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Crisi e decadenza dell’azione politica


Sergio Bianchi, Mercato, collage, 2013

Nei confronti degli accenni sulla questione della «crisi della militanza», fin qui espressi in più interventi ospitati su Machina, si sono registrate da più parti reazioni infastidite quando non piccate.

Ora, a me pare che sia legittimo che alcun* militanti considerino il problema pretestuoso o addirittura inesistente, della serie «Tutto va bene, Madama la Marchesa» (citando Nunzio Filogamo) o «Bazzecole, quisquilie, pinzellacchere» (citando Totò), quindi chi questo pensa è bene che qui si fermi e passi tranquillamente al molto altro al mondo che resta da leggere ed eventualmente da discutere. Perché mai farsi del sangue amaro per questioni che si ritiene non esistano?

Per chi invece riconosce la sussistenza della «crisi della militanza», e più in generale la spinosa questione del «blocco dell’azione politica», vorrei contribuire ad aggiungere qualche nota al poco fin qui detto.

1.

Per iniziare utilizzerò le osservazioni (qui sotto riportate tra virgolettatura) fatte da Lanfranco Caminiti al testo di Chiara Scaletta pubblicato il 12 ottobre scorso.

«Genova 2001 era (è stata) una “cosa enorme”. Dov’era la sua enormità? Nell’apparizione e nel coagularsi di una nuova coscienza del lavoro, che (da Seattle in poi) indicava nei processi di globalizzazione della produzione le nuove filiere della valorizzazione».

Vero. Ma questa nuova coscienza era anche frutto di una ventennale incessante attività di studio e di ricerca sulle trasformazioni del lavoro postfordista che aveva mobilitato uno schieramento che andava dal militante politico di base al ricercatore e docente universitario. Un’area vasta e articolata di vecchie e nuova soggettività politica.

«Genova perciò non è un movimento politico, ma un movimento pre-politico – esso cioè non ha ancora scelto le forme della sua azione politica – tanto che in esso convivono gestualità inconciliabili come dinamica politica e comprensibili solo nella piazza, nello scontro».

Genova è un appuntamento internazionale dove convergono differenti progettualità, ciascuna delle quali aveva elaborato eccome una propria specifica azione politica (al di là della sua effettiva parzialità e quindi limitatezza, basti pensare alle diverse componenti italiane). Ma contrariamente agli appuntamenti internazionali che lo hanno preceduto, gli equilibri delle differenti componenti a Genova precipitano e si blocca un processo in qualche modo unitario che era fin lì cresciuto. A vent’anni dai fatti non è stata fatta sufficiente chiarezza sulle ragioni di quella precipitazione. E questo al di là dell’intelligenza dimostrata dal nemico nell’approfittarne immediatamente, nella contingenza, sul piano repressivo.

«Dopo Genova, non nasce un movimento politico nuovo enorme – ma si ritorna a frammenti di organizzazione, di soggettività, di teoria, ovvero alla riproduzione di quella stessa dinamica pre-Genova, che aveva anzi “costruito” Genova, ma dopo che Genova è accaduta. Che questo sia successo, non dipende certo dalla violenza della repressione, ma dalla insufficienza della risposta».

Questa è appunto la conseguenza di quel mancato chiarimento generale che ha poi comportato la mancanza di una strategia unitaria a livello internazionale sia rispetto all’avvio della guerra permanente planetaria che alla crisi del 2007-8. È fallita cioè quell’internazionale delle lotte che era andata pian piano costituendosi a partire dalla rivolta zapatista.

«Alla crisi del 2007-8, che è la prima vera crisi della globalizzazione, per estensione e profondità, si arriva perciò senza una teoria politica, senza forme dell’agire politico, senza un movimento politico. Si resiste».

Si resiste volontaristicamente (qua e là e sempre più flebilmente) senza una teoria politica che dimostri di funzionare efficacemente sul terreno pratico, nonostante l’enorme sforzo di elaborazione teorico profuso, e di conseguenza le forme politico-organizzative approntate nel ciclo pre e post Genova entrano in crisi e lentamente ma inesorabilmente si disgregano. L’urto è grave e, almeno qui da noi in Italia, si crea un buco generazionale nella riproduzione della soggettività politica che non si era prodotto neppure nella fase successiva alla grande repressione dei primi anni Ottanta che aveva sconfitto il ciclo dei movimenti rivoluzionari dei due decenni precedenti.

2.

Sul tema in questione, il prossimo gennaio le edizioni Quodlibet pubblicheranno un’opera di Paolo Virno di fondamentale importanza: L’idea di mondo. Intelletto pubblico e uso della vita. Quest’opera è composta da tre saggi, due dei quali (Mondanità e Virtuosismo e rivoluzione, già editi nel 1994 da manifestolibri nel volume Mondanità. L’idea di «mondo» tra esperienza sensibile e sfera pubblica). Riportiamo qua di seguito il testo della «scheda» del libro.

«Piccolo vademecum di un materialismo poco incline al pentimento e alla dissimulazione, questo libro raccoglie tre saggi avvinghiati l’uno all’altro come fratelli siamesi. Il primo, Mondanità, cerca di chiarire (con e contro Kant e Wittgenstein) che cosa significa la semplice parola “mondo”, con la quale indichiamo il contesto percettivo e storico in cui si svolge la nostra esistenza. Come bisogna intendere espressioni consuete quali “stare al mondo”, “il corso del mondo”, “gente di mondo”? Il secondo saggio. Virtuosismo e rivoluzione, è un minuscolo trattato politico: propone un insieme di concetti (moltitudine, esodo ecc.) in grado di affrontare la tempesta magnetica che ha messo fuori gioco le bussole cui si è affidata, dal Seicento in poi, la riflessione sulla sfera pubblica. Il terzo saggio. L’uso della vita, è l’enunciazione stenografica di un programma di ricerca sulla nozione di uso. Che cosa facciamo di preciso quando utilizziamo un martello, un lasso di tempo, un enunciato ironico? Ma, soprattutto, in che cosa consiste quell’uso di sé, della propria stessa vita, che sta alla base di tutti gli altri usi? Una ricerca in tre tappe in cui filosofia del linguaggio, antropologia e teoria politica si passano con naturalezza il testimone».


Ora, proprio in Virtuosismo e rivoluzione, pubblicato 26 anni fa (in realtà 27, perché la prima volta comparve nel quarto e ultimo numero della rivista «Luogo comune»), Paolo Virno svela, a mio parere, l’arcano della crisi, o meglio dire del blocco, dell’azione politica, che, si badi bene, non riguarda solo quella di segno «antagonista» o «sovversivo», ma proprio tutta, compresa quella «istituzionale». Questo arcano risiederebbe, riducendo il concetto alla sua massima sintesi da me involgarita, nel fatto concretissimo che il lavoro ha assorbito in sé i tratti distintivi, le prerogative, dell’agire politico, rendendolo una duplicazione superflua e quindi poco desiderabile.

Ma invece di avventurarsi in interpretazioni limitiamoci a leggere alcuni stralci dell’autore.

«(…) Secondo una lunga tradizione, l’ambito dell’agire politico può essere identificato a colpo sicuro tracciando due linee di confine. La prima, nei confronti del lavoro, del suo carattere strumentale e taciturno, di quell’automatismo che ne fa un processo ripetitivo e prevedibile. La seconda, nei confronti del pensiero puro, della sua indole solitaria e inappariscente. Diversamente dal lavoro, l’azione politica interviene sulle relazioni sociali, non su materiali naturali; ha a che vedere con il possibile e con l’imprevisto; modifica il contesto in cui si inscrive anziché infoltirlo di nuovi oggetti. Diversamente dalla riflessione intellettuale, l’azione è pubblica, consegnata all’esteriorità, alla contingenza, al brusio della moltitudine. Ecco ciò che insegna la lunga tradizione. Ma ecco, a un tempo, ciò su cui non si può più fare conto.

Le frontiere consuete tra Intelletto, Lavoro, Azione (se si preferisce, tra teoria, poiesi, prassi), hanno ceduto, dovunque si segnalano infiltrazioni e teste di ponte.

In queste note si sostiene: a) che il Lavoro ha assorbito i tratti distintivi dell’agire politico; b) che tale annessione è stata resa possibile dalla combutta tra la produzione contemporanea e un Intelletto divenuto pubblico, irrotto cioè nel mondo delle apparenze. In ultimo, a provocare l’eclisse dell’Azione è proprio la simbiosi del Lavoro con il general intellect, o «sapere sociale generale», che, secondo Marx, imprime la sua forma al «processo vitale stesso della società». Si avanzano poi le seguenti ipotesi: a) il carattere pubblico e mondano dal Nous, ossia la potenza materiale del generai intellect, costituisce il punto di partenza inevitabile per ridefinire la prassi politica, nonché i suoi problemi salienti: potere, governo, democrazia, violenza ecc. In breve, a quella tra Intelletto e Lavoro, va opposta la coalizione tra Intelletto e Azione, b) Mentre la simbiosi di sapere e produzione procura l’estrema, anomala e però vigorosa, legittimazione al patto di obbedienza nei confronti dello Stato, la connessura tra generai intellect e Azione politica lascia intravedere la possibilità di una sfera pubblica non statale. (…) Il confine tra Lavoro e Azione, dapprima sfumato, è infine scomparso del tutto. A giudizio di Hannah Arendt (con le posizioni della quale si vorrebbe istituire qui un confronto critico, anzi un attrito), l’ibridazione è dovuta al fatto che la prassi politica moderna ha introiettato il modello del Lavoro, somigliando sempre più a un processo di fabbricazione (il cui «prodotto» è, di volta in volta, la storia, lo Stato, il partito ecc.). Questa diagnosi va capovolta. Ciò che più conta non è che l’agire politico sia stato concepito come un produrre, ma che il produrre abbia incluso in sé molte prerogative dell’agire. Nell’epoca postfordista, è il Lavoro a prendere le fattezze dell’Azione: imprevedibilità, capacità di cominciare qualcosa di nuovo, performance linguistiche, abilità nel destreggiarsi tra possibilità alternative. Con una fatale conseguenza: rispetto a un Lavoro carico di requisiti “azionisti”, il passaggio all’Azione si presenta come una decadenza, o nel migliore dei casi, come una duplicazione superflua. Decadenza, per lo più: strutturata secondo una rudimentale logica mezzi/fini, la politica offre una rete comunicativa e un contenuto conoscitivo più grami di quelli esperiti nell’attuale processo produttivo. Meno complessa del Lavoro o troppo simile a esso, l’Azione appare comunque poco desiderabile. (…) Lavoro, Azione, Intelletto: sulla falsariga di una tradizione che risale ad Aristotele e che ancora valse come common sense per la generazione giunta alla politica negli anni Sessanta, Hannah Arendt separa con nettezza queste tre sfere dell’esperienza umana, mostrando la loro reciproca incommensurabilità. Sebbene adiacenti e perfino sovrapposti, i diversi ambiti sono essenzialmente irrelati. Anzi, si escludono a vicenda: mentre si fa politica, non si produce, né si è assorti nella contemplazione intellettuale; quando si lavora, non si agisce politicamente esponendosi alla presenza altrui, né si partecipa della «vita della mente»; chi è dedito alla riflessione pura, si sottrae provvisoriamente al mondo delle apparenze, e, quindi, non agisce né produce. A ciascuno il suo, sembra dire l’autrice di Vita activa, e ciascuno per sé. Pertanto, allorché rivendica con ammirevole passione il valore specifico dell’Azione politica, battendosi contro il suo rattrappimento nella società di massa, Arendt presuppone che le altre due sfere fondamentali, Lavoro e Intelletto, siano rimaste immutate per quel che riguarda la loro struttura qualitativa. Certo, il Lavoro si è esteso oltre misura; certo, il pensiero conosce la penuria e lo scacco: tuttavia, quello è pur sempre ricambio organico con la natura, metabolismo sociale, produzione di nuovi oggetti, e questo è ancora un’attività solitaria, di per sé estranea alla cura degli affari comuni. (…) Come del resto è evidente, il discorso qui intrapreso si oppone in radice allo schema concettuale proposto da Arendt, nonché alla tradizione cui esso si ispira. Ricapitoliamo brevemente. La decadenza dell’Azione dipende dalle modificazioni qualitative intervenute sia nella sfera del Lavoro, sia in quella dell’Intelletto, dacché si è stabilita una ferrea intimità tra l’una e l’altra. Congiunto al Lavoro, l’Intelletto (come attitudine o facoltà, non già in quanto repertorio di speciali conoscenze) diviene pubblico, appariscente, mondano: viene in primo piano, cioè, la sua natura di risorsa condivisa o di bene comune. Reciprocamente, quando la potenza del general intellectcostituisce il principale pilastro della produzione sociale, il Lavoro prende l’aspetto di una attività-senza-opera, somigliando in tutto a quelle esecuzioni virtuosistiche che si basano su una evidente relazione con la “presenza altrui”. Ma cos’altro è il virtuosismo, se non il tratto caratteristico dell’agire politico? Bisogna concludere, pertanto, che la produzione postfordista ha assorbito in sé le tipiche modalità dell’Azione, e proprio così ne ha decretato l’eclisse. Naturalmente, questa metamorfosi non ha alcunché di emancipativo: nell’ambito del Lavoro salariato, la virtuosistica relazione con la «presenza altrui» si traduce in dipendenza personale; l’attività-senza-opera, che pure ricorda da vicino la prassi politica, è ridotta a modernissima prestazione servile (…)».


Un’argomentazione limpida su una questione cruciale, che credo smentisca chi (fonte autorevolissima) ha definito Virno fautore di una «filosofia astratta». Mah… forse bisognerebbe ricordare di Virno, a ulteriore smentita del suo «astrattismo», e a beneficio della crescita della nostra intelligenza, tutti i suoi altri libri, e in specifica connessione col tema qui in discussione in particolare due: Convenzione e materialismo. L’unicità senza aura e Grammatica della moltitudine. Per una analisi delle forme di vita contemporanee, entrambi editi da DeriveApprodi.

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