Continuando con la «riscoperta» del percorso di ricerca politica di Romano Alquati, intrapreso da DeriveApprodi attraverso la pubblicazione negli ultimi due anni di importanti libri, proponiamo una lettura di Gigi Roggero degli scritti alquatiani sul sapere e sull’università. Sono particolarmente rilevanti i testi degli anni Settanta, sull’incorporamento del sapere sociale nel lavoro vivo e sull’università di ceto medio, analizzata a partire dall’affermazione dell’operaio sociale. Complessivamente comunque, come viene spiegato nel testo, l’industria della formazione, con le sue contraddizioni e potenzialità di conflitto, è stata al centro delle riflessioni e del modello alquatiano anche nei decenni successivi. Pubblichiamo oggi la seconda parte dell’articolo.
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L’operaio sociale tra autovalorizzazione autonoma e valorizzazione capitalistica
Già nelle note su «aut aut», un anno prima del ’77, Alquati utilizza la categoria di operaio sociale, forse per primo. Tuttavia non ci interessa la primazia cronologica, quanto invece la densità dello strumento concettuale. È un soggetto che nasce dall’incrocio tra lotte nelle fabbriche e lotte sociali, dall’incorporamento del sapere sociale nel lavoro vivo e dalle ambivalenti pratiche di autovalorizzazione, tra autonomia e individualizzazione, tra riappropriazione e professionalizzazione. Proprio la riappropriazione autonoma del sapere sociale costringe il capitale a un salto in avanti nell’industrializzazione della produzione di conoscenza, ponendo «questa valorizzazione autonoma come il parametro privilegiato sul quale adattivamente il padrone deve costruire le nuove forme di organizzazione complessa dei processi produttivi, e nella sua ristrutturazione del comando mediante elaboratore. Non è il vecchio discorso dell’organizzazione informale e del taylorismo che poteva funzionare solo affidandosi al “sapere operaio” come sapere organizzativo e innovativo ecc. dandogli in cambio salario un poco oltre la sussistenza. Adesso c’è qualcos’altro che cambia il senso dell’insieme. È un passo in avanti del sapere dell’operaio “sociale”, cioè di quell’operaio che ha dentro i lavoratori chiamati intellettuali dai padroni (gli “impiegati”) e i proletari intellettuali e gli intellettuali operaizzati. Operaio sociale anche perché ha saputo un poco uscire dalla fabbrica come ghetto del lavoro ultrasemplificato senza attenuare l’odio per le forme specificamente capitalistiche del lavoro produttivo alienato ricomponendosi autonomamente nella continuità della lotta che ha realizzato la sua continuità attraverso le scissioni e separatezze di ogni tipo»[1].
I proletari intellettuali, per Alquati, sono «le varie centinaia di migliaia di giovani proletari in età attiva (spesso da venti anni) che vanno affollando in modo crescente le scuole medie superiori e l’Università. Perché sono dei proletari? Perché possono vivere solo mercificando e rivendendo la loro forza lavoro, che altri usa e consuma per il proprio esclusivo tornaconto senza nemmeno preoccuparsi della produzione e della riproduzione di questa preziosa e malpagata merce. È un proletariato sia per condizione attuale che per estrazione. È un proletariato che ha un alto livello di scolarità e non ama a ragion veduta la condizione operaia odierna che quasi sempre ha già conosciuto»[2]. La variabile generazionale costituisce una qualificazione della dimensione proletaria, poiché determina l’affermazione di nuovi comportamenti e una nuova soggettività. I giovani proletari intellettuali, da ciò che emerge dalla ricerca del gruppo torinese di Scienze politiche, sono ad alta qualificazione e possiedono un elevato potere contrattuale, scegliendo dove e quando lavorare. Spesso preferiscono il mercato nero, ritenendo di poter così agire con maggiore libertà e meno vincoli, perfino optando per l’uscita dalla contrattazione del rapporto occupazionale. Questa uscita, secondo Alquati, si intreccia con altre due pratiche: la prima è quella dei movimenti collettivi, in cui il rifiuto delle forme schifose del lavoro concreto si lega alla valorizzazione e all’accumulazione; la seconda è la fuga verso il lavoro improduttivo non ancora sussunto al capitale. Questo intreccio, in cui si racchiudono i comportamenti soggettivi di operai e proletari, ha determinato la crisi del vecchio modo di valorizzare il capitale. È l’affermazione di una flessibilità di parte, agita nel rifiuto del lavoro salariato e nell’autovalorizzazione autonoma. Nel corso degli anni, separata dai movimenti collettivi e nella perdita delle possibilità di rottura con la controparte, quel processo di autovalorizzazione sarebbe stato individualizzato e sussunto dentro i nuovi meccanismi della valorizzazione capitalistica. A quel punto, nell’inversione dei rapporti di forza, la flessibilità sarebbe stata ribaltata in precarizzazione, mentre l’operaio sociale sarebbe restato sociale nelle maglie della valorizzazione capitalistica, avrebbe però cessato di essere operaio in quanto figura tendenzialmente ricompositiva. E tuttavia, quando negli ultimi anni si è parlato o peggio ancora pianto sulla precarietà, ci si è spesso dimenticati la sua genealogia di parte.
Pur concentrandosi sull’università come luogo-cerniera, dunque potenziale punto di accumulazione di controsoggettività e di applicazione della forza autonoma, Alquati afferma che è sbagliato identificare l’operaio sociale con l’operaio terziario o il lavoratore dei servizi, con un pezzo o un frammento, perché l’utilità di questa categoria sta invece nel «definire la nuova forma complessiva della classe operaia nella sua attuale ricomposizione»[3]. Nel definire, appunto, quella potenziale tendenza che lo qualifica nel senso dell’operaietà. Qui come in tutto il suo percorso, Alquati non commette mai l’errore di rovesciare la composizione tecnica in composizione politica, proprio perché al centro della sua riflessione c’è sempre la ricerca dei processi di ricomposizione della classe-parte proletaria e dunque di destrutturazione della controparte capitalistica. Al contempo, quasi a prevenire i successivi svarioni nelle analisi sulle novità del cosiddetto «postfordismo», non vi è alcuna contrapposizione o cesura netta tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, come se il primo fosse mero lavoro semplice e il secondo esclusiva manipolazione di informazioni e conoscenze. Forza lavoro semplice c’era già prima del taylorismo, e forza lavoro complessa di tipo nuovo vi è dopo il passaggio a esso. L’astrattizzazione riguarda infatti l’intero spettro delle figure del lavoro; quello intellettuale ha in questo processo addirittura meno vincoli di quello manuale, e assume livelli di svuotamento assai maggiori, ossia di tendenziale omogeneizzazione.
La sinistra non ha visto i processi di intellettualizzazione della forza lavoro per la sua «identificazione populista del lavoro manuale con il lavoro diretto». Non ha dunque capito, sottolinea Alquati, che «la manualità è stata una conseguenza, storicamente datata, della produttività della forza lavoro, intesa come capacità di produrre un valore maggiore del proprio valore. Ma c’è molto di paradossale nel pregiudizio (veramente piccolo borghese) di non volere uscire da determinati aspetti storici del “processo lavorativo”, e inoltre di storicamente determinate caratteristiche secondarie del lavoro utile, concreto, che l’astrattizzazione della forza lavoro procedendo ha ridimensionato. Lo sbocco è proprio di considerare “piccola borghesia” gli impiegati e in particolare quelli a più alta scolarità, benché siano sempre più di estrazione sociale proletaria e sempre più direttamente “consumati”, in quanto forza lavoro mercificata, nella valorizzazione del capitale. E il paradosso si moltiplica addirittura se si pensa che si chiamano poi ‘borghesi’ gli impiegati e gli impiegati che studiano; e li si marginalizza politicamente e sindacalmente, mentre, fra l’altro, la linea dei partiti storici mette in primo piano la rincorsa della piccola borghesia più tradizionale e paleocapitalista!»[4].
In questo passaggio di fase il punto, a differenza di altri operaisti, non è per Alquati fare i conti con la legge del valore, oppure all’opposto sforzarsi di dimostrarne la vigenza. Per lui, infatti, la radice di quella «legge» va rintracciata non nella supposta oggettività economica del processo produttivo ma nell’esigenza immediatamente politica del suo funzionamento per i padroni: non confondiamo – ci avverte – l’ipotesi della necessità capitalistica di fondare l’accumulazione del capitale sul plusvalore operaio con il falso problema di misurare il plusvalore. Bisogna cioè passare dalla teoria del valore alla teoria del plusvalore, concentrandosi sulla funzione di comando e accumulo di dominio che ricopre la misura, più o meno artificiale che sia.
Il punto è non fermarsi alla descrizione dell’eterogeneità delle figure del lavoro, non restare incantati dalla tassonomia della complessità e a questa incatenati. Il problema politico, allora come oggi, è «vedere, in un dato momento della storia della “composizione di classe”, quale tra le sue “forze motrici”, ovvero tra le sue parti traenti nella lotta anticapitalistica, ha un ruolo d’avanguardia nei confronti dell’intero movimento e in che modo riesce a farlo e con quali risultati e quale ne è la portata politica: quale tra le forze motrici è egemone e guida l’intero movimento di lotte del proletariato, è qual è il rapporto di questa egemonia con la composizione di classe in quel dato momento storico»[5].
Imparare a metterci in crisi
Il passaggio conflittuale degli anni Settanta, aperto dal ciclo di lotte dell’operaio massa e temporaneamente agito dall’autonomia dell’operaio sociale, è stato risolto dalla macro-parte capitalistica con la sconfitta dei movimenti antagonisti e con una ricomposizione allargata basata sulla nuova qualità della forza lavoro, costituita dall’incorporamento del sapere sociale. Alquati continuerà a dedicare un’attenzione particolare all’università, come luogo peculiare (ancorché non esclusivo) di produzione della formazione e della conoscenza in quanto merci, di snodo importante nel mutamento della qualità della forza-lavoro, delle sue capacità, delle sue competenze, delle sue aspettative, più complessivamente della sua soggettività. Negli anni Ottanta e Novanta non si appiattirà mai sulle retoriche del «post», anzi ne sarà sempre un feroce critico; allo stesso tempo, le sue elaborazioni non sono affatto recuperabili da coloro che, a partire da posizioni più o meno classicamente marxiste, dipingeranno un sistema complessivamente immutato, e in fin dei conti immutabile. Il problema è analizzare trasformazioni e cesure ai livelli di realtà in cui si collocano: all’immutabilità ai livelli alti del sistema, quelli dell’accumulazione di dominio, corrispondono alcuni mutamenti significativi ai livelli intermedi e più o meno veloci cambiamenti ai livelli bassi. Deriva da qui l’utilizzo del prefisso iper (iper-fordismo, iper-industria, iper-proletariato), teso a individuare la linea di continuità nella logica del rapporto sociale capitalistico consolidatasi nel corso del Novecento e i suoi balzi interni, nelle forme di produzione e nella composizione di classe.
Nel processo di incorporamento del sapere sociale nel lavoro vivo prende un abbaglio chi vi intravede un passaggio di liberazione, fedele a un’idea teleologica dello sviluppo delle forze produttive destinato di consegnarci le chiavi della fuoriuscita dalla civiltà capitalistica. Ancora una volta si scambia la composizione tecnica con la composizione politica, o si fa discendere in modo lineare questa da quella. Sbaglia ab origine chi, rifiutando di accostare l’occhio al telescopio, non vede neppure quel processo, oppure non ne trae le dovute conseguenze politiche. Sono questi i due poli dell’errore da cui Alquati mette in guardia fin dagli anni Settanta, ossia «di dimenticarsi che la forza lavoro è una merce, e delle armi che derivano da ciò, oppure di ridurla a una merce come tutte le altre, buttando via le armi che sono possibili grazie alla sua specificità[6]. Altrettanto vale per le peculiarità dell’incorporamento del sapere sociale nel lavoro vivo, quello che qualche tempo dopo avremmo chiamato «sapere vivo»[7].
Riesaminando il suo percorso, Alquati spiega come «dai primi anni Settanta, nella previsione della sconfitta dell’ondata dell’operaio massa, che pure non sembrava ai più avere ancora raggiunto il suo culmine, cominciai a studiare per conto mio proprio questo ceto medio in iperproletarizzazione, e l’industrializzazione della società e da un lato a parlare di intellettuali-massa e di proletariato intellettuale anche al di sopra della classe operaia; e dall’altra di “operaio sociale” e di una crescente nuova operaietà che [...] ora diventasse ancor più indipendente dalla manualità e muscolarità»[8]. Nel ’90 la talpa delle lotte studentesche si riaffaccia alla luce, è l’anno della Pantera; nel febbraio Alquati interviene a un seminario del movimento universitario torinese, la cui sbobinatura è pubblicata nel libro Cultura, Formazione e Ricerca (1994). In quella come in tutte le altre occasioni di confronto militante, Alquati non tenta mai di compiacere e blandire i suoi interlocutori, inveterato vizio degli intellettuali che vogliono avere un ruolo politico: al contrario problematizza i loro ragionamenti e modi di vedere, sfida e perfino provoca chi gli sta davanti per far loro immaginare dei passaggi in avanti.
Critica senza mezzi termini una postura di fondo che aleggia tra gli studenti «critici», l’idea cioè di un capitalismo buono e uno cattivo, di imprese buone e cattive, di merci buone e cattive, di un pubblico buono e di un privato cattivo. Ciò non consente di capire la lavorizzazione della formazione e della produzione di conoscenza, mistifica la funzione produttiva dell’università, confonde gli obiettivi e i macro-fini della lotta. Il punto di partenza della sua analisi è chiaro: «L’iperproletariato neomoderno in Italia è ormai un proletariato prevalentemente intellettuale; e viceversa la capacità-intellettuale e lo stesso sapere e conoscenza e cultura sono oggi le merci più centrali e tipiche per sistema: sia calde, nel corpo dei viventi, sia fredde e accumulate nelle memorie del sistema, come capitale-mezzi»[9]. Perciò non ci si può attestare sulla difesa di un sapere astratto, bisogna invece collocarsi dentro e contro l’industria della conoscenza, cogliendone le ambivalenze, piegandole tendenzialmente in una direzione antagonista.
L’ambivalenza centrale dentro l’università è situata nella riproduzione della «capacità-attiva-umana», che – già lo sappiamo – è una merce: «La Formazione è allora meglio definita “la riproduzione allargata del valore della capacità-attiva-umana come merce”, quindi il suo “incrementarla” o il suo “incremento”»[10]. Questa specifica merce viene prodotta e consumata (perlopiù distruttivamente e autodistruttivamente) per potenziare i ruoli della gerarchia capitalistica e la realizzazione di sovrappiù, e assai poco per arricchire la soggettività dei proletari intellettuali. In questa fase i mezzi sono sempre più ostili alla persona, anche il cosiddetto «capitale umano». Il lato dell’ostilità prevale quindi sul lato della potenzialità, per quanto l’ambivalenza non cessi e non possa cessare di esistere: e tuttavia, «non c’è alternatività se noi non la sviluppiamo (consapevolmente), e su adeguate scale e livelli»[11]. Allora, lottare per una formazione che arricchisca la capacità-attiva-umana, ecco un primo obiettivo; e su questa strada per una ri-formazione e contro-produzione di soggettività autonoma.
Bisogna quindi mettere in discussione la didattica, nell’università odierna più centrale della ricerca. Davanti ai problemi – dice Alquati – gli studenti vogliono una soluzione già data, oppure fuggono se i problemi restano aperti. Un certo grado di proceduralizzazione è necessario, ma non può esserci solo quella, pena la formazione di una soggettività proceduralizzata, quindi formata esclusivamente sui livelli bassi (anche nelle gerarchie di mercato è la meno retribuita). «Università critica», chiosa perciò Alquati riprendendo un abusato slogan dei movimenti studenteschi, è un’università «che non risolve tutti i problemi, ma accetta e propone la dimensione della problematicità come tale». In questo modo spinge gli studenti verso la ricerca in senso forte, cioè per sperimentare soluzioni non già date e pensate. E così, lungo questa direttrice, dovrebbero essere ri-formati i formatori per un’università critica, capace di mettere in crisi: «insegnare a passare per momenti di crisi, per la propria crisi, as usarla, per crescere»[12]. Mettere in crisi la nostra soggettività per ri-soggettivarci e mettere in crisi il sistema esistente.
L’intermedista militante nell’industria del sapere
Da queste brevi e parziali note è possibile comprendere il peculiare radicamento di Alquati nell’università, e il suo continuo sforzo per contro-utilizzare e curvare quella collocazione e le conoscenze prodotte verso un contro-percorso di fuoriuscita dalla civiltà capitalistica. Già negli anni Settanta, quando continuavano a prevalere delle pulsioni all’abbandono politico dell’università e una sostanziale incomprensione della sua baricentralità per la lotta di classe, il gruppo di ricerca torinese di Scienze politiche spiegava come il loro percorso fosse il frutto «di un impegno pratico e teorico non legato a una collocazione casuale entro il sistema occupazionale di alcuni “compagni” (divenuti professori, contrattisti, borsisti, assegnisti, precari vari all’università anziché qualcos’altro), ma connesso in modo forte all’ipotesi che le istituzioni formative siano una delle diverse “centralità” dello scontro politico in atto. In questo senso il rapporto “compagni”-lavoratori all’università va – si potrebbe dire in modo provocatorio – capovolto: non si tratta di compagni che scrivono anche sull’università, perché lì ci lavorano, non vedendo l’ora di “fuggire”, vincendo i complessi connessi al fatto di lavorarci, ma di lavoratori – occupati o sottoccupati in una specifica istituzione – o, come si usa oggi dire, operatori, che formulano delle ipotesi di lavoro teorico-politico conseguenti a un’analisi che consente di definire il loro rapporto con gli altri lavoratori, con le altre componenti del “sistema della forza lavoro”»[13].
In quello snodo Alquati si definisce un «intermediario specializzato», un «intermedista», termine che probabilmente può ben spiegare il suo complessivo percorso di conricercatore militante. È cioè un proletario intellettuale collocato «fra i capi addetti alle decisioni e alle elaborazioni strategiche e il terreno della loro applicazione a una prassi determinata»[14]. Lì, in quel radicamento progettuale sul medio raggio, si gioca la partita decisiva per il processo di organizzazione della macro-parte, senza cui si determina la separatezza tra il vertice che si chiude nell’autoreferenzialità dell’intellettuale e la base che si crogiola nell’autoreferenzialità della pratica.
Come intermedista militante, allo stesso tempo, Alquati ha agito per quella ri-formazione e arricchimento della capacità-attiva-umana nel confronto con i problemi aperti di cui si diceva prima. L’ha fatto con gli studenti, l’ha fatto su un altro piano con i militanti, innanzitutto quelli dei gruppi ristretti di discussione e ricerca che nel corso degli anni si sono creati attorno a lui. Nella sua qualità di formatore e contro-formatore, non si limitava mai alla mera trasmissione di conoscenze; operava per spingere avanti la capacità di ragionamento, per obbligare a non ripiegarsi su se stessi e sulle proprie certezze, per mettere in discussione ciò che di volta in volta sembrava acquisito, spiazzarlo, fare un salto. È questa una formazione al metodo di produzione del pensiero e non alla procedura della semplice applicazione di un sapere già dato. La parzialità irriducibile del punto di vista, sui livelli alti, si combinava con la continua rimessa in discussione delle proprie acquisizioni sui livelli medio-bassi di realtà. E poi da lì verso l’alto, nella produzione a spirale del percorso politico.
Oggi il processo di cetomedizzazione dell’università e di proletarizzazione anticipato da Alquati a partire dagli anni Settanta è compiuto e in crisi, e nuove bussole urgono per riorientare la vecchia direzione. Il problema che Alquati si poneva, tuttavia, non era di anticipare lo sviluppo capitalistico per poterlo meglio descrivere, bensì di anticipare per poterlo curvare, piegare, rompere. Ciò non è avvenuto, e da qui dobbiamo ripartire. Ancora una volta mettendo in produzione quel metodo: «per riuscire ad avere un ruolo che non sia di mera coda del movimento è necessaria la ricerca sul nodo della formazione: la ricerca volta a prevedere, ad anticipare, non a razionalizzare ideologicamente quello che già è avvenuto man mano che “spontaneamente” avviene quando il movimento di massa per l’appunto si “muove”. Il problema è generale: della strategia che serve a dirigere e della direzione politica che riesce ad anticipare secondo una strategia. Arrivare dopo non serve»[15]. Queste parole, scritte oltre quarant’anni fa, conservano intatta la loro fondamentale attualità di metodo complessivo e di contenuto specifico, per chiunque voglia scommettere progettualmente sulla possibilità di anticipare non solo i movimenti del capitale, ma innanzitutto i movimenti della classe.
Note [1] R. Alquati, Università di ceto medio e proletariato intellettuale, Stampatori, Torino 1978, p. 33. [2] Ivi, p. 116. [3] Ivi, p. 91. [4] Ivi, pp. 191-192. [5] Ivi, p. 81. [6] Ivi, p. 67. [7] Cfr. G. Roggero, La produzione del sapere vivo, ombre corte, Verona 2009. [8]Intervista a Romano Alquati, in G. Borio – F. Pozzi – G. Roggero, Futuro anteriore. Dai «Quaderni rossi» ai movimenti globali: ricchezze e limiti dell’operaismo italiano, DeriveApprodi, Roma 2002. [9]R. Alquati, Cultura, Formazione e Ricerca. Industrializzazione di produzione immateriale, Velleità Alternative, Torino 1994, p. 19. [10] Ivi, p. 22. [11] Ivi, p. 26. [12] Ivi, p. 12. [13] N. Negri – A. Sormano, Università di ceto medio, cit., p. 219. [14] Alquati, Università di ceto medio, cit., p. 27. [15] R. Alquati, L’Università e la formazione. L’incorporamento del sapere sociale nel lavoro vivo, «aut aut», n. 154, luglio-agosto 1976, p. 96.
Immagine: Cremona, Romano Alquati (primo a destra) con amici sconosciuti. Foto s.d. di sconosciuto.
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