di Stefano Ammirato, Gianmarco Cantafio, Alessandro Gaudio, Gennaro Montuoro
A partire dal Sud, dalle sue contraddizioni e potenzialità, questo «controdizionario» della redazione di Malanova, vero e proprio cantiere aperto di ricerca su nuove ipotesi politiche e orizzonti praticabili, è giunto alla sua quinta uscita su «Machina». Le voci che qui presentiamo, Emergenza, Emigrazione, Incenerimento e Inchiesta, scritte tutte in fasi differenti, provano a coniugare lo sguardo sull’attualità con un orizzonte di analisi più ampio. Anche queste, come le precedenti, non devono in nessun caso essere lette come lemmi e vanno ad arricchire il nostro controdizionario, ossia un dizionario che mette in discussione se stesso.
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Emergenza
Lo stato di emergenza identifica una situazione di pericolo o di crisi nella quale − spiegano i dizionari − le pubbliche autorità si mantengono in stato d’allarme e assumono poteri speciali. Se si considera soltanto la parola emergenza si vede come al significato ottocentesco di «circostanza, per lo più seria, che interviene inaspettatamente» è stato aggiunto progressivamente quello di «pericolo, urgente necessità». Su questo significato ha influito l’analogo uso inglese che, con litote eufemistica, impiega una parola più blanda, emergency, nel senso di «allarme, pericolo». In linea teorica, però, a emergere è anche il numero che fa vincere cento milioni di euro alla lotteria ed è, forse, in ragione di questa accezione che la nozione di emergenza climatica e ambientale viene accostata sistematicamente a concetti quali termovalorizzatore, ecodistretto, ambito territoriale ottimale [il famigerato Ato], revamping e persino buca o vasca la cui asprezza e sconvenienza è stata artatamente attenuata, eufemizzata appunto. Qualche tempo fa l’emergenza in tema di clima e ambiente è stata dichiarata da Antonella Rizzo, allora assessore all’ambiente della Regione Calabria. Usando le stesse parole dell’Assessore, essa «costituisce un primo tassello verso l’assunzione di responsabilità e impegni politici di alto livello in campo ambientale, economico e sociale».
Si vede bene come un siffatto tipo di emergenza venga all’occorrenza eufemizzata nel tentativo (per lo più riuscito) di far digerire un’emergenza autoindotta che, in Calabria più che altrove, è interamente gestita da poche ditte private. Queste, che rispondono ai signori molto noti dell’immondizia calabrese, lucrano, con la supervisione (altra parola eufemizzata) della Regione, sui flussi di rifiuti organici e indifferenziati, sui trasferimenti inutili e fittizi da un immondezzaio a un altro, sull’uso distorto delle discariche di servizio che, tra l’altro, fa lievitare enormemente i costi per i cittadini.
A tal proposito, non si dovrebbe dimenticare che l’80% dei comuni, in Calabria, ha meno di cinquemila abitanti e che i dati demografici regionali parlano di intere comunità che progressivamente si spopolano per emigrazione verso il Nord o, addirittura, verso altri Paesi europei. Un lento processo di declino demografico che sta interessando soprattutto le aree interne della nostra regione che, dal censimento Istat del 1981, hanno perso oltre il 20% della loro popolazione residente. I comuni interessati a questo fenomeno sono ben 190 sul totale di 404. Spopolamento che ha ridotto la popolazione complessiva della Calabria a 1.975.000 residenti circa, contro i 2.200.000 degli anni Ottanta. Sono molti quelli che conservano la residenza in Calabria ma che, in realtà, vivono altrove. Verosimilmente i residenti effettivi in Calabria non superano il milione e ottocentomila e la tendenza continua a essere drammaticamente negativa: secondo l’ultimo rapporto Svimez nei prossimi cinquant’anni la Calabria perderà cinquecentomila abitanti.
Ma se il quadro demografico è estremamente chiaro, non lo è altrettanto il rapporto che intercorre tra produzione di rifiuti e popolazione residente. In Calabria le istituzioni preposte non hanno mai voluto chiarire fino in fondo il meccanismo che ha portato in pochi anni a creare nuove discariche per poi saturarle in pochissimo tempo. Le mobilitazioni popolari e le successive inchieste giudiziarie hanno dimostrato con chiarezza che molte delle discariche calabresi – quasi tutte private – sono servite per abbancare enormi quantità di rifiuti extraregionali spesso pericolosi. Il caso più emblematico è senza alcun dubbio quello della discarica di Pianopoli (Cz) con le vicende giudiziarie che hanno interessato i proprietari.
Ma restando ai dati concreti, forniti ad esempio dall’Ispra sulla produzione regionale di rifiuti urbani (per il 2017), è impressionante quello legato alla quantità di rifiuti urbani (Ru) pro capite per anno: il dato calabrese, se si considera la popolazione effettivamente residente, è del tutto paragonabile a quello relativo alla Lombardia: 430 kg/ab. per anno contro i 466 kg/ab. per anno dei lombardi. I due contesti regionali non sono per nulla paragonabili sia in termini di tessuto economico-produttivo sia in relazione alla ricchezza (e, quindi, alla capacità di spesa e di consumo) pro capite.
Si può facilmente intuire, allora, come lo stato di emergenza decretato dalla Regione − gestito con un sistema che, soltanto in provincia di Cosenza, prevedrebbe a Scala Coeli una discarica sette volte più estesa della precedente, a Cassano all’Ionio (che, lo si rammenti, insiste all’interno di un Sin, sito di interesse nazionale per le bonifiche da ferriti di zinco) una quinta buca e il sopralzo della quarta già esistente, a Castrovillari e a San Basile nuovi impianti, e che risulta, dunque, vetusto e sovradimensionato rispetto alle effettive esigenze di un territorio sempre più povero e spopolato − sia, di fatto, funzionale ancora una volta all’arricchimento di pochi soggetti privati, players del settore rifiuti.
Questo meccanismo di messa a profitto del ciclo integrato dei rifiuti si è plasticamente svelato durante la Giunta Regionale del 2 dicembre 2019 attraverso le parole dell’Assessore all’Ambiente la quale ha affermato che «nel corso dell’anno una serie di eventi concomitanti, tra cui il notevole aumento del prezzo unitario di smaltimento della discarica privata di Crotone e l’incremento di prezzo per il trattamento dell’umido presso l’impianto privato di Rende, ha comportato l’aumento degli oneri gestionali» confermando – probabilmente in maniera inconsapevole – che l’impasse, i disservizi e gli enormi costi sono, nella sostanza, riconducibili a politiche privatistiche di gestione del ciclo integrato dei rifiuti.
Visto che la Regione Calabria e il suo assessore all’Ambiente auspicano un cambiamento epocale, quasi una mutazione antropologica, nella disposizione e nelle abitudini dei cittadini verso il territorio, comincino loro stessi a rinunciare agli eufemismi e a chiamare con il suo nome una circostanza che è tutto fuorché un’emergenza. Quanto meno, sarebbe un buon inizio. Ma questo ovviamente non basta. Occorre sin da subito prevedere la dismissione di un’impiantistica che, per come è concepita a livello regionale, è obsoleta e di scarsa efficacia per la risoluzione definitiva del problema. È, inoltre, necessaria la stesura di un nuovo piano dei rifiuti che non sia frutto degli interessi dei privati del settore. Infine, è auspicabile l’abbandono definitivo del sistema degli Ato, diretta emanazione della logica di accorpamento macro-territoriale auspicata dai privati per facilitare un’economia di scale i cui profitti risultano direttamente proporzionali alla centralizzazione del ciclo dei rifiuti in pochi enormi impianti settorializzati (discariche, ecodistretti e inceneritori). Ridare, invece, centralità ai territori tramite l’autogestione diretta e pubblica dell’intero ciclo dei rifiuti da parte dei comuni (anche eventualmente consorziati) disarticolerebbe tali interessi fino a renderli diseconomici e improduttivi; risponderebbe maggiormente alla pratica della gestione chiusa e circolare dell’intero ciclo dei rifiuti all’interno dei territori dove vengono prodotti. Questo, oggi, è l’unico sistema – affiancato a un programma virtuoso di raccolta differenziata – che garantirebbe un elevato standard di efficienza e efficacia del servizio e indurrebbe l’attivazione, sui territori più economicamente depressi, di nuove possibilità di lavoro ecocompatibile e socialmente utile.
Emigrazione
Ci si preoccupa tanto dei migranti in arrivo sui gommoni, poco dei migranti in partenza con treni e aerei. Purtroppo è una tecnica di distrazione di massa ben collaudata. Fissare il pensiero su una «minaccia» di semplice soluzione, su un nemico debole e semplice da sconfiggere, su un responsabile, un capro espiatorio. Lo fece Nerone con i cristiani, poi fu il turno degli ebrei, dei polacchi, degli albanesi, dei Rom. Ci si occupa tanto di quelli che arrivano, ma chi si occupa di quelli che partono?
Secondo la Farnesina, nel 2018 erano 5.114.469 gli italiani all’estero. Il 2,8% in più rispetto al 2017 e il 64,7% in più rispetto al 2006: «La maggioranza degli espatriati (56%) si trova oggi nella forbice compresa tra i 18 e i 44 anni, a cui si deve aggiungere un 19% di minorenni (24.570 minori di cui il 16,6% ha meno di 14 anni e l’11,5% meno di 10 anni). Un dato che indica che a spostarsi sono interi nuclei familiari e non più solo singoli. Si registra poi un aumento degli anziani tra chi parte: +20,7% nella classe di età 50-64 anni; +35,3% nella classe 65-74 anni; +78,6% dagli 85 anni in su. Si tratta di persone che vogliono godere appieno della pensione che in Italia sarebbe decurtata dalle tasse. Il 49,5% degli espatriati è di origine meridionale (Sud: 1.659.421 e Isole: 873.615); del Settentrione è il 34,9% (Nord-Ovest: 901.552 e Nord-Est: 881.940); del Centro il 15,6% (797.941)».
Su questo fenomeno, oggi, bisognerebbe moltiplicare i dibattiti, coniare gli slogan più efficaci, varare le politiche più incisive; questo, vale anche per ieri quando i faciloni dell’accoglienza costituivano imperi economici con cooperative (a sinistra) o ristrutturando alberghi (a destra). Ma vale anche per chi ha permesso l’accentramento della ricchezza nazionale nelle mani di poche famiglie, per chi ha permesso agli istituti di credito di spaziare nella finanza creativa nella consapevolezza che una ciambella di salvataggio, a loro, qualcuno l’avrebbe sempre lanciata. Vale per chi ha programmato e per chi ha investito i soldi europei destinati allo sviluppo in fantomatiche e inutili opere, invece di destinarli a politiche per il lavoro, per il disagio, per la casa.
Circa cinque milioni i migranti in Italia provenienti da tutte le parti del mondo. Circa 5 milioni gli italiani emigrati verso tutte le parti del mondo. In realtà, non c’è mai stata tanta ricchezza nel mondo, ma il problema è la sua distribuzione iniqua. Si potrebbe stare tutti a casa nostra per poi viaggiare per il semplice piacere di farlo. Ma così non è. Qualcuno ha deciso di strozzarsi, di coprirsi d’oro lasciando gli altri senza neanche una coperta nel gelo della notte in stazione. Anzi, a qualcuno dà fastidio anche questo e quindi manda le forze dell’ordine a randellare i barboni perché stridono con il «decoro urbano». Il problema non sono loro però. Il problema è che sono riusciti a farci credere che il problema sono gli altri poveri. Sono riusciti a farci credere che se ci sono 5 milioni di persone che fuggono dall’Italia è perché ci sono altri milioni di persone che fuggono dalla fame e dalle guerre «invadendo» l’intera Europa.
Incenerimento
Nelle linee di indirizzo per l’adeguamento del Piano Regionale di Gestione dei Rifiuti (Prgr) della Regione Calabria, approvate dalla giunta nella seduta del 2 novembre 2020, emergono alcuni indirizzi preoccupanti che, da un lato, confermano le linee programmatiche del Prgr approvato nel 2016 e dall’altro introducono alcune «novità» che, come nel gioco dell’oca, riportano la Calabria al punto di partenza.
L’enfasi posta dall’Assessore De Caprio all’indomani dell’approvazione delle nuove linee di indirizzo non lascia alcun dubbio: «discariche zero entro due anni, impianti di nuova generazione per produrre ricchezza e lavoro in una regione pulita e sostenibile».
La prima cosa che ha catturato la nostra attenzione è la riproposizione dello slogan di oliveriana memoria − coniato però dal deus ex machina della Regione, Domenico Pallaria − «discariche zero entro due anni» che, sommate ai cinque anni della trascorsa Giunta Oliverio, fanno sette anni. Peccato che tra dichiarazioni e fatti concreti ci stanno di mezzo dodici discariche (tra quelle già esistenti e altre da realizzare) che portano la capacità di abbanco rifiuti a un totale di 1.900.000 metri cubi.
Tolta quindi la coltre ideologica della «raccolta differenziata al 65% entro il 2022» (vincolo imposto ciclicamente dalla normativa italiana), del marchio Compost Calabria per la produzione di ammendanti compostati per l’agricoltura, nonché della raccolta e dello smaltimento di pannolini e materassi, resta la sostanziale conferma del vecchio Prgr con l’introduzione di tre nuovi impianti (Lamezia Terme, Gioia Tauro e uno non meglio identificato nell’Ato di Cosenza) per il trattamento dell’organico con un incremento del potenziale di 125.000 tonnellate. Inoltre, è stato introdotto il potenziamento dell’inceneritore di Gioia Tauro con l’attivazione della terza e quarta linea (ricordiamo che oggi delle due linee esistenti a stento ne funziona una).
Ma come pensa questa Giunta di raggiungere gli obiettivi imposti dal diritto comunitario sull’economia circolare?
Con una «gestione ecocompatibile del sottovaglio degli impianti Tm e Tmb» costruendo 3 nuovi impianti industriali di vetrificazione capaci di trattare gli scarti provenienti dagli impianti Tm (Trattamento meccanico), Tmb (Trattamento meccanico biologico) e dal trattamento dell’organico da Raccolta Differenziata. Questi nuovi impianti potranno inoltre trattare i fanghi di depurazione e il percolato proveniente dalle discariche. Il primo impianto sorgerà nell’area Nord dell’Ato di Cosenza (lo si voleva costruire a Villapiana, ma la gente non era di quest’avviso), il secondo nell’Ato di Catanzaro al servizio delle province di Crotone, Vibo e Catanzaro, il terzo nell’area sud della Città metropolitana di Reggio Calabria.
Ma cosa sono questi impianti di vetrificazione?
Sono impianti la cui tipologia rientra tra quelle di incenerimento/coincenerimento dei rifiuti e che prevedono la tecnologia dell’ossicombustione cosiddetta «flameless» con recupero di CO2; i processi di ossidazione avvengono ad alta pressione e con temperatura altrettanto elevate che possono variare tra i 1250 e i 1500°C e hanno luogo «senza fiamma» (flameless, appunto). La combustione «flameless» utilizza come comburente l’ossigeno tecnico in luogo dell’aria. La particolarità di questa tecnologia è che le ceneri e le polveri prodotte fondendo si vetrificano producendo piccoli granuli simili al vetro. Resta il problema degli scarichi gassosi prodotti dalla ossicombustione che, per i sostenitori di questi impianti, possono avere uno sbocco sul mercato una volta lavorati per produrre CO2 commerciale da vendere, ad esempio, per riempire gli estintori. Così facendo, non verrebbero immessi gas nell’atmosfera (sic!). Lo scarto vetrificato potrebbe avere, sempre secondo i proponenti di questa tecnologia, un utilizzo nel mercato dell’edilizia come materia prima seconda da utilizzare come inerte per i sottofondi stradali o nelle realizzazioni di manufatti cementizi. Questo sbocco sul mercato però − è bene evidenziarlo − oggi è ancora molto debole e questo aumenterebbe il rischio di ricorrere a ulteriori e nuove discariche per lo smaltimento.
Dal punto di vista generale va sottolineato che, secondo l’Enea, «l’ossicombustione è una delle opzioni attualmente più accreditate e interessanti per la riduzione delle emissioni di CO2 da parte degli impianti per la produzione di energia elettrica. Essa è applicabile sia per il retrofitting di impianti a carbone esistenti, sia per la realizzazione di centrali termoelettriche di nuova generazione». L’Enea parla di una tecnologia che può avere una certa utilità nell’adeguamento di vecchi impianti a olio combustibile, a carbone e per nuove centrali termoelettriche. Non è un caso che uno dei primi studi pilota sia nato proprio nel Sulcis, in Sardegna.
L’adattamento di questa tecnologia ad altre tipologie di masse da trattare come i rifiuti, i fanghi di depurazione e il percolato è ancora in fase sperimentale in alcuni impianti dimostrativi come quello pugliese di Gioia del Colle, gestito dalla società Itea con brevetto Isotherm Pwr®. Questo impianto poco più di un anno fa è stato sottoposto a sequestro dai carabinieri del Noe perché all’interno sarebbero state riscontrate «attività di trattamento e smaltimento, in mancanza delle necessarie autorizzazioni, di rifiuti anche pericolosi tra cui materiale cancerogeno e teratogeno, miscelazione di rifiuti mediante macinazione con acqua, diffusione in atmosfera di emissioni gassose potenzialmente pericolose» e un «quadro di cogente pericolosità per la salute pubblica e la collettività che rende indifferibile l’adozione di una cautela reale che impedisca la prosecuzione dell’attività dell’impianto e il versamento in atmosfera di emissioni gassose». Nel provvedimento di sequestro è stato evidenziato che «la stratificazione e volgarizzazione del sapere scientifico originario e il mancato apporto di metodologie innovative nella struttura dell’impianto o nel ciclo produttivo sollevano perplessità sul meccanismo delle proroghe o della rinnovazione dell’autorizzazione alla gestione dei rifiuti in via sperimentale».
L’esempio dell’impianto di Gioia del Colle dimostra come le sperimentazioni per testare le cosiddette innovazioni tecnologiche, rappresentate in questo caso dagli impianti di ossicombustione flameless, debbano essere sempre condotte in modo sicuro attraverso un’attenta e autonoma valutazione dei risultati scientifici conseguiti e un’adeguata analisi relativa alle ricadute ambientali, sanitarie e sociali che impianti di questo genere, sostanzialmente obsoleti, hanno sui territori.
Prevedere la realizzazione di tre impianti di questa natura (con una capacità unitaria di 70 mila ton/anno) vuol dire regredire a politiche di gestione del ciclo dei rifiuti di tipo «inceneriste» con l’aggravante che per tali impianti sono stati ipotizzati dei costi unitari di 40 milioni di euro.
Il principio precauzionale, avere appunto un approccio di tipo cautelativo per quel che riguarda le decisioni politiche, economiche e sociali legate alla gestione di questioni scientificamente controverse, non può essere barattato con qualche presunto posto di lavoro.
Se Capitano Ultimo o chi lo seguirà non riuscirà a garantire ciò, quanto meno, senza scadere nel negazionismo scientifico, potrebbe attenersi a quella che in chimica è nota come legge della conservazione della massa.
Inchiesta
Proponiamo alcuni spunti di riflessione intorno a L’inchiesta operaia (1880) scritta da Karl Marx circa tre anni prima della sua morte. Proprio perché non è certamente un’opera che indaga eventi storico-sociali ben specifici, L’inchiesta è rimasta ai margini degli studi marxisti. Per molti rimane un semplice tentativo di redigere un questionario sulle condizioni di lavoro e di vita degli operai francesi alla fine dell’Ottocento, ma in realtà Marx dà a questo strumento un’importanza specifica che va ben oltre la contingenza e il valore puramente descrittivo attribuito da una certa scienza sociale di natura positivistica. L’approccio marxiano all’inchiesta non scinde l’esistente empirico dal suo carattere critico, il cui ordine è soggetto tanto a rapporti di forza quanto al loro rovesciamento (R.M. Chesta, Sul campo. L’inchiesta operaia di Marx: comprendere il mondo per cambiarlo, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Milano 2018). Di conseguenza, si tratta di una metodologia che non separa teoria e prassi, ma le considera parti di un unico movimento dialettico che agisce nella storia.
L’inchiesta assume, pertanto, un valore strettamente scientifico e critico avendo come orizzonte d’azione un programma radicale di trasformazione dell’esistente a partire dallo svelamento dell’ordine non naturale del mondo sociale, ben sintetizzato nell’Introduzione a Per la critica della filosofia del diritto di Hegel, già nel 1844: «Essere radicali significa cogliere le cose alla radice. Ma la radice, per l’uomo, è l’uomo stesso».
Nelle istruzioni, scritte da Marx nel 1867 e rivolte ai delegati del Consiglio Centrale Provvisorio dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori, si avanza l’idea della necessità di un lavoro di inchiesta sulla condizione della classe operaia: «Un’inchiesta statistica sulla situazione delle classi lavoratrici di tutti paesi, condotta da parte dei lavoratori stessi” utile per elaborare un lavoro scientifico e soprattutto per divulgare la condizione operaia a livello internazionale al fine di “reagire agli intrighi dei capitalisti sempre pronti, in caso di scioperi e serrate, all’uso perverso dei lavoratori stranieri come strumento contro quelli locali”, “far agire come fratelli e compagni i lavoratori di diversi paesi nell’esercito dell’emancipazione».
Il lavoro d’inchiesta, in realtà, non partì, nonostante la riproposizione in diversi congressi dell’A.I.L., ma si realizzò successivamente quando nel 1880 un gruppo di militanti, che poi costituirà il nucleo fondativo del Parti ouvrier francese, promossero un questionario sulla condizione operaia in Francia che fu redatto dal Moro e divulgato attraverso la «Revue socialist».
Successivamente, Jules Guesde, leader del movimento proletario francese, insieme a Paul Lafargue, che sposò Laura, la seconda figlia di Marx, chiesero all’autore del Manifesto di stendere il programma politico elettorale dello stesso Parti ouvrier. Da una lettera di Marx indirizzata a Friedrich Albert Sorge possiamo cogliere alcune sfumature interessanti sul pensiero politico marxiano e l’utilizzo di strumenti come l’inchiesta operaia. Ritorniamo al testo dell’inchiesta.
«Nessun governo (monarchico o repubblicano borghese) ha osato intraprendere una inchiesta seria sulla situazione della classe operaia francese. Ma, in cambio quante inchieste sulle crisi agricole, finanziarie, industriali, commerciali, politiche! Le infamie dello sfruttamento capitalistico rivelate dall’inchiesta ufficiale del governo inglese, e le conseguenze legali che queste rivelazioni hanno prodotto (limitazione della giornata legale di lavoro a dieci ore, legge sul lavoro delle donne e dei fanciulli, ecc.), hanno reso la borghesia francese ancora più timorosa dei pericoli che potrebbe presentare un’inchiesta imparziale e sistematica. In attesa di poter portare il governo repubblicano a imitare il governo monarchico dell’Inghilterra, ad aprire una vasta inchiesta sui fatti e misfatti dello sfruttamento capitalistico, noi tenteremo, con i deboli mezzi di cui disponiamo, di cominciarne una. Speriamo di essere sostenuti, nella nostra opera, da tutti i lavoratori delle città e delle campagne, i quali comprendono che essi soli possono descrivere con piena cognizione di causa, i mali che li colpiscono; che essi soli, e non dei salvatori provvidenziali, possono applicare energicamente rimedi alle miserie sociali di cui soffrono; contiamo anche sui socialisti di tutte le scuole che, volendo una riforma sociale, devono volere una conoscenza esatta e positiva delle condizioni in cui lavora e si muove la classe operaia, la classe a cui appartiene l’avvenire. Questi Quaderni del lavoro sono la prima opera che s’impone alla democrazia socialista per preparare il rinnovamento sociale».
Dunque, per Marx, l’inchiesta non è una mera raccolta scientifica di dati e opinioni della e sulla classe operaia. Non è inchiesta fatta in laboratorio da scienziati e sociologi, ma direttamente «condotta da parte dei lavoratori stessi». L’inchiesta, come aveva dimostrato quella condotta dal governo inglese, genera conoscenza e consapevolezza da una parte, ma soprattutto lotta per l’emancipazione, dall’altra. In effetti, l’inchiesta da condurre in Francia in maniera «artigianale», attraverso il lavoro dei militanti socialisti e degli operai, mirava a essere uno strumento capace di alzare la temperatura sociale fino al punto di ebollizione, così come Marx aveva potuto annotare nel caso inglese dove l’inchiesta governativa aveva acceso la conflittualità sociale sfociata poi nel miglioramento delle condizioni della classe lavoratrice.
Bisogna partire dall’inchiesta, allora, per capire lo stato di avanzamento della coscienza della classe operaia, anche per evitare di prendere abbagli e di metterle in bocca parole d’ordine posticce. E proprio qui è utile riprendere il testo della lettera a Friedrich Albert Sorge sempre del 1880. All’amico e corrispondente, Marx illustra le sue ultime fatiche. Parla certo del questionario, ma si sofferma soprattutto sul programma politico redatto per il Parti ouvrier francese:
«Poco dopo è venuto Guesde a Londra per scrivere qui con noi (Engels, Lafargue e me) un programma elettorale per i lavoratori per le prossime elezioni generali. Nonostante la nostra protesta, Guesde ritenne necessario imporre alcune inezie ai lavoratori francesi, come il salario minimo stabilito per legge, ecc. (Gli ho detto: se il proletariato francese è ancora così infantile da aver bisogno di tali lusinghe, non vale neppure la pena di formulare un qualsiasi programma). Salvo ciò, questo brevissimo documento, oltre a poche righe introduttive nelle quali viene definito il fine comunista, è composto nella sua parte economica soltanto di rivendicazioni che sono nate realmente in modo spontaneo dallo stesso movimento dei lavoratori. È stato un colpo, riportare i lavoratori francesi dalle nubi della loro retorica sul terreno della realtà, perciò ha provocato anche molto scandalo tra tutti gli impostori francesi, che vivono delle «vendite di fumo». Il programma è stato approvato, dopo una opposizione fortissima degli anarchici, soprattutto nella regione centrale, cioè Parigi e dintorni, più tardi in molte altre sedi di lavoratori».
Inutile, pare dire Marx, mettere in bocca al popolo lavoratore slogan e programmi che non hanno nessuna radice nel pensiero intimo della classe che magari si trova, nella realtà, in uno stato di infantilismo politico. Questo atteggiamento è proprio «delle sette, le quali ricevevano naturalmente la loro parola d’ordine dal fondatore della setta, mentre la massa del proletariato seguiva i borghesi radicali, o che facevano i radicali, e nel giorno della decisione combatteva per loro, per essere poi massacrata, deportata, ecc. il giorno dopo da quelli che essa aveva fatto giungere al potere».
Questa, allora, l’importanza del lavoro di inchiesta: non imporre un programma politico utopistico dall’alto, ma scavare nella materialità, nella carne del vissuto della classe. Fare inchiesta, come Marx aveva intuito all’epoca, significa porre con lucidità e rigore lo sguardo dentro le condizioni materiali della classe per svelarne la natura socialmente complessa e mutevole e per scardinare, al contempo, il carattere di apparente necessità che si cela dietro le lusinghe della società capitalista, perché, per dirla con il Marx del Capitale, «man mano che la produzione capitalistica procede, si sviluppa una classe operaia che per educazione, tradizione, abitudine, riconosce come leggi naturali ovvie le esigenze di quel modo di produzione». Allora il lavorio militante dell’inchiesta diventa necessario per saggiare se il «movimento operaio» esista nella realtà e non solo nelle fantasie settarie, perché se il «movimento» esiste, esiste ma, se non esiste, si può lavorare per una sua maturazione, anche se, di certo, non lo si può inventare.
Immagine: Anonimo, Omaggio a Soto, 2021
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Stefano Ammirato, Gianmarco Cantafio, Alessandro Gaudio, Gennaro Montuoro fanno parte della redazione di «Malanova», progetto militante che si pone l’obiettivo di costruire una rete di informazione e approfondimento a partire dai territori del Sud.
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