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Da Reagan a Clinton: i percorsi del neoliberismo



Nella nostra «cartografia dei decenni smarriti», è di fondamentale importanza mettere a fuoco l’affermazione di quella fase definita «neoliberista» a partire dal luogo centrale in cui essa si è affermata, ossia gli Stati Uniti. «Avevamo in mente di cambiare un paese, abbiamo invece cambiato il mondo» diceva Reagan all’inizio del 1989. Per ripercorrere il «presente come storia», pubblichiamo l’estratto di un libro importante di Bruno Cartosio, L’autunno degli Stati Uniti. Neoliberismo e declino sociale da Reagan a Clinton (Shake, 1998). Il titolo fa riferimento all’ipotesi di Giovanni Arrighi e più in generale degli studiosi della World-systems theory, secondo cui gli Stati Uniti – a dispetto di quello che poteva sembrare – avevano imboccato la strada di un lungo e tutt’altro che lineare declino. Ad alcuni decenni di distanza, dentro una crisi globale che pare infinita, quella ipotesi e gli interrogativi che essa contiene, qui impostati e sviluppati da Cartosio, mostrano la loro lungimirante pregnanza.


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L’abbiamo visto crescere nelle cose, quel fenomeno che sarebbe stato chiamato neoliberismo reaganiano, prima ancora che l’uomo di Hollywood venisse chiamato a interpretare il ruolo di presidente degli Stati Uniti. Le teorie liberiste, da Friedrich August von Hayek a Milton Friedman, erano tutte disponibili da tempo. In periferia, il generale Pinochet a partire dal 1973 e Margaret Thatcher nel 1979 avevano già aperto la strada mettendole brutalmente in pratica. Al centro dell’impero, invece, il neoliberismo è cresciuto e si è diffuso prima nelle cose, reaganiano ante litteram nella seconda metà degli anni Settanta con il democratico Jimmy Carter alla presidenza degli Stati Uniti, per poi arrivare a imporsi come dottrina e visione generale del mondo a partire dalle presidenze Reagan negli anni Ottanta.

Attorno alla metà degli anni Settanta, lo sbandamento politico-istituzionale determinato dalle dimissioni di un presidente e un vicepresidente degli Stati Uniti e dallo scandalo Watergate, la sconfitta militare in Vietnam e la vulnerabilità economica sul piano interno e internazionale messa allo scoperto dalla crisi petrolifera avevano reso urgente la necessità di un reindirizzo rapido e, sostenevano alcuni, drastico di tutte le scelte economico-politiche. Il discredito accumulato dall’istituzione centrale dello Stato, la presidenza, e dalle sue politiche economico-militari aveva permesso di ampliare gli spazi d’azione dei sostenitori dell’iniziativa economica al di fuori dell’ombrello keynesista, mai rinnegato fino a quel momento dalle amministrazioni, democratiche o repubblicane che fossero. I monetaristi agitavano come urgenza indilazionabile la risoluzione del problema della stagflazione, cioè della crescita dell’inflazione nel contesto della stagnazione economica (invece che di una fase espansiva). Il senso di quell’agitazione – negli Stati Uniti come nel Cile del socialista Allende e nell’Inghilterra dei laburisti e dello Stato assistenziale – era però soprattutto dato dall’urgenza di riportare sotto controllo le turbolenze sociali e di classe. Erano state la persistenza dei movimenti d’opposizione e la crescita salariale espressa dalla maggiore fase di lotte operaie di questo secolo, tra il 1968 e il 1973 – dunque fino alla soglia di tutte le crisi – a rendere drammatica quell’urgenza e a indicare come prioritaria la linea dell’intervento reazionario e antioperaio sulla società e sull’economia che i monetaristi suggerivano [1].

Mentre i movimenti, da quello di liberazione nero a quello degli studenti e contro la guerra, erano reprimibili a mano armata, come dimostrarono Richard Nixon, Ronald Reagan, allora governatore della California, e J. Edgar Hoover, direttore dell’Fbi, le lotte e le conquiste salariali operaie non lo erano. Il «nuovo» vangelo monetarista-liberista – non per nulla Milton Friedman aveva ricevuto il premio Nobel per l’economia nel 1976 – veniva allora adottato, prima dal grande capitale in funzione antisindacale nei luoghi di lavoro e infine da Washington, sia come risposta specifica alle rovine del keynesismo assistenziale-militare di Johnson e Nixon, sia soprattutto come strumento complementare alla repressione politica diretta per evitare saldature pericolose sul terreno degli antagonismi sociali (come mostravano gli stessi successi conseguiti in periferia) e per mettere sulla difensiva la classe operaia sul terreno propriamente economico. Fu così che dal groviglio delle contingenze economico-politico-sociali vennero dipanati tanti fili diversi che poi furono intrecciati, un passo alla volta ma molto rapidamente, nell’intento di strangolare gli antagonisti interni ed evadere dalla prigione della stagflazione. Si trattò del «neoconservatorismo aggressivo» che si affermò con la vittoria elettorale di Ronald Reagan nel novembre 1980 e che però non era altro che – come scriveva David Harvey – «il consolidamento di ciò che era già in corso durante gran parte degli anni Settanta» [2].

Una parte dell’aggressività della nuova politica aveva anche l’obiettivo di «risollevare il morale della nazione» dopo la sconfitta militare in Vietnam. Si trattava di un obiettivo per raggiungere il quale fu necessario uno specifico, considerevole sforzo di mobilitazione ideologica contro vecchi e nuovi nemici; uno sforzo per molti versi analogo a quello trumaniano di una trentina d’anni prima. Si apriva una nuova fase nella lunga storia della Guerra fredda. L’Unione Sovietica, che il senso comune riconosceva essere stata indirettamente vittoriosa in Vietnam, ridiventava il nemico su cui cercare di prendersi la rivincita a tutti i costi. Anche su questo terreno non fu Reagan a fare i primi passi. Cominciò Carter, il quale, prendendo le mosse dall’intervento sovietico in Afghanistan nel 1979, impose l’embargo sull’esportazione di cereali verso l’Urss e decise il boicottaggio statunitense delle Olimpiadi di Mosca del 1980. Reagan proseguì, spingendosi molto oltre. Sullo stralunato e tragico teatrino della politica estera reaganiana, l’Urss divenne l’«Impero del male», il nemico demoniaco contro cui sarebbe stato inevitabile dover combattere presto la biblica battaglia finale di Armageddon. A fianco dell’Urss, ma in subordine, vennero agitati altri spauracchi di complemento: prima, da Reagan, l’Iran khomeinista e la Libia di Gheddafi; poi, dal reaganiano Bush, l’Iraq dell’ex alleato Saddam Hussein. Più sotterraneo veniva montato intanto il risentimento antigiapponese, per alimentare il revanscismo economico e «spiegare» con il facile ricorso allo «stile paranoico» quel declino americano le cui responsabilità andavano addossate a un qualche capro espiatorio e indirizzate lontano dai ceti politici ed economici dirigenti [3]. Persino il sindacato dell’auto, la Uaw, fece ricorso alla demagogia più sciovinistica e meschina presso i suoi iscritti per addebitare ai giapponesi le chiusure e i licenziamenti delle Tre grandi, che invece ristrutturavano drasticamente gli impianti e stringevano accordi di collaborazione con le case giapponesi [4]. E infine veniva attuata quasi in silenzio l’occupazione degli istituti della finanza mondiale (Fondo monetario, Banca mondiale ecc.) e la ridefinizione delle loro strategie finanziarie verso i paesi deboli del mondo. Uno degli effetti delle politiche reaganiane e dei programmi del Fmi e della Banca mondiale nei confronti dei paesi poveri è stato raddoppiare il divario tra paesi ricchi e poveri rispetto al 1960. In particolare, tra il 1982 e il 1990, scrive Noam Chomsky riprendendo Susan George, «vi è stato un trasferimento di risorse dai poveri ai ricchi dell’ordine di oltre 400 miliardi di dollari, pari grosso modo a sei Piani Marshall del Sud a beneficio del Nord» [5].

L’operazione del proprio salvataggio andò al di là delle più ottimistiche aspettative; si trasformò in una consistente, aggressiva ripresa d’iniziativa capitalistica e nel tentativo di ridisegnare la società statunitense a partire dai presupposti teorici dei neoliberisti della Scuola di Chicago. Anzi, come disse Reagan nel 1989, «avevamo in mente di cambiare un paese, abbiamo invece cambiato il mondo» [6]. Il grande capitale, con l’appoggio ideologico-politico e la mediazione di Washington, riprendeva il controllo dei processi di accumulazione e ne ridefiniva i termini, imponeva i propri criteri per la distribuzione della ricchezza sociale, cambiava la faccia del mercato del lavoro e il «posto» stesso del lavoro nella società. Ebbe un’accelerazione impetuosa anche quella «intensificata multinazionalizzazione» del capitale di cui Stephen Hymer e Robert Rowthorn avevano anticipato i segni nel 1970 [7]. Sia chiaro che il successivo «trionfo capitalistico degli anni Ottanta», come lo definisce Giovanni Arrighi per sottolineare proprio il successo di quella ripresa d’iniziativa, non implica né che tale ripresa abbia risolto i problemi dell’economia nazionale, né – tanto meno – che abbia portato, come in altri momenti, a una ridistribuzione della ricchezza tale da soddisfare la maggioranza della popolazione statunitense. Anzi, la meteorica belle époque del capitalismo reaganiano, scrive ancora Arrighi in modo più esplicito, è velocemente comparsa e subito svanita, «dopo aver aggravato, anziché risolto, le contraddizioni che erano alla base della precedente crisi spia» del lustro a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta [8]. In particolare, il reaganismo ha portato all’aggravamento della condizione sociale di milioni di persone, pur di sconfiggere la protesta sociale e operaia interna e di dare mano libera al big business, dopo aver falsamente riaffermato – in funzione puramente propagandistica – la coincidenza tra gli obiettivi di quest’ultimo e le strategie nazionali dentro e fuori gli Stati Uniti, proprio mentre prendeva corpo una «contraddizione fondamentale tra l’espansione transnazionale del capitale e delle grandi imprese statunitensi e i fondamenti nazionali del potere mondiale degli Stati Uniti» [9].

Nel perseguimento degli obiettivi della Reconquista reaganiana sono stati usati tutti i mezzi possibili – è opportuno non dimenticare né la guerra di bassa intensità condotta in America Latina, né le vicende dell’«Irangate» e dei traffici lungo il triangolo Iran-Washington-Nicaragua [10] – e si è fatto ricorso alla più spudorata e battente mistificazione ideologico-mediologica, come nel caso del cosiddetto «scudo spaziale». Una similitudine rispetto agli anni di avvio della Guerra fredda dopo il secondo conflitto mondiale, con la differenza che ora la popolazione statunitense ha ricevuto ben poco in cambio del proprio –richiesto-imposto – consenso patriottico a seguire quel «carismatico bugiardo alla Casa bianca» nella nuova crociata [11].

Una quarantina d’anni fa, scriveva Gore Vidal [12], l’allora Segretario di Stato John Foster Dulles aveva affermato che, nella corsa agli armamenti con l’Unione Sovietica, gli Stati Uniti l’avrebbero spuntata se fossero stati più ricchi della rivale. Grosso modo è andata così. Ma più recentemente, riferendosi alle fantasmagorie dello scudo spaziale – detto anche «guerre stellari» e, più propriamente, Strategic Defense Initiative – inventato da Reagan e dai suoi propagandisti come amo ideologico antisovietico, lo scienziato e scrittore Isaac Asimov diceva: «Non penso che le guerre stellari siano fattibili e penso che nessuno le prenda sul serio. Si tratta di un marchingegno per far andare in bancarotta i russi. Ma anche noi andremo in bancarotta» [13]. Asimov sbagliava soltanto nel ritenere che nessuno avrebbe preso sul serio i deliri della Sdi: come sappiamo, Boris Eltsin lo ha fatto. Non sbagliava invece quando prediceva la bancarotta anche per gli statunitensi. Infatti, la nuova guerra fredda reaganiana è stata un affare di dimensioni colossali solo per pochi; e anche per questi, ad esempio per la coccolata industria aerospaziale, le vacche grasse sono finite presto (come testimonia la fine della McDonnell-Douglas, assorbita dalla Boeing nel 1996). Non c’è dubbio che negli anni del reaganismo le cose sono andate sempre peggio per porzioni progressivamente sempre più ampie della popolazione. E rimane una questione aperta se abbia davvero salvato i destini del capitale.



Note [1] Per quanto riguarda gli scioperi, tra il 1966 e il 1975, essi furono mediamente 5207 all’anno, con oltre due milioni e mezzo di scioperanti e 40.760.000 giornate di lavoro perdute. Furono dei massimi storici: in nessun altro decennio della storia statunitense i lavoratori hanno scioperato di più; cfr. B. Cartosio, Gli Stati Uniti contemporanei. Le strade verso la superpotenza (1865-1990), Giunti, Firenze 1992, p. 166. [2] D. Harvey, La crisi della modernità, il Saggiatore, Milano 1993, p. 210. [3] Per decodificare i meccanismi fondamentali e ricorrenti di tale ricorso rimane una lettura fondamentale: R. Hofstadter, The Paranoid Style in American Politics and Other Essays, John Wiley & Sono, New York 1964. [4] Il sindacato giunse non solo a lanciare lo slogan «comprate americano!», ma anche a impedire che le auto di marca giapponese venissero parcheggiate nelle aree riservate ai dipendenti degli stabilimenti automobilistici statunitensi. Questo mentre le Tre grandi stringevano accordi di collaborazione con le «concorrenti» giapponesi che rendevano ridicoli quei comportamenti. «Che cosa è “americano”», si domanda Mehrene Larudee. «La Dodge Stealth, costruita da Mitsubishi, è un’auto americana? Anche le altre macchine GM, Ford e Chrysler costruite negli Stati Uniti sono piene di componenti da ogni parte del mondo. La Toyota Corolla e la Chevrolet Geo Prizm escono dalle stesse linee di montaggio della fabbrica GM-Toyota di Fremont, in California, e sono praticamente indistinguibili. Quale delle due è l’americana? Nel 1988 l’auto più venduta in Giappone era la Honda Accord, una “esportazione” prodotta dalla Honda nell’Ohio e la seconda era la Ford Probe, fatta nel Michigan dalla Mazda, nella quale la Ford ha una partecipazione del 25%». Le compartecipazioni incrociate hanno reso complicate le trattative commerciali tra Stati Uniti e Giappone e soprattutto permettono alle imprese di giocare sulle categorie di «nazionale» e «importata» traendo vantaggi fiscali e di altro tipo dai movimenti delle auto prodotte (Trade Policy: Who Wins, Who Loses?, in G. Epstein – J. Graham – J. Nembhard, a cura di, Creating a New World Economy. Forces of Change and Plans for Action, Temple University Press, Philadelphia 1993, p. 59). [5] N. Chomsky, I padroni dell’umanità, «l’Unità», 24 maggio 1993, p. 13. La pubblicistica in merito è ampia, quasi tutti i discorsi sulla «globalizzazione» toccano la questione. Oltre ai ricorrenti articoli che compaiono su «Le Monde diplomatique/il manifesto», si vedano almeno S. George, A Fate Worse than Debt, Grove Press, New York 1988; W. Bello, con S. Cunningham e B. Rau, Dark Victory. The United States, Structural Adjustment and Global Poverty, Pluto Press, in collaborazione con il Food First and Transnational Institute, London 1994; G. Caffentzis, Rompiamo il silenzio sulla fine della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale, «Altreragioni», n. 4, 1995, pp. 11-34. [6] Discorso dell’11 gennaio 1989, cit. in W. Bello et al., Dark Victory, cit., p. 105. [7] Cit. in G. Arrighi, Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo, il Saggiatore, Milano 1996, p. 397. [8] Ivi, pp. 414, 391. [9] Ivi, p. 399. [10] Si vedano almeno: D. Barry, Conflitti di bassa intensità: il caso dell’America centrale, «Primo maggio», n.27/28, inverno 1987-88, pp. 4-13; J.A. Bill, The Eagle and the Lion. The Tragedy of American-Iranian Relations, Yale University Press, New Haven 1988. [11] La felice definizione di Reagan è dovuta a D. Harvey, in La crisi della modernità, cit., p. 148. [12] «il manifesto», 29 gennaio 1992. [13] Cit. in B. Cartosio, Notizie dall’America, «Linea d’ombra», n. 70, aprile 1992, p. 4. La partita della Guerra fredda non ha avuto vincitori, solo perdenti («È indiscutibile che l’Unione Sovietica abbia perso […] Gli Stati Uniti hanno pagato un pesante prezzo economico, diplomatico e morale») è la tesi esposta in R.N. Lebow – J.G. Stein, We All Lost the Cold War, Princeton University Press, Princeton 1994; la citazione è a p. 3.




Immagine: Winston Smith, Ora di andare a letto per la democrazia, 1883.



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Bruno Cartosio ha insegnato Storia dell’America del Nord all’Università di Bergamo. È stato tra i fondatori delle riviste «Primo Maggio», «Altreragioni» e «Acoma». Tra le sue pubblicazioni: New York e il moderno. Società, arte e architettura nella metropoli americana (1876-1917) (2007); Stati Uniti contemporanei. Dalla Guerra civile a oggi (2010); I lunghi anni sessanta. Movimenti sociali e cultura politica negli Stati Uniti (2012); Verso Ovest. Storia e mitologia del Far West (2018), Dollari e no. Gli Stati Uniti dopo la fine del secolo americano (DeriveApprodi, 2020).

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