What Is Antiracism? And Why It Means Anticapitalism (Verso 2023) è il titolo dell’ultimo lavoro dello studioso e militante antirazzista Arun Kundnani. La domanda non è ingenua né retorica. È piuttosto il punto di arrivo di una riflessione maturata nei mesi dell’«insurrezione» di Black Lives Matter nel 2020, sollecitata dall’impressione che «si stesse slittando da una definizione di razzismo a un’altra»; un discorso e una pratica antirazzista che «invece di guardare alle macro-aggressioni delle forze di polizia si concentrava sulle micro-aggressioni legate a pregiudizi individuali». È qui che l’autore ha collocato la domanda: «Che cosa è l’antirazzismo?», sollecitando una riflessione che interroga direttamene la natura della lotta antirazzista. In questo testo - e nel libro che il testo presenta - ripercorre due differenti tradizioni antirazziste nel corso del XX secolo: un antirazzismo liberal che vede il problema in chiave psicologica e culturale e un antirazzismo radicale che rintraccia le origini del razzismo nella costituzione materiale dei rapporti sociali capitalistici. Sullo sfondo ma non in secondo piano, presenta «le nuove infrastrutture della violenza» che hanno governato la «svolta» neoliberale del razzismo: la polizia nelle strade, nei penitenziari e lungo i confini; gli agenti del dominio capitalistico incaricati di gestire la riorganizzazione delle gerarchie della razza imposta dalle lotte anticoloniali e del proletariato bianco e Nero, nella seconda metà del secolo scorso. Lottare per smantellare le infrastrutture della violenza razzista neoliberale e tutto il sistema giuridico, sociale, culturale e affettivo che le rende possibili, è il senso che Kundnani da all’«essere antirazzisti oggi».
Il testo è stato presentato, in conversazione con Ruth Wilson Gilmore, lo scorso luglio a Londra, in occasione del lancio del libro [1]. Si ringrazia l’autore e l’ISRF per la possibilità di riprodurre il testo.
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Ho iniziato a pensare al libro What Is Antiracism? And Why It Means Anticapitalism? nell'estate del 2020, quando negli Stati Uniti, dove vivo, almeno 15 milioni di persone partecipavano all'insurrezione di Black Lives Matter, dopo l'omicidio di George Floyd da parte degli agenti di polizia di Minneapolis. Secondo un sondaggio della Monmouth University, la maggioranza degli americani riteneva che l'incendio del distretto di polizia a Minneapolis fosse del tutto o in parte giustificato come metodo di protesta antirazzista. È stato un momento straordinario. Come per ogni movimento, i partecipanti erano motivati ciascuno da punti di vista ed esperienze differenti. Al centro di tutto, però, c'era l'obiettivo di ridurre i finanziamenti alla polizia, abolire le carceri e smantellare l'Immigration and Customs Enforcement. Tutte le forze di polizia, comprese quelle carcerarie e di frontiera erano accusate di fomentare la violenza piuttosto che contrastarla; non si trattava cioè di organizzazioni utili alla nostra tutela ma di infrastrutture dedite alla violenza razzista e alla costruzione di ineguaglianze. Il problema non erano solo gli agenti che, nelle strade, nei penitenziari e lungo i confini non rispettavano le regole di condotta professionale. Il problema era il carattere stesso delle regole. Le persone che sono scese in strada hanno capito che il razzismo è una forza strutturale. Non chiedevano un intervento di riforma delle forze di polizia attraverso una migliore formazione degli agenti o una maggiore presenza di agenti non bianchi; chiedevano il loro smantellamento.
Nel pensare al libro, tuttavia, ciò che mi interessava particolarmente, era il modo in cui le istituzioni della sinistra liberal in America avevano risposto all'insurrezione. Ovunque si guardasse, bianchi liberal parlavano di come superare pregiudizi inconsci, ridurre le micro-aggressioni nelle relazioni interpersonali, rappresentare meglio le diverse identità, educare a dismettere i pregiudizi individuali e fermare l'estremismo di destra. Mi sembrava che si stesse in questo modo slittando da una definizione di razzismo a un'altra. Invece di guardare alle macro-aggressioni delle forze di polizia, nelle strade nelle carceri e lungo i confini, si concentravano sulle micro-aggressioni legate a pregiudizi individuali.
Due tradizioni antirazziste
Il punto di partenza del libro è quindi la necessità di distinguere tra due tradizioni antirazziste molto diverse: una liberal, l'altra radicale.
La tradizione liberal vede il razzismo essenzialmente come una questione di credenze e atteggiamenti irrazionali. I suoi capostipiti, come l'antropologa Ruth Benedict e il pioniere dei diritti dei gay Magnus Hirschfeld, erano interessati a comprendere l'ascesa del nazismo negli anni Trenta. Giunsero alla conclusione che, nelle società in cui i pregiudizi razziali erano diffusi, la democrazia liberale poteva essere minata da estremisti politici che infiammavano l'odio razziale per ottenere il potere. Per eliminare questo pericolo, invitavano l'establishment a persuadere le masse, soprattutto quelle povere e non istruite, che le opinioni razziste non hanno basi legittime.
Questo approccio rimane al centro dell'antirazzismo liberal di oggi, lo vediamo nell'entusiasmo per l’educazione alla diversità - un business da 4,3 miliardi di dollari negli Stati Uniti - o nella speranza che una migliore rappresentazione della diversità nei film di Hollywood ci educhi a superare i nostri pregiudizi. Gli americani liberal cercano cioè di eliminare gli atteggiamenti razzisti sia nell'inconscio che nella mente cosciente.
La tradizione radicale, invece, vede il razzismo in relazione a come le risorse economiche sono diversamente distribuite tra i gruppi razziali. In un articolo del 1938 sul razzismo in Africa, ad esempio, lo scrittore caraibico CLR James sosteneva che il razzismo coloniale britannico non era un insieme di credenze o atteggiamenti, ma una struttura di regole e politiche sociali generalmente osservate che consentivano lo sfruttamento economico. Gli atteggiamenti razzisti individuali esistevano senza dubbio ma non erano il fattore decisivo.
Allo stesso modo, lo psichiatra martinicano Frantz Fanon ha sostenuto nel 1956 che dovremmo abbandonare l'abitudine «di considerare il razzismo come un atteggiamento mentale e una tara psicologica». Piuttosto, «l’oppressione militare ed economica quasi sempre precede, prepara e legittima» le credenze razziste . E questa «oppressione sistematica di un popolo» può continuare anche se la maggioranza dei cittadini non ha pregiudizi razzisti, inconsciamente o meno.
Gli antirazzisti radicali sostengono che l'unico modo per combattere questa oppressione è costruire organizzazioni autonome con il potere di smantellare i sistemi sociali esistenti e costruirne di nuovi. Per loro, il razzismo è strettamente legato al capitalismo. In parte perché il razzismo indebolisce la lotta di classe, dividendo i lavoratori bianchi dalla maggior parte dei lavoratori del resto del mondo. Ma soprattutto, la razza fornisce il mezzo attraverso il quale il capitalismo può sfruttare più intensamente alcune categorie di lavoratori - gli schiavi, gli indigenti, i contadini colonizzati, i lavoratori migranti - e trovare la giustificazione per disfarsi di quelli ritenuti superflui per l'economia.
Il libro ripercorre la storia di queste due tradizioni di antirazzismo attraverso il XX secolo. La tesi che sostengo è la seguente: se è vero che l'antirazzismo liberal ci ha fatto fare qualche passo avanti nel miglioramento delle relazioni interpersonali, negli ultimi decenni, con il neoliberismo, è diventato incapace di contrastare le nuove strutture del razzismo.
Le implicazioni razziali del neoliberalismo
Per comprendere questa incapacità, dobbiamo mettere a fuco i limiti presenti nella storia del neoliberismo che la sinistra bianca tende a raccontarsi. Nella versione britannica di questa storia, si parte dalle conquiste del governo laburista del 1945, da quando, dopo una lunga lotta, siamo riusciti finalmente a creare un sistema di welfare «dalla culla alla tomba» che ci permetteva di vivere in modo dignitoso, con un lavoro salariato per tutti, la pensione, l'istruzione, la casa e la sanità universali. La storia prosegue, poi, con i capitalisti che sono stati in grado di approfittare delle crisi degli anni Settanta per reagire contro lo Stato sociale. Prima Pinochet in Cile. Poi Thatcher e Reagan. Le società più egualitarie della metà del XX secolo hanno lasciato il posto a una cultura competitiva in cui i poveri erano ritenuti responsabili del proprio destino. I principi di solidarietà sociale sono stati stracciati e ogni aspetto della vita è stato sottoposto alla logica dei mercati, dalla democrazia alle frequentazioni. Oggi, la storia indica che il compito della sinistra è quello di invertire la trasformazione neoliberista degli ultimi cinquant’anni. Qualcosa di simile a ciò che è stato al centro dei movimenti nati intorno a Jeremy Corbyn e Bernie Sanders.
Questa storia, tuttavia, è una storia parziale. Tralascia il fatto che il progetto neoliberista ha comportato la creazione di nuove e particolari forme di dominio razzista e neocoloniale. L'impulso alla svolta neoliberista è venuto dalla decolonizzazione nel Terzo Mondo e dalla lotta dei Neri negli Stati Uniti tanto quanto dalla sinistra bianca in Occidente. Il pensiero neoliberista, infatti, vedeva il lavoro organizzato in Occidente e il nazionalismo anticoloniale come minacce equivalenti e correlate. Come disse Lionel Robbins, uno dei primi pensatori neoliberisti: «"Le miniere per i minatori" e "Papua per i papuani" sono slogan analiticamente simili».
Man mano che i think tank, i politici e gli intellettuali neoliberali acquisivano influenza politica, lavoravano con i governi occidentali per configurare nuovi confini razziali globali e nazionali in sostituzione di quelli più vecchi che erano stati indeboliti dalla decolonizzazione e dal movimento per la libertà dei Neri.
Il razzismo di oggi non è, come viene comunemente inteso, una sbornia del passato, ma un'infrastruttura di oppressione generata, nell'ultimo mezzo secolo, dalla riconfigurazione da parte del neoliberismo delle vecchie strutture del razzismo. Ciò è stato possibile perché gli intellettuali neoliberisti si sono concentrati sulle condizioni culturali ritenute necessarie per imporre la disciplina di mercato. Avevano capito che i mercati «liberi» dipendevano dalla disponibilità delle persone a perseguire i propri desideri attraverso i meccanismi del mercato e ad accettare la distribuzione delle risorse che questi generavano. Volerlo o meno era una questione di valori culturali. E gli intellettuali neoliberisti erano profondamente preoccupati che questi valori si estendessero al di fuori dell'Occidente.
Man mano che il progetto neoliberale si sviluppava, diventava chiaro che vaste fasce dell'umanità sarebbero rimaste fuori da quell’ordine di mercato. Con il neoliberismo intere popolazioni sono state sradicate dai mezzi di sussistenza preesistenti, senza poter essere assorbite nel mercato del lavoro neoliberale. Queste popolazioni ritenute eccedenti per i mercati sono ciò che il teorico camerunense Achille Mbembe chiama i «soggetti abbandonati», soggetti di cui il capitalismo non ha alcun bisogno.
Governare la popolazione «in eccesso»
A queste popolazioni, ritenute «in eccesso» rispetto all'ordine del mercato, il neoliberismo doveva essere imposto con la forza. Il mondo che i neoliberisti volevano poteva essere creato e conservato solo attraverso il massiccio ricorso alla violenza militare, economica e sui confini. E hanno giustificato questa violenza con la filosofia che presenta le altre culture carenti per natura. Meno consenso universale il neoliberismo riceveva, più i neoliberisti si affidavano a un'idea razzista di cultura per gestire le loro ansie, organizzare le loro proposte e legittimare le loro aggressioni.
Sono queste popolazioni «in eccesso» - sia all'interno che all'esterno dell'Occidente - i bersagli delle nuove infrastrutture di violenza che il neoliberismo ha generato. Sono le decine di migliaia di persone fuggite dalla distruzione dei loro Paesi solo per subire la morte politica annegando nel Mediterraneo. È l’umanità usa e getta massacrata su scala industriale nelle guerre globali al terrorismo e alla droga - con una stima di 3,6 milioni di morti indiretti nelle zone di guerra post 11 settembre in Afghanistan, Pakistan, Iraq, Siria e Yemen.
Nel Regno Unito, la violenza della polizia è diretta il più delle volte contro le persone svantaggiate, che sono sopratutto i Neri. Negli Stati Uniti, come ha dimostrato Ruthie [Ruth Wilson Gilmore], l'incarcerazione di massa va spiegata alla luce della necessità di gestire le risorse, la terra e le popolazioni in eccesso. Non è una coincidenza che i think tank coinvolti nella promozione dell'economia neoliberale siano stati spesso anche i principali promotori di progetti razzisti nel campo della polizia, dell'incarcerazione e dell’antiterrorismo.
Non si tratta semplicemente del fatto che il razzismo è diventato più sottile o inconscio dopo che le sue forme palesi sono state sconfitte. È piuttosto che non c’è stato più bisogno di ricorrere ad affermazioni e situazioni esplicite razziste. Le disuguaglianze razziali sono state riprodotte attraverso il sistema di mercato del neoliberismo, insieme alle infrastrutture di violenza governativa che, di recente, si sono intensificate in nome di preoccupazioni apparentemente neutre rispetto alla razza in materia di criminalità, migrazione e terrorismo. Le nozioni liberal di diversità e inclusione sono completamente compatibili con queste forme di violenza strutturale razzista. I bianchi liberal possono anche eroicamente confrontarsi con i loro pregiudizi inconsci ma le strutture della violenza razzista rimarranno.
Gli antirazzisti liberal invocano l’uso di un vocabolario razzialmente corretto ma abolire una parola non abolisce le forze sociali che esprime. Attuano programmi di formazione sulla diversità, che però falliscono, a causa dell'errata premessa che il razzismo risieda oggi principalmente nell’inconscio. E parlano di «discorsi d’odio» e «crimini d’odio», partendo dal presupposto che la crudeltà dell'oppressione sia espressione di una disposizione all'odio - ma ignorano i dirigenti d'azienda, i gestori di patrimoni, i legislatori, i funzionari governativi, i giudici, gli agenti di polizia, le guardie carcerarie, il personale militare e gli ufficiali dell'immigrazione che, senza atteggiamenti d'odio, gestiscono abitualmente e tranquillamente infrastrutture di violenza razzista, in nome della sicurezza e del profitto. Nel ricondurre il razzismo all'inconscio, all'uso di parole inappropriate e agli estremismi, l'antirazzismo liberal finisce per assolvere le istituzioni che sono le maggiori responsabili delle pratiche razziste. Riescono a far sì che un maggior numero di «persone di colore» occupi posti di responsabilità nelle forze di polizia, nelle agenzie di frontiera e nelle forze armate, ma non riescono a far sì che meno «persone di colore» vengano uccise da queste stesse istituzioni.
Essere antirazzisti oggi
Essere antirazzisti oggi significa lavorare collettivamente per smantellare le infrastrutture razziste lungo i confini, nelle forze di polizia, nelle carceri e nelle forze armate. Significa organizzarsi nella comunità per far uscire la polizia dalle nostre scuole, intraprendere azioni dirette contro le deportazioni e affrontare le multinazionali che commerciano nella violenza coloniale in Palestina. Significa capire che i poveri del Sud globale hanno diritto alle risorse del mondo tanto quanto i ricchi residenti del Nord. In ultima analisi, essere antirazzisti oggi ci impone di costruire un'economia della cura, non della morte, che favorisca la crescita di tutte le classi lavoratrici, di qualunque colore esse siano.
E nel lottare per questo, dovremo confrontarci non solo con forze esterne, ma anche con ciò che è dentro di noi. Il capitalismo ci spinge a essere competitivi, a calpestare gli altri per ottenere qualche briciola in più. Ci spezza il cuore ogni giorno, ci indurisce, ci rende meno umani.
Ma non guariremo rivolgendoci all'interno di noi stessi e cercando l'unicità del nostro dolore, né cercando una verità su chi siamo. Si guarisce mettendosi al servizio della lotta.
Quando ci riuniamo nei movimenti, c'è amore profondo, c'è gioia profonda, perché riusciamo a sentirci umani, forse per la prima volta nella nostra vita. Capiamo che la nostra felicità è legata reciprocamente. Che possiamo essere integri solo se tutti lo sono. Che la mia crescita dipende dalla nostra crescita collettiva. Che, come ha scritto Gwendolyn Brooks:
Siamo il raccolto dell'altro
Siamo l'attività dell'altro
Siamo la grandezza e il legame dell'altro.
Dobbiamo liberarci dell'individualismo che dice che c'è una verità su chi siamo nascosta dentro di noi. L'identità non è una verità dentro di noi che aspetta di essere scoperta. È una creazione, non una scoperta. È ciò che si crea con gli altri. Voi siete ciò che fate con gli altri.
Ci saranno sempre dei disaccordi. Ma questi disaccordi diventano una fonte di frattura quando il movimento non riesce a influenzare gli eventi. Allora si tende a ripiegarsi su se stessi e a combattersi a vicenda. Quando si influenzano gli eventi, i disaccordi interni non sono al centro dell'attenzione e si può permettere che seguano il loro corso naturale, anziché essere esasperati.
Queste sono le lezioni della nostra lunga e profonda storia di movimenti di lotta. È così che abbiamo rovesciato il colonialismo europeo e ridisegnato la mappa del mondo. Poi siamo arrivati in Gran Bretagna e abbiamo dovuto lottare di nuovo. Siamo insorti contro la polizia, contro le leggi sull'immigrazione, contro tutte le forze che ci stavano uccidendo. Questa è la storia su cui ci basiamo mentre continuiamo a lottare. È la storia che ci dice:
Che l'antirazzismo non frammenta la lotta di classe, ma la radicalizza.
Che la cultura non è una distrazione dalle lotte economiche né un'identità fissa che determina chi siamo, ma ciò che creiamo e rinnoviamo attraverso le nostre lotte per i lavoratori.
E poiché le nostre lotte sono illimitate, lo è anche il nostro senso di chi potremmo essere.
Grazie.
Note
[1] L’incontro (disponibile online) che si è svolto a Londra il 13 luglio scorso, è stato organizzato dall’Independent Social Research Foundation in collaborazione con l’Institute of Race Relations.
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Arun Kundnani, saggista e pubblicista, è professore a contratto alla New York University. Tra i suoi interessi di ricerca: il capitalismo razziale e le sue implicazioni neoliberiste, l’islamofobia e i movimenti radicali Neri. Ha fatto parte del comitato editoriale di «Race & Class» e collabora con «Nation», «Guardian», «Washington Post», «Vice» and «The Intercept». Nel 2023 ha pubblicato What is Antiracism? And why it means anticapitalism (Verso).
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