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Didattica a distanza e logica dell'emergenza



Con questo articolo di Alessandro Palmi, docente di un istituto tecnico e membro dell'esecutivo nazionale Cobas Scuola, prosegue la riflessione sulla scuola nella pandemia e all’epoca della sua macchinizzazione, aperta due settimane prima dal contributo di Luca Perrone (https://www.machina-deriveapprodi.com/post/insegnare-con-le-macchine). Dedicheremo ulteriore spazio ad analisi provenienti dall’interno delle «fabbriche riproduttive», poiché ipotizziamo che queste siano luoghi di precipitazione dei processi di trasformazione e di nuova valorizzazione capitalistica, ma anche della possibile apertura di contro-percorsi necessari per la sua critica. Le domande poste a chiusura dell’articolo, che invita ad attrezzarsi di fronte alla prevedibile nuova spinta «riformatrice» di questa istituzione (il rullar di tamburi futurologico non lascia dubbi in merito), sono senza dubbio da riprendere.


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Dai primi tempi della pandemia, attraversando l’estate, c’è stato un cambio di acronimo, dalla Dad (didattica a distanza) siamo passati alla Ddi (didattica digitale integrata) che poi in caso di chiusura della scuola ridiventa la classica Dad, però di fatto contrattualizzata.

Questo introduce due distinti ambiti e due piani di lettura altrettanto diversi di questo fenomeno, che risultano mescolati all’interno della situazione emergenziale ma che, in prospettiva, si deve cercare di tenere ben separati; in particolare nell’ottica di comprenderne gli effetti e i possibili scenari futuri.

I due ambiti sono quelli relativi al campo più strettamente «pedagogico/didattico», nei suoi diversi aspetti, e quello relativo al campo che potrebbe definire «contrattuale/normativo», che comprende anche gli aspetti di riorganizzazione del lavoro e di estrazione di valore.

I due piani di lettura, che risultano per forza di cose interconnessi al limite di essere quasi inestricabili, sono quello che si basano sull’affrontare l’«emergenza» ̶ più in generale su cosa significhi «affrontare l’emergenza» ̶ e quello legato ai meccanismi di «ristrutturazione» e «riorganizzazione» che il capitale tende a mettere in atto in ogni snodo di crisi; ricordando che il capitale stesso se da un lato tende alla conservazione delle strutture di potere e dei meccanismi di valorizzazione, dall’altro non disdegna di sfruttare qualsiasi trauma o crisi per attuare salti di qualità ed ampliare la possibilità di mettere a valore nuove merci e ricreare nuove modalità di valorizzazione, nella sua tendenza pervasiva e totalmente assorbente.


L’ambito didattico e pedagogico

In ambito didattico si registrano diverse criticità; la prima, più ovvia, è la constatazione di come non sia possibile considerare scuola ̶ almeno per come dovrebbe essere intesa nel senso più nobile del termine ̶ un sistema dove la relazione diretta tra docente e discente e la ricchezza delle relazioni trasversali nel gruppo vengono sostanzialmente azzerate. Quello mediato dalla tecnologia e dalla macchina diventa giocoforza un sistema diverso, con regole e dinamiche differenti, dove viene persa la enorme quantità di informazione analogica della «comunicazione» [1] ci si ritrova quindi immersi in un contesto totalmente diverso da quello consueto, perfino al di là di quelle che sono le cause di questo cambiamento di contesto, dove giocoforza non sarà possibile ̶ né auspicabile ̶ riprodurre le dinamiche classiche.

Questa criticità, che sembrerebbe così ovvia da non meritare più di tanta attenzione, in realtà appare non ben compresa persino da una buona parte del corpo docente: troppi sono infatti i colleghi e le colleghe che semplicemente stanno cercando di riprodurre i «soliti» meccanismi presenti nelle scuole, riproducendo tutte le liturgie classiche e rischiando di finire intrappolati in un vortice di situazioni paradossali, a volte al limite del grottesco ̶ ad esempio l’imposizione di tenere accese le telecamere con mani e telefoni in vista o le interrogazioni da bendati ̶ senza rendersi conto che, cambiato il contesto, non è più possibile riprodurre meccanismi e relazioni che sono nati e successivamente strutturati e consolidati in un contesto totalmente diverso. Si tratta di un approccio che definirei «antiscientifico» o «antimaterialista». Inoltre, la pretesa di riprodurre pedissequamente il modello classico attraverso la Dad soffre di un ulteriore vizio ovvero il non tenere conto di quale sia la causa del cambiamento di contesto: esso non è dovuto ad un cambiamento indotto o voluto dal sistema ̶ o da una parte di esso ̶ né da una naturale evoluzione di processi in atto e neppure scelto dai partecipanti; ma è frutto di un evento traumatico di portata globale che ̶ al netto di tutto ciò che si potrebbe dire e potrà succedere ̶ è piombato sull’attuale organizzazione sociale come un tornado in maniera velocissima ed imprevedibile.

In particolare, durante il lockdown primaverile, come si poteva pensare di «riprodurre la scuola in forma Dad» senza tenere conto di quanto stava avvenendo ̶ lutti, paure, sospensione di diritti costituzionali, convivenza forzata, rischi economici serissimi e tanto altro che poteva e potrà ancora accadere nelle case di chiunque, quindi anche di docenti e studenti? Esiste il rischio di uno straniamento e di fare «come se il virus non ci fosse».

D’altra parte, il tempo trascorso dall’inizio della crisi pandemica ha fatto giustizia anche di coloro che nei primi tempi hanno tentato di magnificarne le sorti; oramai nessuno tenta più di sostenere la Dad in quanto tale, è opinione corrente e diffusa che non funzioni e non possa funzionare e solamente la paura ̶ indotta da una martellante azione dei media ̶ la rende digeribile per una grande parte di docenti e studenti.

Chi ha sperimentato la Dad come docente ha vissuto la frustrazione di parlare con una sequela di palline colorate con una iniziale all’interno di quadratini neri; ha avuto spesso l’impressione di parlar da solo; ha subito l’assenza quasi assoluta di feedback. In più, ad aggiungersi a questa alienazione, ha subito l’umiliazione di sentirsi dire che era «colpa»sua, che era incapace di sfruttare l’opportunità offerta dalle tecnologie. Così, mentre il suo lavoro veniva via via sempre più sussunto dalla macchina, che inoltre diventava sempre più strumento di controllo, il docente accumulava frustrazione su frustrazione (per approfondire gli effetti deleteri della Dad in campo strettamente pedagogico e didattico si rimanda ai tanti materiali scritti sul tema, facilmente reperibili in rete).

Va comunque detto che, purtroppo, molti docenti non hanno dato buona prova di sé in questo frangente: troppo spesso abbiamo visto il semplice tentativo di riprodurre le solite dinamiche di potere esistenti nel gruppo classe in presenza. Non a caso in molti hanno manifestato una nostalgia del «potere» indotto dal voto e la disperazione per le aumentate possibilità di «copiare», mentre in altri casi si è vista una certa mancanza di empatia nei confronti delle situazioni in cui si potevano trovare studenti e studentesse. Le modalità Dad «standard» sembravano dare per scontato che nessuno avesse problemi di connessione o che tutti avessero a disposizione stanze e Pc per poter studiare, mentre è certo che la maggioranza degli studenti era costretta a connettersi con smartphone e che il sovraffollamento e la carenza di device adeguati erano molto comuni ̶ tanto che i dati di dispersione e non raggiungimento in varie zone hanno superato il 30% del totale.

Ovviamente l’attitudine del corpo docente è stata variegata: se in tanti hanno messo in atto i comportamenti deleteri citati, molti altri docenti invece hanno cercato di mantenere i contatti, aiutato gli studenti e le studentesse, lottato contro l’esclusione e il digital divide e sono stati comprensivi verso gli studenti.

In generale si può affermare che l’ambito didattico è stato approfondito in particolare dal punto di vista dei discenti piuttosto che da quello dei docenti; varrebbe forse la pena di aprire una riflessione più approfondita proprio dal lato docente, per cercare di capire come il cambio di paradigma contenuto nella Dad e nella Ddi provochi profonde trasformazioni nel ruolo stesso della figura del docente, che vanno ben oltre ad un semplice cambio di contesto didattico e che mettono in discussione la natura stessa della prestazione lavorativa.


L’ambito contrattuale e normativo

Per quanto concerne il secondo ambito citato in premessa, è necessario fare molta attenzione a quanto sta avvenendo.

In primo luogo si può sostenere che se realmente si volesse considerare la Dad un mero incidente di percorso determinato «solamente» dall’emergenza pandemica, non sarebbe necessario approntare alcuna modifica dal punto di vista normativo. Basterebbero le «pezze normative» che l’amministrazione ha già messo in atto per permettere una chiusura più o meno sensata del precedente anno scolastico. D’altra parte i tentativi di contrattualizzazione della Dad (e della Ddi) messi in opera tra estate e autunno non hanno risolto nulla, rimanendo fumosi e contraddittori.

Nelle fasi iniziali il corpo docente è rimasto schiacciato in una tenaglia formata da un lato dalla pretesa obbligatorietà automatica della Dad ̶ che venne giustamente rifiutata ̶ e dall’altro dal fatto che la situazione estrema del lockdown primaverile ha richiesto una presa in carico della situazione venutasi a creare; questa contraddizione ha bloccato il corpo docente in una sorta di doppio vincolo: non si poteva non fare la Dad in una qualche forma, ma non si poteva (doveva) accettare che essa venisse imposta.

Questa contraddizione, che agisce a diversi livelli, ha bloccato ogni ipotesi di messa in discussione del modello imposto ed ha disarmato gli insegnati di fronte alle riunioni di organi collegiali e a tutte le varie attività legate alla funzione docente. Che credibilità e che prospettiva avrebbe avuto una dura opposizione a qualcosa che nei fatti era già in atto e a cui gli stessi docenti stavano prendendo parte?

Attualmente la situazione è cambiata. Messa alla prova dei fatti la Dad è entrata nel senso comune come meccanismo che non funziona ed anche i pasdaran del «nuovo che avanza», che hanno visto nella crisi un’opportunità per «ammodernare» la scuola, non hanno più lo spazio che speravano di avere, tanto che gli sforzi di normazione sono si sono mossi nella direzione di consolidare quanto concerne il nuovo acronimo Ddi (didattica digitale integrata).

Quindi la posizione di opposizione più forte potrebbe essere: non interessano gli aspetti normativo-burocratici, non si è interessati minimamente a regolare nulla di tutto quanto sta accadendo; perché deve essere chiaro che si tratta di un accidente, di un’emergenza, di una fase transitoria che deve terminare il prima possibile, che non si deve riproporre in nessuna maniera e non deve lasciare alcune eredità.

Sulla base di questa premessa ogni forma di regolamentazione o contrattualizzazione rischia di essere controproducente e di fatto contribuire a legittimare e stabilizzare anche in previsione future la Dad e la Ddi.

Però è abbastanza evidente, e non va ignorato, che ci saranno tentativi di introdurre in maniera strutturale la Dad nella versione Ddi all’interno della scuola; con questo ci si dovrà confrontare e su questo andranno costruiti analisi e strumenti per contestarla da un punto di vista teorico. Anche in questo futuro scenario non dovrà comunque essere preso come prioritario l’aspetto burocratico-normativo; sarà necessaria un’opposizione teorica, mettendo in campo un’analisi dei processi di valorizzazione e riorganizzazione del lavoro attraverso la macchina e contrastando la società del controllo informatico dell’istruzione gestito dai «Big Tech», richiamando in campo ̶ a questo punto sì ̶ il piano più strettamente didattico ed altro che dobbiamo ancora costruire.

Si dovrà esplorare con attenzione ̶ anche su questo in rete è già reperibile materiale interessante ̶ il ruolo delle piattaforme digitali private, senza dimenticare che queste hanno già messo al lavoro milioni di docenti e studenti in maniera totalmente gratuita, estrapolando un’enormità quantità di dati e dando il via ad una gigantesca sperimentazione sul campo che ha permesso alle Big Tech di mettere a punto le piattaforme stesse.

Per non parlare dell’idea di mettere di fatto l’intero sistema di istruzione di una nazione, con tutta la sua mole di dati, in mano a multinazionali che hanno sedi in chissà quali luoghi del pianeta e che neppure pagano le imposte nel paese stesso.


L’emergenza (continua)

Vale la pena di spendere due parole per confrontarsi sulla cosiddetta «emergenza». Va da sé che il discorso esposto sopra relativamente alla risposta urgente ed all’impossibilità concreta di eludere le attuali attività Dad, non può e non deve essere traslato automaticamente in situazioni diverse dal lockdown totale della primavera scorsa. È del tutto evidente che a un anno dell’inizio della pandemia, dopo aver terminato lo scorso anno scolastico ed aver valicato l’estate, non è ammissibile considerare ancora emergenziale la situazione attuale, questo indipendentemente dagli scenari della situazione epidemiologica; infatti, non possiamo più considerare come emergenza una situazione che si protrae da un intero anno, che sta diventando endemica e alla quale bisognerebbe rispondere in maniera strutturale uscendo, appunto, da logiche emergenziali per evitare che con questa copertura si mettano in atto operazioni di tutt’altro tipo.

Occorre quindi fare estrema attenzione ai possibili tentativi di utilizzare il cosiddetto «modello shock» (come ci suggerisce nelle sue opere Naomi Klein) per far passare attraverso risposte ad emergenze (vere o presunte, inattese o create ad arte) modifiche strutturali tese a restringere sempre più i diritti e gli spazi di libertà.

Nei mesi estivi e durante l’autunno sia il governo centrale che le autonomie locali non hanno fatto assolutamente nulla per rendere le scuole più sicure, non vi sono stati investimenti né provvedimenti ̶ se trascuriamo le idiozie come quelle dei «banchi a rotelle» ̶ è stato detto tutto ed il contrario di tutto, ma non si è fatto nulla riguardo alle concrete problematiche delle classi numerose, dell’affollamento sui mezzi pubblici, sul tracciamento a scuola e sull’istituzione di presidi sanitari di prossimità all’interno delle scuole stesse; tutte misure che avrebbero potuto permettere alla scuola di funzionare in condizioni di sicurezza sicuramente non peggiori di quelle che si registrano in altre situazioni e nella società in genere.

Semplicemente si è agito ̶ o per meglio dire non agito ̶ sulla base del fatto che sarebbe stato molto più semplice chiudere le scuole considerandole «strutture non essenziali e non produttive»; così è stato fatto, con l’aggravante del patetico balletto messo in piedi dai presidenti di regione interessati più a mettersi in mostra che ad affrontare realmente le problematiche.

Tutto questo ha portato ad un surrettizio allungamento dell’emergenza, imponendo una centratura della discussione sul tema scuole aperte/scuole chiuse, Dad sì/Dad no; oscurando altre tematiche che sono però molto importanti.

Per quanto riguarda l’aspetto della sicurezza e della chiusura delle scuole, si è fatta parecchia confusione. Da un lato si registra ̶ come d’altronde in molti altri campi ̶ una carenza di dati ed una mancanza di trasparenza: non è dato sapere quanti siano stati i reali focolai o cluster imputabili alle scuole; non si sa quanti effettivamente siano i deceduti e i ricoverati in terapia intensiva tra il corpo docente e il corpo studentesco e quanti di questi siano realmente imputabili alle scuole. Come detto la tendenza è stata quella di chiudere e basta, come se questo fosse di per sé sufficiente a contenere l’epidemia, cosa che si è dimostrata palesemente falsa anche durante queste ultime settimane in cui con tutte le scuole chiuse per vacanze e la zona rossa in molte giornate i contagi sono risaliti. Il reale messaggio passato è che la scuola ̶ con annesso il diritto all’istruzione ̶ fosse un sistema di secondaria importanza, che poteva essere chiuso o messo in quarantena parziale anche in presenza di pochissimi casi, mentre al contrario tante attività produttive devono continuare ad andare avanti sull’altare dell’economia anche in presenza di focolai conclamati.

Le scuole, se opportunamente gestite, non sono un luogo più insicuro di tanti altri ma, al contrario, possono servire come valido elemento di controllo dell’andamento epidemiologico; questo ovviamente presuppone che siano attive ed organizzate adeguate attività di screening e tracciamento che, oltre a evitare la diffusione interna alle scuole, permetterebbe di identificare mediante test a campione ripetuti sulla popolazione scolastica anche eventuali cluster esterni alle scuole.

Ovviamente per fare questo occorre un vero e proprio cambio di paradigma rispetto a quanto fatto finora, servirebbero investimenti e la comunità scolastica dovrebbe essere considerata come luogo centrale di esercizio dei diritti e un’attività strategica da preservare e far andare avanti.

In verità serve anche ri-discutere il ruolo e la funzione che il lavoro docente deve assumere: se viene equiparato ad un qualsiasi lavoro impiegatizio che può essere svolto in modo quasi indifferente in presenza o in smart working, allora non vi è alcuna necessità di investire sforzi e risorse per aprire le scuole.

Risulta quindi chiaro come dietro l’apparente dicotomie scuole aperte/scuole chiuse si nasconde molto di più di un generico problema di sicurezza in un contesto emergenziale; su questo sarebbe opportuna una profonda riflessione.

Rimane poi lampante il fatto che, al di là delle dichiarazioni di facciata, attività sostanziali volte a mettere in sicurezza le scuole si possono mettere in atto solo con le scuole aperte, solo in queste condizioni di possono mettere a punto le strategie di tracciamento, si può attivare un presidio sanitario dentro tutte le scuole e si possono sperimentare sul campo tutte le strategie più adatte; con le scuole chiuse si può solamente aspettare che passi la buriana, senza porre rimedio alcuno a tutti i danni che le precedenti chiusure hanno già provocato e continueranno a provocare.


Le prospettive

Lo scontro ed il dibattito sulle scuole aperte/scuole chiuse, tende anche ad oscurare una parte relativa al discorso di cosa sarà della Dad e della Ddi una volta terminata la crisi pandemica; ci sono due aspetti che si vorrebbero mettere in evidenza:

1. Ragionare sul perché, a quanto pare, una buona parte del corpo docente e degli studenti delle superiori non sembra essere disponibile a lottare per ottenere l’apertura delle scuole in sicurezza.

2. Capire cosa sottintendono affermazioni come «non si deve tornare come prima» oppure che «non si deve perdere l’occasione offerta dall’introduzione della DAD e della DDI per trasformare la scuola» che vengono ripetute in svariati contesti.

I due punti sono collegati: se è vero che i soggetti coinvolti non sono disposti a battersi per aprire un luogo come le scuole, questo indica probabilmente che di quel luogo non gliene importi molto, o che comunque non sono disposti a lottare per averlo. Quindi il primo punto, se verificato, darebbe sicuramente forza e sostanza alla seconda affermazione: se i principali soggetti che lo vivono non sono interessati alla scuola è evidente che questo ha necessità di essere cambiato.

Qui si aprono grandi quesiti che necessitano di analisi e approfondimento:

· Cosa indebolisce la scuola pre-covid?

· Perché tanta parte di chi ci lavora e di chi ci studia non è disposta a difenderla, a valorizzarla?

· Quali sono i progetti in campo che prefigurano la scuola post-covid?

Chiaramente non si è fatto altro che rideclinare come domande i punti precedenti; lungo l’asse che unisce le questioni sottese nelle domande, si cela una buona parte delle prospettive di intervento che ci possono essere nella «scuola del futuro».

In particolare, riferendoci al corpo studentesco piuttosto che a quello docente per il quale la scuola è pur sempre un «luogo di lavoro» con tutto ciò che questo comporta, si può notare una forte ambivalenza, tanto che attualmente si possono vedere i primi segni di mobilitazione che richiedono la fine della Dad, ma anche, nelle regioni dove i vari Tar hanno bocciato le chiusure delle scuole superiori da parte dei propri Presidenti, proteste e scioperi della presenza. Il dato quantitativo è che entrambi gli schieramenti sono assolutamente minoritari e la maggioranza di studenti e studentesse semplicemente non appaiono interessate al tema e non prendono alcuna posizione.

Non c’è lo spazio per approfondire il punto di vista studentesco in questa sede, si dovrebbero indagare i vissuti e le percezioni di studenti e studentesse che rappresentano una componente sociale che ha subito un forte impatto dalle profonde variazioni della società nel suo insieme, basti vedere come si è evoluto il dibattito sulla «condizione giovanile» negli ultimi decenni; tutto questo in una scuola che, a sua volta, è stata oggetto di trasformazioni profonde.

Dal primo dopoguerra l’istituzione scolastica è stata sempre governata dalla Democrazia Cristiana, tranne alcuni brevissimi periodi in cui la poltrona di ministro è stata ceduta ad esponenti di piccoli partiti alleati di governo. Bisogna attendere il 1995 per trovare un primo ministro ̶ di quella che allora si chiamava Ministero Pubblica Istruzione (Mpi) ̶ definito indipendente, ma di stretta derivazione confindustriale: si tratta del ministro Lombardi all’interno dell’esecutivo tecnico guidato da Lamberto Dini. Lombardi è stato poi seguito da Luigi Berlinguer, il ministro che tra il 1996 ed il 2000 da la stura alla cascata di riforme che da quel momento in poi hanno stravolto prima la scuola poi anche l’università.

Possiamo dire che dopo l’assaggio di Lombardi, con Berlinguer comincia l’operazione di asservimento totale del comparto istruzione da parte dei poteri economici dominanti, la conversione del diritto all’istruzione in elemento di mercato, la trasformazione dell’istruzione in merce; prendono il via i processi di aziendalizzazione e privatizzazione, questi passi iniziali di grande importanza sono identificabili con l’Autonomia Scolastica (L 59/1997 e DPR 275/1999), la Dirigenza (DLeg. 59/1998), la Legge di Parità (L 62/2000).

Da allora in avanti si sono alternati al ministero, che nel frattempo aveva cambiato nome in Miur ̶ unificando istruzione, università e ricerca, ma eliminando, significativamente, l’aggettivo «pubblica» ̶ , ministri di quelli che erano i due partiti cardine delle cosiddette alleanze di centrodestra e centrosinistra, cioè Forza Italia e Partito Democratico (nelle varie denominazioni che hanno assunto nel corso degli anni). Ciò che ha caratterizzato questo periodo, ricchissimo di riforme, è stata la sostanziale continuità degli interventi a dispetto della presunta alternativa politica, che ha portato ad una sostanziale equivalenza degli approcci messi in campo dai diversi schieramenti politici; a dimostrazione del fatto che l’operazione di fondo consisteva nello stravolgimento della funzione dell’istituzione e nell’asservimento alle logiche del mercato accennato anteriormente, ovviamente senza dimenticare una politica di enormi tagli ai finanziamenti ̶ che ammontano, considerando solo quelli fatti con la ministra Gelmini, a circa 8 miliardi annui [2].

Questo, molto sommariamente, il percorso per giungere alla situazione pre-Covid che ci consegna una scuola oramai sull’orlo del baratro, che ha perso qualsiasi identità e credibilità, all’interno di un processo di riorganizzazione ventilato nel «Recovery Plan» [3].

È su una scuola già messa in ginocchio che si è abbattuta la tempesta pandemica. In vista dell’uscita da questa contingenza si levano le voci del «nuovo che avanza» che arrivano dai soggetti e dalle direzioni più disparate; tra le schiere degli «innovatori» ritroviamo tutti coloro che hanno portato avanti le pseudo-riforme degli ultimi 20 anni, soggetti che non vogliono perdere l’occasione di accelerare la conversione di tutto il sistema scolastico nella direzione da loro auspicata.

Questo apre un grosso capitolo, che non è possibile affrontare in questa sede, ma che va assolutamente essere messo in agenda; si tratta di un lavoro importante che dovrebbe cominciare da subito anzi, dovrebbe essere già iniziato… ̶ pena il ritrovarsi disarmati di fronte alla prossima ondata «riformatrice» che verosimilmente si abbatterà sulla scuola con l’uscita dall’emergenza pandemica.

Parallelamente a quella che potremmo definire «analisi dei piani del nemico (di classe?)» sarebbe necessaria una riflessione autonoma in grado di prefigurare la «scuola che vogliamo», sia in termini di obiettivi strategici che di funzionamento quotidiano, sia dal punto di vista della didattica che della mission.

Perché è pur vero che non si vuole tornare alla scuola pre-covid, ma occorre anche fare attenzione che non si finisca per cadere in una scuola ancora peggiore: l’esperienza ci ha insegnato che al peggio non c’è fine e che una volta toccato il fondo c’è sempre il rischio che si cominci a scavare…


Note

[1] Cfr. P. Watzlawick ̶ J.H. Beavin ̶ D.D. Jackson, Pragmatica della comunicazione umana. Studio dei modelli interattivi, Astrolabio, Roma 1971

[2]Su questo punto si possono vedere materiali vari sui siti Cesp e Cobas

[3] V. l’interessante documento di Priorità alla Scuola (PaS) leggibile qui


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