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Controdizionario del conflitto (II)

di Stefano Ammirato, Gianmarco Cantafio, Alessandro Gaudio, Gennaro Montuoro



A partire dal Sud, dalle sue contraddizioni e potenzialità, la redazione del progetto «Malanova» continua a interrogarsi sui limiti delle forme esistenti di militanza e sulle possibilità inesplorate di conflitto. Dopo aver introdotto il «controdizionario», vero e proprio cantiere aperto di riflessione e ricerca su nuove ipotesi politiche e orizzonti praticabili, ed essersi concentrati su acqua e agricoltura, la riflessione prosegue con le successive voci: autunno caldo, bandiere blu e big data. Scritte in fasi differenti, in queste voci si tenta di coniugare lo sguardo sull’attualità con un orizzonte di analisi più ampio.


Immagine: Attila Jolàthy, Cartolina, 1980

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Autunno caldo

Gli stati generali dell’economia voluti nel giugno 2020 dall’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte a Villa Pamphili si sono conclusi con moltissimi dubbi e poche certezze sulla tenuta dell’economia italiana e soprattutto sull’efficacia degli strumenti economici e sociali programmati dal governo per reggere l’impatto della crisi economica post-pandemica.

Se la ricetta di abbassare l’aliquota Iva per agevolare la ripresa, puntando sostanzialmente sull’incremento dei consumi, potrebbe dare una parziale boccata d’ossigeno, resta però del tutto fumoso il contenuto della bozza del cosiddetto Piano rilancio. Al di là delle tante proposte uscite dal consesso di Villa Pamphili, ci concentriamo su un dato che appare parzialmente consolidato, quello della Cassa integrazione guadagni (Cig).

Il presidente dell’Inpd, Pasquale Tridico, aveva promesso che tutti i pagamenti relativi alla Cig sarebbero stati chiusi entro il 15 giugno 2020, tant’è che il 17 giugno il ministro del lavoro Cantalfo ha comunicato cifre «rassicuranti» dichiarando che il 96% dei versamenti sono stati effettuati e che restano da pagare «soltanto» 124.000 persone. Qui inizia la battaglia dei numeri tra il ministro del lavoro, l’Inps e i sindacati e si scopre così che i dati non sono proprio rassicuranti. Un documento dell’Inps − che a quanto pare doveva restare interno, ma che è stato reso pubblico dall’opposizione − evidenzia come tra cassa ordinaria, cassa in deroga e fondo di integrazione salariale, i lavoratori che ancora attendono i pagamenti dovuti sono circa un milione e 200.000, dieci volte quanto dichiarato dal governo.

Come al solito il trucco sta nell’interpretazione dei dati: il governo fa riferimento alle sole domande pervenute nel mese di maggio, mentre il documento dell’Inps fa la differenza tra i lavoratori la cui azienda aveva prenotato la cassa e quelli che l’hanno effettivamente percepita. L’Inps ha vagliato sostanzialmente i modelli con codice Sr41 presentati finora dalle aziende; tuttavia, ci sono moltissime imprese che, pur avendo prenotato la Cig, non hanno ancora provveduto a inviare la richiesta. Il rischio che si sta palesando è quello di non avere fondi a sufficienza per far fronte alla totalità delle domande. A quanto pare in Campania e Lazio, tanto per fare due esempi, i soldi sono già finiti.

Una parte dei dati sono stati volutamente oscurati. Sindacati e fronte padronale sollevano dubbi sulla capacità di tenuta del fondo del Fis che eroga l’assegno ordinario; un fondo che, prima dell’emergenza Covid, ammontava a circa 1,6 miliardi di euro. Inutile sottolineare il fatto che la maggior parte dei lavoratori in attesa di percepire l’integrazione si trova al Sud. Agli ultimi posti della classifica troviamo tre regioni meridionali: la Puglia, con il 21% delle domande ancore inevase, il Molise con il 20% e in fondo alla classifica la Campania, con il 19%.

Il dato sicuramente più allarmante resta l’80% delle aziende che hanno «già esaurito le 14 settimane di cassa integrazione e necessitano di anticipare le ultime 4 settimane», come ha dichiarato al «Messaggero» Pasquale Staropoli, responsabile della Scuola di alta formazione della Fondazione studi dei consulenti del lavoro.

Al di là dei soliti meccanismi distorsivi nella comunicazione dei dati economici, appare chiaro come il numero dei lavoratori che avranno bisogno a breve di integrazioni salariali o che sono in attesa degli aiuti previsti dai decreti emergenziali è di gran lunga più elevato rispetto a quello diffuso dall’Inps. Seppur in prima battuta resta da privilegiare l’utilizzo della cassa che, a differenza del bonus agli autonomi, è l’ammortizzatore sociale che meglio di tutti tutela pensioni e assegni familiari, va però ricordato che questo strumento sociale è finanziato, normalmente, con i contributi che i lavoratori forniscono tramite la trattenuta in busta paga.

Ma il vero problema resta un altro: la cassa integrazione messa in piedi in questo periodo emergenziale è legata al blocco dei licenziamenti imposto dal governo per impedire una vera e propria Waterloo. Il messaggio che Conte e le forze politiche di governo (e di opposizione) hanno mandato agli industriali è stato fin troppo chiaro: voi non licenziate e nel frattempo i lavoratori li paghiamo noi. In più ad alcuni di voi (Fca e Benetton, ad esempio) saranno garantiti cospicui finanziamenti pubblici, magari a fondo perduto.

I tempi ipotizzati per la fine del lockdown sono andati ben oltre ogni ottimistica previsione: gli effetti sull’economia nazionale sono sotto gli occhi di tutti. Si potrebbe, nell’immediato, attingere ai 20 miliardi del Sure (Support to mitigate Unemployment Risks in Emergency), lo strumento adottato dal Consiglio europeo e destinato a sostenere l’incremento della spesa pubblica dei governi dei paesi membri «al fine di aiutarli a proteggere i posti di lavoro e tutelare i dipendenti e i lavoratori autonomi dal rischio di disoccupazione e perdita di reddito a seguito della pandemia di Covid-19», ma resta il fatto che per la cassa integrazione servono sei miliardi al mese e quindi risulta un rimedio momentaneo, ma non utile a tamponare una crisi economica che si prospetta peggiore di quella del 2007.

Maurizio Del Conte, professore di diritto del lavoro all'Università Bocconi, in un’intervista rilasciata al «Corriere della Sera», ha paventato il pericolo di firing day, una sorta di giorno del licenziamento simultaneo in cui le aziende potrebbero decidere di abbattere i costi della produzione tagliando il numero dei lavoratori dipendenti. Se così fosse, sarebbe un’ecatombe.

Neanche i recenti dati Istat sulla povertà vengono in aiuto di Governo e Inps. Gli indici 2019 presentati dall’Istituto nazionale di statistica ci dicono che in Italia la povertà non è stata abolita come dichiarò Di Maio dal balcone di Palazzo Chigi. Tutt’altro. Il 6,4% della popolazione (quasi 4,6 milioni di individui) versa in condizioni di povertà assoluta con il 45,1% di questi residenti nel Mezzogiorno (oltre due milioni di persone). Il Reddito di Cittadinanza ha influito positivamente su questo dato, abbassando di un mezzo punto percentuale il valore della povertà assoluta rispetto al valore del 2018 (7%), ma è comunque uno strumento spuntato in relazione alle reali necessità reddituali della popolazione. Inoltre, i valori della povertà assoluta per il 2020 (e, poi, per il 2021) saranno decisamente più drammatici se non si predisporranno adeguati strumenti di tutela salariale e sociale atti a contrastare efficacemente gli effetti post-pandemici.

Da una parte, osserviamo gli enormi interessi delle imprese, della finanza e delle élites politiche liberiste che sono già in campo per drenare ulteriore ricchezza collettiva dalla società, scommettendo sulla possibilità di un’accettazione disciplinata e supina di una nuova fase di impoverimento di massa. Dall’altra, i soggetti sociali − soprattutto quelli più colpiti dalla crisi − iniziano a mobilitarsi, seppur timidamente e con alcuni elementi contraddittori.

Con molta probabilità, finito l’effetto degli ammortizzatori sociali, operai, lavoratori autonomi e precari si affacceranno sulla scena del conflitto, affiancandosi a chi sta iniziando a mobilitarsi. L’effetto combinato potrebbe avere un portato quantitativo e soprattutto qualitativo di una certa rilevanza. Per certi versi ci troviamo di fronte a una situazione inedita in cui è evidente l’insostenibilità del modello capitalistico e al contempo è urgente la costruzione di un altro modello di società basato sul diritto alla vita, alla salute, al reddito, sulla giustizia climatica e sociale, sull’uscita dal patriarcato, sulla democrazia sostanziale.

Quello del 2021 sarà dunque un autunno in cui la crisi economica e sociale deflagrerà: sarà fondamentale provare a costruire momenti di convergenza dentro la materialità delle rivendicazioni necessari per incidere efficacemente dentro e contro il capitale. Per fare questo occorre però fare un salto di qualità che ci permetta di superare il divario tra le pratiche prodotte quotidianamente e la loro reale efficacia in termini di partecipazione, mobilitazione sociale e conflitto.


Bandiere blu

Nel maggio del 2020 si sono sovrapposte due notizie che per la comunicazione mainstream hanno assunto valore strategico per il futuro della Calabria: il conferimento delle Bandiere blu a quattordici comuni calabresi e la posa della prima pietra, qualche giorno dopo, del terzo megalotto della S.s. 106. In entrambi gli eventi l’enfasi comunicativa è ricaduta sul potenziale effetto volano che poco più di trenta chilometri di strada e quattordici lembi di stoffa blu produrranno sullo sviluppo economico regionale a partire proprio dal maggiore afflusso turistico che queste due chimere dovrebbero garantire ai territori interessati.

Ora, tralasciando il fatto che il riconoscimento della cosiddetta Bandiera blu è attribuito annualmente dalla Ong internazionale Fee (Foundation for Environmental Education) sulla base dei prelievi delle Arpa e che in Calabria quest’ultima è sostanzialmente sconfessata scientificamente e compromessa politicamente e che, probabilmente, per l’ultimazione dei lavori del terzo megalotto della S.s. 106 dovremo aspettare quasi un decennio, proviamo a interrogarci su quali possano essere le reali ricadute economiche e soprattutto occupazionali che, processi spinti di messa a valore del territorio tramite il turismo, dovrebbero garantire.

Il settore turistico è un’industria capace di incidere per oltre 10 punti sul Prodotto interno lordo e per l’11,6% sull’intera occupazione nazionale. Fin qui le notizie buone. Poi ci sono quelle cattive: i salari e gli stipendi dei lavoratori di questo settore sono abbondantemente sotto la media nazionale delle retribuzioni di operai e impiegati di altri settori del comparto privato. È la fotografia scattata dall’Osservatorio JobPricing che, con cadenza regolare, aggiorna il suo rapporto sulla filiera della ricettività, degli hotel e, in generale, delle vacanze. Gli stessi dati trovano riscontro nel report annuale di Federalberghi, Trend e statistiche sull’economia del turismo. Entrambi i lavori sono basati sulle elaborazioni dei dati forniti dall’Istat e dall’Inps.

Da un’attenta ricognizione sul valore medio nazionale della Ral (Retribuzione Annua Lorda) riferita a un lavoratore con contratto a tempo pieno, emerge chiaramente una divaricazione pronunciata, legata alla composizione occupazionale del segmento: gli operai (ma anche gli impiegati) percepiscono un quinto della retribuzione media di un dirigente portando a casa un salario che, al netto delle trattenute, è mediamente dell’ordine di 900/1000 euro al mese. Questo valore non rispecchia per nulla la reale situazione del settore nel Mezzogiorno dove spesso si lavora per dodici ore al giorno con paghe abbastanza lontane dal dato appena citato.

Anche in questo settore ovviamente l’analisi di parte datoriale del mercato del lavoro viene portata avanti enfatizzando i dati sulla crescita del livello occupazionale, raffigurando un settore in cui nel 2017 circa 191.000 aziende con almeno un dipendente hanno impiegato circa un milione e 176.000 lavoratori; inoltre, il confronto con i dati dell’anno precedente evidenzia un incremento consistente dei livelli occupazionali (+14,6%), dovuto al consolidamento del ritmo di crescita dell’economia nazionale che ha generato ricadute positive anche sul settore turistico.

Sempre secondo Federalberghi «tutte le categorie di lavoratori hanno registrato degli aumenti, ancorché di diversa intensità. La crescita più rilevante si è avuta tra gli apprendisti, passati da 65,5 a 79.000 unità con un balzo in alto del 20,6%. A stretta distanza si collocano gli operai, che costituiscono la netta maggioranza dei dipendenti nel turismo e che sono aumentati del 15,8%. Meno performanti, seppur accomunate dal segno positivo, sono state le dinamiche delle categorie medio-alte: impiegati, dirigenti e i quadri, cresciuti rispettivamente del 3,2%, 1,6% e 1,1%». Un settore quindi dove apprendisti e operai rappresentano la stragrande maggioranza degli occupati e dove, nel solo settore alloggio, il 51% è costituito da lavoratrici e il 22% da lavoratori che provengono prevalentemente da nazioni al di fuori dell’Unione Europea.

Da un recente studio del Crisp (Centro di ricerca interuniversitario per i servizi di pubblica utilità) sulla Configurazione occupazionale del comparto alberghiero nel turismo leisure in Italia emerge chiaramente come a prevalere fra le tipologie contrattuali non sia certamente il full-time a tempo indeterminato. Infatti, sempre secondo questo studio, all’interno del settore è possibile individuare almeno quattro diverse categorie contrattuali: lavoratore dipendente, autonomo, esterno e temporaneo. Ma il dato interessante che viene fuori è che, nonostante nel settore alloggi tre quarti degli occupati sono impiegati con un contratto di lavoratore dipendente, più della metà (57%) hanno un contratto a tempo determinato. Negli ultimi 5 anni, i contratti a tempo determinato in questo settore sono cresciuti a un tasso medio annuo del 3,8%, mentre quelli a tempo indeterminato solo dello 0,44%. Ciò significa che, degli oltre 23.000 nuovi contratti per lavoratori dipendenti stipulati negli ultimi cinque anni nel settore alloggi, il tempo determinato è stato scelto per il 91% dei nuovi contratti.

Stagionalità (la Calabria è tra le regioni con un livello alto) in questo settore fa rima con precarietà e flessibilità e anche la tendenza che porta a un cambiamento della tipologia contrattuale (da determinato a tempo indeterminato) è molto debole. Nel quinquennio 2013-17, infatti, i contratti a tempo indeterminato siglati nell’intera economia nazionale hanno rappresentato il 31% contro il 9% del settore alloggi. Il ricorso alla flessibilità emerge anche dalla quantità di contratti a tempo parziale (cosiddetti part-time) stipulati nel settore. La crescita dei contratti part-time nel settore alloggi (+6,2%) è stata più elevata che negli altri settori (+4,6%). Questo a ulteriore dimostrazione del progressivo ricorso a meccanismi di iperflessibilità.

Infine, bisogna evidenziare come tra i lavoratori cosiddetti indipendenti, il 7,6% è rappresentato da familiari e coadiuvanti, che sono solamente il 5,4% nel resto del mercato del lavoro italiano. I voucher sono ovviamente uno strumento particolarmente apprezzato dalle imprese del settore. L’origine dei voucher risale alla «legge Biagi» (2003) sulla riforma del mercato del lavoro. Hanno, poi, trovato una loro sistematicità nel sistema retributivo con la legge di riforma del lavoro firmata dal ministro Fornero (2012) e successivamente con il cosiddetto Jobs Act del governo Renzi (2014-15). Stando ai dati Inps, il numero di lavoratori coinvolti nella retribuzione tramite voucher è passato dagli oltre 600.000 del 2013 a 1,7 milioni del 2016. Di questi, i lavoratori impiegati nel turismo sono stati circa 350.000. Tuttavia, il valore potrebbe essere molto più elevato se si considera che non si hanno dati chiari sui voucher erogati nel 2015.

Le nuove disposizioni per i voucher presenti nel Decreto dignità (2018) hanno introdotto il concetto di lavoro occasionale accessorio che prevede per le aziende alberghiere e le strutture turistico-ricettive che il ricorso al contratto di prestazione occasionale venga esteso alle imprese che hanno fino a otto dipendenti a tempo indeterminato, a fronte del limite di cinque lavoratori subordinati a tempo indeterminato previsto dalla normativa vigente. Un meccanismo che mette al riparo la quasi totalità del comparto turistico che esprime una media nazionale di sei dipendenti assunti per azienda. Questo elemento di precarizzazione assume carattere di evidenza empirica: il settore turistico viene «attraversato» da milioni di lavoratori ipersfruttati, caratterizzati da bassi livelli salariali, contratti inutili sul piano delle tutele sindacali e reclutati con un sistema che, per i lavoratori migranti e non solo (si pensi alle agenzie del lavoro), passa per un caporalato mascherato da intermediazione. Questo nonostante i fatturati da capogiro di albergatori e manager del settore e la forte incidenza del comparto turistico sul Pil (10%).

D’altronde, un iperliberista come Michele Boldrin, in una dichiarazione rilasciata nel 2017, ha provato a disarticolare la presunta relazione tra ricchezza e turismo: «Chi se ne frega se il turismo è da record! Il turismo è un settore marginale e a basso valore aggiunto nel sistema economico italiano: hai presente cosa siano i salari medi nel settore turistico? Perché continuare a diffondere questa bufala del turismo che dovrebbe portare ricchezza? Il turismo porta ricchezza per pochi, lavori miserabili per alcuni e scempio delle città storiche e degli ambienti naturali». Nella concorrenza turistica, infatti, si vince grazie alla competitività ricettiva che è frutto della moderazione salariale e della progressiva precarizzazione del settore.

Tutto questo si scarica socialmente sul tessuto territoriale proprio perché ampi settori sociali ipersfruttati rendono possibile, tramite il proprio lavoro, la messa a valore della competitività turistico-ricettiva intesa come possibilità, data al turista, di scegliere il meglio per sé e con costi d’accesso sempre più bassi spesso legati al costante e crescente ricorso a piattaforme digitali come airbnb. Nessuna redistribuzione di questa enorme montagna di denaro (il solo settore ricettivo fattura ogni anno circa 26 miliardi di euro) vedrà protagonisti camerieri, cuochi, lavapiatti, guide, autisti, ossia tutti coloro che, come abbiamo già detto, rendono possibile la competitività turistica.

Infine, resta la necessità di far fruttare i territori ai fini turistici: stiamo assistendo alla progressiva rovina paesaggistica, culturale, ecologica e umana dei nostri luoghi voluta da politiche governative − nazionali e locali − che hanno come unico intento quello di rendere il territorio ricettivo rispetto alle richieste del turismo globale. L’unicità dei nostri ambienti viene stravolta, deformata e poi piegata alle esigenze della ricettività turistica. L’esito di ciò è sotto gli occhi di tutti: ambienti costieri, montani e urbani vengono ridisegnati per poter assecondare le esigenze effimere di settore − quello turistico e ricettivo − che, alle nostre latitudini, prova a uniformarsi agli standard internazionali ma che, puntualmente, deve fare i conti con un’economia, quella meridionale e calabrese, perennemente depressa e che difficilmente riuscirà a trovare risposte nel turismo massificato.

Se non esiste nessuna relazione tra turismo e ricchezza, intesa come benessere diffuso su un territorio, allora è giunto il momento di rivendicare un altro modello di gestione che non guardi al profitto, al territorio che produce ricchezza per pochissime persone, ma piuttosto a un’economia socialmente ed ecologicamente orientata che possa garantire benessere diffuso.


Big data

Tutto sommato, si poteva prevedere che Amazon & Co. avrebbero fatto buoni affari grazie al lockdown e alla consequenziale didattica a distanza, al lavoro agile e con gli acquisti online. L’onda lunga del lockdown ha spinto, oltre ogni più rosea aspettativa, i ricavi e i profitti dei colossi della tecnologia targati Usa. I dati del terzo trimestre 2020 indicano chiaramente chi, durante il blocco pandemico, ha macinato quattrini: Facebook, Amazon, Apple e Google, tra vendite online e servizi di cloud, hanno registrato entrate da capogiro.

Amazon ha riportato entrate in rialzo del 37% con 96,15 miliardi di dollari, con utili più che triplicati a 6,3 miliardi. Alphabet (holding a cui fanno capo Google Llc e altre società controllate) ha registrato un rialzo del 14% con 46,17 miliardi e utili del 59% pari a 11,25 miliardi. I ricavi di Face­book sono saliti del 22% con 21,47 mi­liardi e utili lievitati del 29% a 7,85 miliardi nonostante il declino del numero di utenti in Nord America più propensi − soprattutto tra le giovani generazioni − ad altre piattaforme social. Anche Twitter, nonostante le difficoltà, ha superato le aspettative, per profitti e giro d’affari. Chiaramente anche i possessori di titoli sono stati tra i più premiati durante la crisi da coronavirus: Ap­ple da gennaio ha guadagnato il 54%, Amazon il 71%, Facebook il 34% e Alphabet il 15%. Il con­fronto con i dati di previsione dà la misura dell’impatto sull’economia globale mostrata dai colossi della tecnologia. Amazon era attesa a un giro d’af­fari trimestrale di 92,7 miliardi e a utili per azione di 7,41 dollari. L’avanzata è stata trainata dal com­mercio elettronico e dalla divisione di servizi cloud, Aws (+29%). La pandemia ha generato impennate negli acquisti online dominati dal gruppo Amazon nonostante l’avanzata di concor­renti quali Microsoft. Apple aveva previsto ricavi per 63,48 miliardi e utili per azione di 70 centesimi, sostenuti da forti avanzate nei servizi di streaming (Apple Tv). Per Alphabet le stime di en­trate erano pari a 42,9 miliardi e quelle degli utili per azione di 11,29 dol­lari. Facebook si aspettava 19,82 miliardi e 1,94 dollari di utili per azione. Sul social network di casa Zuckerberg crescono del 12% gli utenti attivi giornalieri: ciò significa che ogni giorno si connettono nella galassia virtuale di Facebook circa 1,82 miliardi di persone. E più utenti comportano più pubblicità (M. Valsania, Amazon & Co. vanno oltre le attese: conti record per i big tecnologici Usa, «il Sole 24 Ore», 30 ottobre 2020).

Come per Facebook, è la pubblicità a far volare gli utili di Alphabet e YouTube. Nel primo caso, le entrate sono aumentate del 6,5% a 26,34 miliardi su base annua, mentre gli annunci su YouTube sono aumentati del 32,4% per 5,04 miliardi. A incidere più di tutto, però, sono state le entrate del cloud che sono aumentate del 44,5% a 3,44 miliardi di dollari su base annua. Non è un caso che la cosiddetta Google Suite sia uno degli strumenti più utilizzati per lo smart working e per le attività scolastiche a distanza (V. Della Sala, Covid-19: Big Tech è sempre più ricca, «Il Fatto Quotidiano», 31 ottobre 2020).

D’altronde, le nuove tecnologie digitali fanno ormai parte della nostra vita quotidiana, ma anche del nostro corpo, con i device che diventano protesi indispensabili per sopravvivere. Le portiamo addosso ovunque: controllano tutti gli ambienti della vita sociale, dal tempo libero ai luoghi di lavoro, dalla casa ai templi del consumo.

Una colonizzazione dell’immaginario a fini economici con un risvolto sociale a essa ovviamente funzionale: una nuova e spesso poco percepita subordinazione del cosiddetto popolo virtuale che, con i like, i messaggi e i selfie condivisi sui social-network, contribuisce a potenziare il dominio dei Big Tech.

La potenza economica dispiegata da quello che Renato Curcio ha definito l’impero virtuale viene innervata nella società capitalistica attraverso i tanti dispositivi digitali che oggi mediano le nostre relazioni e le attività lavorative. Siamo di fronte a una radicale metamorfosi antropologica che ha completamente rovesciato il rapporto tra gli umani e i loro strumenti di vita e di lavoro, modificando al contempo i ritmi e i rapporti che sembrano come affetti da un autismo digitale che «sterilizza ogni affettività relazionale costringendola a manifestarsi nei congelatori delle connessioni reticolate» (R. Curcio, L’egemonia digitale, Sensibili alle foglie, Roma 2016).

Colossi come Amazon, Google e Facebook oggi costituiscono i capisaldi del capitalismo digitale i cui profitti sono direttamente proporzionali al numero di utenti, forza lavoro inconsapevole e gratuita nell’iperfabbrica virtuale di internet. Non conosciamo ancora le conseguenze sui tempi lunghi di questa ulteriore fase del modo di produzione capitalistico; è chiaro però che sin da subito occorre, da un lato, iniziare a immaginare pratiche di decolonizzazione collettiva per istituire, nei luoghi reali della vita, varchi di autonomia, dall’altro, pensare a un contro-uso degli strumenti del capitalismo digitale per provare a inceppare il meccanismo accumulativo del capitale. Un lavoro politico difficile e complesso che non può essere delegato in alcun modo ai governi nazionali o alla regolamentazione delle istituzioni internazionali.

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