta necessariamente in discussione il valore eventualmente strategico della tecnologia ma che anzi ne ridiscuta le potenzialità, cercando di capire cosa ad essa può essere sottratto e risignificato. Per farlo crediamo sia necessario analizzare i temi dell’industria, dell’innovazione e dello sviluppo, contestualizzando le sedimentazioni storiche e ideologiche in cui questi ultimi si sono formati.
L’unicum: progresso, tecnologia, sfruttamento
Il problema principale da affrontare quando ci si confronta con Genere e Capitale è il fatto che, progresso e tecnologia, vengono introdotti e trattati come un solo elemento dell’analisi, riassumibile nel costrutto «progresso tecnologico», presentato in seguito a «sviluppo industriale». Nell’analisi di Federici, i due elementi che compongono le endiadi, i quali meriterebbero certamente una trattazione separata, sono sempre assunti come un unicum. Sembrano rappresentare un insieme inscindibile, in cui la critica al concetto di sviluppo e all’idea di progresso, che prende le mosse dal corpo a corpo che l’autrice istituisce con il pensiero di Marx, non vengono mai scorporati dal loro oggetto, ma anzi lo trascinano nell’oblio al quale sono destinati in quanto processi che organizzano lo sfruttamento.
Per comprendere meglio tale assenza di differenziazione tra sviluppo e tecnologia, crediamo sia necessario interrogare direttamente il testo, partendo dalle dichiarate intenzioni di Federici: fornire una critica al pensiero marxiano, prendendo le mosse dagli strumenti elaborati da Marx stesso, registrandone i silenzi ed evidenziandone i limiti, tanto da un punto di vista teorico quanto politico [3]. In questo senso, perché la critica a Marx venga letta e compresa nel giusto contesto di riferimento, è importante ricordare che il pensiero di Federici nasce nel quadro di ciò che è stato definito un «femminismo marxista della rottura» che ha espresso storicamente l’esigenza politica, oltre che intellettuale di spingere il pensiero marxiano oltre i propri limiti storici e ideologici [4].
A partire da ciò, la critica di Federici si costituisce, tra gli altri, su un assunto specifico: la necessità di riconoscere l’impatto distruttivo del capitalismo su ogni soggettività, umana ed ecosistemica. L’incapacità di riconoscere questo assunto come verità autoevidente è stato, secondo l’autrice, uno dei problemi fondamentali dell’analisi marxiana e rimane tutt’ora un problema fondamentale del marxismo, come di qualsiasi teoria che si interroghi sui rapporti socio-naturali. In questo senso, viene contestato il ruolo emancipatorio dell’industrializzazione in due direzioni distinte e precise. Si mette in discussione l’idea che l’industria moderna sia fondamentale alla costruzione dei beni materiali assolutamente necessari. Federici evidenzia infatti che la produzione di tali beni, utile al superamento della loro naturale scarsità, è stata costruita attraverso secoli di sfruttamento della natura intesa come oggetto malleabile, appropriabile, sfruttabile [5]. Questo primo elemento, che in un altro linguaggio potrebbe essere tradotta come il rapporto tra umano (la cui distruzione è avvenuta attraverso regimi lavorativi estenuanti) e non-umano (sui quali il dominio dell’uomo viene storicamente esercitato grazie all’industria su larga scala), è utile per introdurre i due registri del discorso e insistere sui limiti di un’analisi che tiene insieme progresso e tecnologia come unità inscindibile.
La doppia trappola: sviluppo e industria
Il discorso di Federici, dunque, fonda la propria critica su un’argomentazione di trontiana memoria: l’idea che Marx stesso sia caduto vittima della doppia trappola tesa da sviluppo e industria. Con doppia trappola intendiamo da un lato il permanere di alcuni residui di storicismo hegeliano che si traduce in una concezione stadiale del progresso. Dall’altro Marx sostiene al contempo la necessità storica dei processi di industrializzazione come passaggio obbligato verso il comunismo. Il ruolo emancipatorio dell’industrializzazione e dell’industria moderna diviene così fondamentale per la liberazione dell’umanità. Lo sviluppo industriale diventa lo strumento attraverso il quale sarà possibile l’abbandono delle forme di lavoro arcaiche, arretrate, scarsamente produttive, perché a basso livello tecnologico e, attraverso l’estensione globale dei rapporti capitalistici, fungerà da elemento unificante per il proletariato mondiale. L’inclinazione generale individuata da Marx, infatti, è quella di una omogeneizzazione delle forme di lavoro, che tenderanno a convertirsi in attività salariate e meccanizzate, liberando così l’uomo dal lavoro [6].
Secondo Federici questa visione tradisce un’impostazione fortemente eurocentrica, incentrata su bisogni e necessità del solo lavoratore salariato bianco. Tale concezione peraltro non dà conto degli sviluppi più recenti del mondo del lavoro, in cui, contrariamente a quanto sostenuto da Marx, la compenetrazione tra diversi regimi lavorativi, sotto l’egida dello sfruttamento, è divenuta una necessità logica nell’organizzazione dell’apparato produttivo. Bisogna registrare in questo senso un «fallimento delle previsioni marxiane riguardo all’inevitabilità del crollo del capitalismo e dell’unificazione del proletariato a livello mondiale» [7] dovuta proprio alla sopravvalutazione del ruolo dell’industria. Non solo, Federici sottolinea a più riprese la dimensione strutturale delle differenze gerarchiche del lavoro basate su genere e razza, elementi pressoché dimenticati nelle analisi marxiane di critica all’economia politica.
La questione della funzionalità dei diversi regimi lavorativi alla sopravvivenza del capitalismo è dunque un elemento cardine dell’argomentazione federiciana, la quale insiste lungamente sul ruolo di sessismo e razzismo come fonti di discriminazione sociale, inerenti alla logica del capitale [8], fondamentali inoltre alla formazione di divisioni sociali e per la repressione delle lotte. Questo tema viene sottolineato una volta di più nel dibattito che l’autrice ingaggia con il geografo David Harvey, il quale sostiene che le discriminazioni basate su genere e razza siano da considerarsi fattori contingenti nella storia del capitale e non una necessità logica. L’analisi femminista di Federici è invece tesa a mettere in evidenza il carattere strutturale nonché funzionale di queste differenze per la sopravvivenza del capitalismo e lo fa proprio attraverso il dialogo con Marx e la messa in discussione del carattere unificante dell’industria per il proletariato mondiale. Non solo, l’analisi di Federici permette di far emergere una realtà completamente diversa del mondo del lavoro, instituita su differenti regimi lavorativi, costruiti a loro volta sulle differenze di genere e razza che abbiamo visto. L’indagine condotta per sottolineare il ruolo funzionale delle differenze tra lavoro formale da una parte e informale, domestico, a basso reddito, gratuito, individuale – storicamente naturalizzato come lavoro femminile o dei soggetti razzializzati – dall’altra, mette in luce l’economia nascosta dei rapporti di produzione e riproduzione. In questo senso l’analisi (di Federici) si sposa con quella riflessione ecofemminista capace di rendere visibile l’invisibile e riabilitare ciò che è stato nascosto, ricollocandolo al centro della riflessione e delle nostre vite [9]. Tutti i regimi lavorativi dimenticati o taciuti (il lavoro domestico, schiavistico, la prostituzione, che Marx non considera lavoro), non sono evidentemente stati superati grazie allo sviluppo industriale. L’industria moderna non si è rivelata essere la più alta forma di razionalità umana, non ha liberato gli individui dalle dipendenze personali, ma al contrario le ha acuite. Il capitalismo, inoltre, invece di rivelarsi un male temporaneo e necessario ha irreversibilmente portato alla devastazione degli ecosistemi.
Questo tipo di critica ai processi di industrializzazione che prende le mosse da problemi di natura tanto ideologica quanto politica e materiale in ottica femminista, non è nuova nella storia dell'ecofemminismo, possiamo trovarne traccia nel pensiero di Carolyn Merchant. Ripercorrendo a ritroso la storia del movimento ecofemminista, a cui Federici fa sempre riferimento nel momento in cui approccia questioni legate a natura e sostenibilità, il nome di Merchant compare spesso. Il suo testo fondamentale, La morte della natura (1980) [10], è brevemente discusso nelle pagine di Calibano e la strega relative al rapporto tra la figura della guaritrice e la nascita della scienza moderna [11].
In La morte della natura, l’autrice mette a critica la concezione scientifica e la meccanicizzazione del mondo, contestando il carattere di verità e univocità del progresso scientifico e descrive, prendendo ad esempio tanto le arti, quanto la tecnica, la sostituzione del paradigma olistico e organicistico – femminile – con il modello meccanicistico, rappresentato dalla controparte maschile. La tesi sostenuta è che lo sfruttamento delle risorse vada di pari passo con la riorganizzazione del cosmo e il disciplinamento della natura, intesa come disordine, e sulla quale esercitare un potere normativo. Benché si tratti di un testo in ultima analisi forse un po’ datato, proprio per questa ambigua sovrapposizione tra femminile e naturale per molti versi ora superata, La morte della natura resta un’opera interessante per vari motivi. Primo tra tutti per la sua capacità di analizzare come si siano storicamente formati i meccanismi di legittimazione della distruzione ambientale e l’eliminazione degli scrupoli relativi a tale devastazione, che potevano sorgere da una concezione organicistica della natura. Non da ultimo Carolyn Merchant sottolinea un fattore importante. Nel riconoscere la necessità di ripristinare gli equilibri biologici sconvolti dalla moderna industrializzazione, l’autrice insiste sul fatto che questo non significhi che sia necessario «sacrificare l’innovazione tecnologica o che si debba tornare al mulino idraulico del Medioevo», ma che sia venuto il tempo di «sviluppare tecnologie che si armonizzino con i cicli naturali anziché condurre a uno sfruttamento di risorse irreversibile» [12].
Neanche Federici si esime dall’affrontare il problema del prodotto materiale dei processi industriali: «prendendo il computer, per esempio, vediamo che anche questa macchina molto comune è un disastro ecologico, perché la sua produzione richiede tonnellate di terra e acqua e un’immensa quantità di lavoro umano» [13]. Ma proprio a tal proposito in un’intervista rilasciata nel febbraio 2020 [14], Federici sottolinea a più riprese che la tecnologia vada ripensata e ricreata in maniera diversa rispetto a quella implementata dall’economia capitalista e che la tecnica in sé non sia un elemento da rifiutare. Bisogna però essere contrari ad una sua acritica celebrazione. Per usare le parole di Federici: «la tecnica deve essere un campo di battaglia. E sia chiaro che con questo non voglio dire che sia necessario tornare alla zappa e al badile». Ciò significa in altri termini, evitare di ricadere in una nuova idealizzazione dell’industria, per esempio riservando alla tecnologia digitale il ruolo unificante che Marx credeva di aver visto, ma significa anche essere coscienti del ruolo della tecnologia in seno alla società.
Innovazione, sabotaggio ed ecologia sensibile
La conclusione di Federici è che nessuno dei mezzi di produzione sviluppati dal capitalismo possa essere applicata per un uso diverso, poiché «i fini per cui sono stati creati danno forma alla loro costituzione e al loro funzionamento» [15]. Qualcun altro avrebbe detto alternativamente che «gli strumenti del padrone non smantelleranno la casa del padrone» [16]. Questo è certamente vero, ma come abbiamo visto tali riflessioni chiamano allora a un’opera di sabotaggio, sottrazione e reinvenzione piuttosto che a un percorso di estraneamento, proprio perché al di là del rapporto di storica filiazione, esiste una differenza di statuto ontologico tra tecnica e progresso. Invece di leggere queste pagine come un invito a rinchiuderci in enclave in campagna, gettare i nostri cellulari, impugnare una vanga, esse devono farci riflettere su due elementi fondamentali: in primo luogo sulla necessità di tornare a interrogarci, mettendo a critica, l’ineluttabilità del progresso in maniera situata. Posizionandoci dunque in un qui e ora che si dà necessariamente nella materialità dei rapporti capitalistici, sociali e produttivi/riproduttivi «per costruire un pensiero dentro e contro l’innovazione capitalistica» [17]. Il senso di questo «dentro» deve essere risignificato: situarsi dentro l’innovazione non vuol dire né accettarla, né limitarsi ad ormai sterili tentativi di riconversione. Situarsi dentro significa, come suggerisce Timeto [18] discutendo, anche lei, Genere e capitale, comprendere quali ideologie, istituzioni, norme, relazioni e pratiche hanno lastricato la strada del progresso, per rompere con esse, porsi «contro», sabotarle e ridisegnare nuove condizioni di esistenza tanto delle nostre vite quanto di ciò che produciamo. Come già scriveva Carolyn Merchant [19], è necessario sviluppare nuove tecnologie, proprio perché quelle attuali sono sviluppate all’interno di un sistema distruttivo e «parassitario» [20]. Per farlo abbiamo bisogno di un pensiero cosciente non solo delle sfide del presente, ma anche di quelle che Federici individua come colpe di un passato estremamente recente e come dinamiche ancora in atto, strutturalmente legate alla storia del capitale e a una «visione prometeica dello sviluppo tecnologico» [21].
La seconda consapevolezza è che non può esistere un’ecologia che non sia a sua volta ontologicamente e strutturalmente anticapitalista. Come recentemente sottolineato dal collettivo Désobéissance Ecolo Paris [22], dobbiamo costruire un’ecologia sensibile, popolare e offensiva, identificando le forze nemiche che strumentalizzano il pensiero ecologico e costruendo alleanze contro tre principali forze di devastazione: capitalista prima tra tutte, ma anche coloniale e patriarcale. In questa direzione, il pensiero di Federici è essenziale per comprendere la genealogia delle forze repressive.
Cosa resta dunque del progresso tecnologico, eliminato il progresso e la materialità dell’oggetto prodotto nell’industria del capitale? La risposta a questa domanda aperta non può che essere cercata nei nostri saperi, idee, esperienze. Esse vanno continuamente riorientate per costituire una conoscenza situata che, senza paura di misurarsi con l’innovazione tecnologica, ma cosciente del disastro ecologico promosso dallo storico processo di industrializzazione, riconfiguri i bisogni a partire da ciò che, al capitale, può e deve essere sottratto.
Note [1] H. Hester, Xenofemminismo, Nero, Roma 2018. [2] S. Federici, Genere e Capitale. Per una lettura femminista di Marx, a cura di A. Curcio, DeriveApprodi, Roma 2020. [3] Federici, Genere e Capitale, cit., p.38. [4] A. Curcio, Il femminismo marxista della rottura, in A. Curcio (a cura di) Introduzione ai femminismi, DeriveApprodi, Roma 2019, p. 12. [5] Federici, Genere e Capitale, cit., p.91. [6] S. Federici, Reincantare il mondo. Femminismo e politica dei commons, a cura di A. Curcio, Ombre Corte, Verona 2018 p. 197. [7] Federici, Genere e Capitale, cit. p. 51. [8] Ivi, p. 41. [9] F. Tomasello, Economie dell'invisibile, in F. Giardini - S. Pierallini - F. Tomasello (a cura di), La natura dell’economia. Femminismo, economia politica, ecologia, DeriveApprodi, Roma 2020 pp. 21-23. [10] C. Merchant, La morte della natura. Le donne, l'ecologia e la rivoluzione scientifica, Garzanti Editore, Milano 1988. [11] S. Federici, Calibano e la Strega. Le donne, il corpo e l'accumulazione originaria, Mimesis Edizioni, Milano 2020, pp. 264-269. [12] Merchant, La morte della natura, cit., p. 111. [13] S. Federici, Genere e Capitale, cit., p. 87. [14]C. Ciarleglio, Classe, progresso e sciopero delle donne. Intervista a Silvia Federici, «Commonware», 06 Marzo 2020. [15] Federici, Genere e Capitale, cit., p. 88. [16] A. Lorde, Gli strumenti del padrone non smantelleranno mai la casa del padrone, A. Lorde, Sorella outsider. Gli scritti politici di Audre Lorde, Il dito e la luna, Milano 2014. [17] G. Molinari - L. Narda, Sull'uso capitalistico delle macchine. Una genealogia, in Frammenti sulle macchine. Per una critica dell'innovazione capitalistica, DeriveApprodi, Roma 2020, p. 24. [18] F. Timeto, Come potrebbe essere diversamente. Produzione, riproduzione e tecnologie, «Machina», 26 marzo 2021 [19] Merchant, La morte della natura, cit., p. 111. [20] Federici, Genere e Capitale, cit., p. 85 [21] Ivi, p. 89. [22] C. Ciarleglio - M. Galeotti, Contro il concetto di transizione: per un'ecologia liberata! «Machina», 9 aprile 2021.
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