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«Dire quasi la stessa cosa» rischiando di affogare. Una contronarrazione possibile





In questo contributo per la sezione forme, Simona La Neve affronta il tema della «traduzione», del suo rapporto con l'arte e la letteratura, mostrando alcuni esempi famosi e chiarificatori di questo legame.


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«Io mi presentavo sempre come “traduttrice”» cita l’inizio di uno dei più noti frisbees, frammenti, appunti poetici dell’artista poetessa e traduttrice Giulia Niccolai. Nel campo delle arti visive del nostro Paese sono numerosi gli artisti che incorrono occasionalmente nella scienza della traduzione sia per motivi di lavoro o, divulgazione di autori ancora poco noti, che per atto di ricerca personale. Ma che ruolo ha avuto la traduzione e come tale pratica influenza l’operato visivo e teorico? Se dalle neoavanguardie si è inaugurata una fase di multidisciplinareità che ha avviato un’epoca sperimentale di «riscrittura» dal prototesto al metatesto, solo nel 1976 è stata accolta la proposta di chiamare Translation Studies un nuovo ambito di studio. Nella lettura coloniale e gender dei problemi derivanti dalla produzione e traduzione di testi, l’arte si è posizionata nello studio della desemantizzazione del gesto fino alle scritture radicali che attuano una sorta di pratica traduttoria. Ma c’è dell’altro? Sì, e nonostante ciò il più delle volte la traduzione, a oggi, nello studio delle biografie multidisciplinari, non viene rivelata ancora compiutamente nel ruolo che essa occupa nell’estetica di quell’autore/autrice e, per estensione, non ci viene rivelata una parte della narrazione del mondo.

Con una sorta di «riduzione di privilegi che la poesia si era autogarantita» [1] la scrittura dagli anni Cinquanta si mette in discussione in modo irriverente. Si fa uso con sempre maggiore frequenza di composizioni di testi multilingue, seppur figli dei grandi innovatori della prima metà del secolo. Il Gruppo 63 insieme poi al Gruppo 70 è forse considerato il perno da cui si caratterizza la maggiore sperimentazione linguistica portata fino alle sue estreme conseguenze. Si propaga così quell’eco interdisciplinare utile in ogni modo all’irriverenza. Testi poetici scritti da artisti e opere artistiche firmate da scrittori. E mentre alcuni realizzano traduzioni linguistiche come pratica professionale tra cui Luciano Anceschi, Umberto Eco, Giorgio Manganelli e Amelia Rosselli, altri emergono come rivoluzionari e visionari del Gruppo Fluxus – termine latino che significa flusso. Tutto si confonde e tutto si mette in ordine contestualmente. A cinquant’anni dalla nascita di questo movimento che promuoveva l’idea di un’arte ibrida, sono ancora molti gli aspetti che ce la fanno reputare una scuola d’arte o di pensiero. Nel 1965 quando l’artista Dick Higgins propone la parola intermedia per descrivere la sua attività artistica all’interno di altre discipline, non esclude neanche la traduzione in quanto atto linguistico. Pubblica quarantasette libri, tra cui una traduzione di Giordano Bruno. «Mi resi conto del suo ruolo [della traduzione] nello sviluppo del concetto di intermedia» [2].





Nella pratica di sperimentazione multisensoriale Fluxus il pittore e compositore Giuseppe Chiari scrive testi intendendoli come partiture sonore e performative, escludendo l’uso di pentagrammi canonici. È il caso di lavori come La luce (1966) un testo in italiano che poi traduce in lingua inglese, in forma di quadro. Tutto accade e tutto appare un accoramento gestibile, eseguibile. Nella Poesia Visiva mentre l’artista Vincenzo Accame diviene noto traduttore di testi sulla Patafisica, Giulia Niccolai, Andrea Spatola ed Emilio Villa sono gli artisti che probabilmente si occupano più di altri di veicolare sia traduzioni canoniche che contenuti visivi multilingue. Una serie di note poesie di Villa tradotte in latino e contenute in Verboracula (1981) sono strumento araldico di dedica all’artista e amico Luciano Caruso [3], le cui edizioni successive vedranno la collaborazione dell’artista Stelio Maria Martini. E mentre la traduzione pare essere fatto privato consolatorio, nello stesso anno si legge pubblicamente una delle riflessioni di Niccolai tra le più lucide, sulle tematiche che maggiormente legano l’influenza della traduzione alla sua pratica. Nella prefazione da lei scritta per la traduzione di Gertrude Stein de La storia geografica dell’America si fa inaspettatamente riferimento ad esempio a codici linguistici poetico-visivi in sintonia con quelli del repertorio traduttivo.






Emerge così il comune interesse con Stein di depistare il lettore tramite immagini visive [4] e di ridefinire gli usi degli strumenti della scrittura tra cui la punteggiatura, l’impossibilità di tradurre il testo alla lettera, le rime, le paronomasie e gli escamotages per attuarli [5]. Vi sono poi anche autori che solo sporadicamente si occupano di traduzione in senso canonico, come atto isolato. Non si tratta di «dire quasi la stessa cosa» [6] ma piuttosto di considerare il dibattito politico sull’autorialità nella biografia del traduttore sporadico. Lo scrittore e artista Nanni Balestrini ad esempio con la traduzione in tiratura limitata di Samuel Beckett [7], seppur motivato da un processo di studio privato e di ricerca personale, si delinea comunque con gli aspetti più squisitamente capitalistici della posizione minoritaria o maggioritaria di uno stato-lingua. Jorge Luis Borges, uno dei più importanti e influenti autori argentini e traduttori del XX secolo, crea dei marchingegni nei suoi testi detti mistraduzioni, infedeltà creative che hanno l’obiettivo di considerare l’atto del tradurre a livello politico. E se la pratica traduttiva appartiene alla riflessione su ciò che inteso come autore «primo» e ciò che è invece inteso come «derivato», si tratta, volendo, di destituire quell’idea che per lungo tempo si è conservata. Un’azione quasi manovale del «saper fare», esente di autorialità. Il monolinguismo (patriarcale) può essere destrutturato tramite una necessaria deculturalizzazione [8] dell’odierno ma si rende poi necessario porsi l’obbiettivo di «diventare nomade, l’immigrato e lo zingaro della propria lingua» [9] soprattutto in contesti migratori e coloniali. La pratica traduttiva che perciò si apre a sempre maggiori sperimentazioni sia di «riscrittura» che di «autotraduzione» [10], non può più essere intesa come mero esercizio di transcodificazione. A partire dall’assunto decostruttivista di Derrida della «traduzione come trasformazione» è necessario quindi ripensare una ri-significazione culturale dell’alterità includendo l’ambito della traduzione con più forza nel dibattito storico-artistico. Il rischio di non farlo è quello tipico del parlare mentre si mangia. Essere fragili di fronte al mondo e non fare bene né uno e, né l’altro. Ma se questa è l’epoca che se ci va male, invece, si affoga, allora è necessario tentare una maggiore contronarrazione dell’alterità ai domini linguistici e patriarcali. Con tutti gli strumenti possibili.



Note [1] R. Barilli, (1995) La neoavanguardia italiana. Dalla nascita del «Verri» alla fine di «Quindici», Manni, Lecce 2007, p.195. [2] G. Bruno, Sulla composizione di immagini, segni e idee, Willis, Locker & Owens 1591/1991, Dick Higgins (edited and annotated), Trans. by Charles Doria, p. 3. [3] E. Villa, Pythica Res, da Verboracula, in “Tau/ma” 7, Achille Maramotti Editore, Reggio Emilia 1981. [4] G. Niccolai nella prefazione fa riferimento alle immagini visive proposte da G. Stein intentendo i testi e le pagine come sequenze di fotogrammi atte a creare nella mente dello spettatore l’illusione del movimento. [5] G. Stein, La storia geografica dell’America, Tartaruga, 1981, p.11. [6] U. Eco, Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzione, Bompiani, Milano 2013. [7] S. Beckett, Soprassalti. Stirrings still, SugarCo, Varese 1992. [8] C. Lonzi, (1970) Sputiamo su Hegel. La donna clitoridea e la donna vaginale, Gammalibri, Milano, [on line] www.libreriadelledonne.it. [9] F. Guattari, G. Deleuze, Kafka. Per una letteratura minore, Quodlibet, Macerata 2021, p.35. [10] Aa. Vv, La traduzione femminista in Canada, D. Saidero (a cura di), Forum, Udine 2013.




Immagine 1: G. Bruno, Sulla composizione di immagini, segni e idee, Willis, Locker & Owens, 1591/1991, Dick Higgins (edited and annotated), Trans. by Charles Doria.


Immagine 2: G. Stein, La storia geografica dell’America, Tartaruga, 1981, Trans. By Giulia

Niccolai.


Immagine di copertina: G. Chiari, Chitarra con spartiti musicali, collage e tecnica mista su carta cm. 70×50, anni 90, collezione privata.


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Simona La Neve (1985), art researcher e docente, dopo studi in architettura si specializza alla Nuova Accademia di Belle Arti di Milano con una tesi conservata oggi all’archivio del Mart di Trento e Rovereto. Ha svolto ricerche e progetti curatoriali anche in ambito istituzionale (Inu, Roma; Politecnico, Milano; Bocsart, Cosenza). Si occupa oggi principalmente di scrittura come pratica artistica di resistenza empirica, endogena ed esogena. È suo tra altri, il saggio per i cinquant’anni di Vogliamo tutto di Nanni Balestrini («il manifesto», 19 maggio 2021).

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