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Come si liquida un popolo: i processi di «normalizzazione» nell’attivismo pro Palestina (1970-2022)



Pubblichiamo un articolo che si inserisce nella cartografia dei decenni che stiamo portando avanti. L’autrice del testo, Diana Carminati, si interroga su continuità e discontinuità nelle analisi e nelle critiche sulle politiche internazionaliste tra anni ’70 e anni ’80 e ’90, con particolare attenzione alla questione palestinese. Il tema verrà sviluppato più approfonditamente in un testo di prossima pubblicazione per DeriveApprodi.


* * *


L’umanità non progredisce lentamente di lotta in lotta fino ad una reciprocità universale,

dove le regole

si sostituiranno per sempre alla guerra;

essa insedia ciascuna delle sue violenze in un sistema di regole,

ed avanza così di dominazione in dominazione.


M. Foucault, Microfisica del potere, Nietzsche, la genealogia, la storia”


Hommage à Jean Hyppolite

Parigi, 1971, Einaudi 1977, p. 40



«Come si liquida un popolo»? Sono rimasta colpita dalla frase rintracciata nell’opuscolo «Palestina» del quale parlo nel Prologo del libro in prossima uscita. Era nel titoletto di un paragrafo: «Piano Rogers: Come si liquida un popolo»[1], di un opuscolo scritto e pubblicato nel 1971 dal «Collettivo pisano Palestina Rossa» dal titolo: «Palestina, Imperialismo, revisionismo e Piano Rogers». E mi aveva molto sorpreso: perché nel 1970-71 alcuni attivisti in Italia fossero così consapevolmente lucidi sul destino di quel territorio a tal punto da affermarlo in una loro pubblicazione.

Nel cercare di risistemare il materiale di molti anni (oltre 18) come attivista sulla questione palestinese, mi ero chiesta se fosse possibile rintracciare segnali di continuità (ad es. con la memoria delle lotte degli anni ’70 o con la Resistenza) oppure di discontinuità, rispetto all’oggi, nelle analisi e critiche sulle politiche internazionaliste nei vari gruppi dell’autonomia operaia e dei circoli sociali che a fine anni ’70 e poi ’80 manifestarono contro il sistema di potere del capitale.

Se i gruppi e i collettivi, quelli ancora presenti o ricostituiti negli anni ’85-‘95, dopo la crisi dei movimenti e la repressione, riuscissero a manifestare la stessa solidarietà per le lotte del popolo palestinese, rispetto agli anni ‘70. Se fosse possibile rintracciare o meno un «filo rosso» che tenesse insieme quelle particolari posizioni internazionaliste e di solidarietà con i popoli oppressi nel mondo, come era avvenuto per il Vietnam, l’America Latina, l’Africa, i Paesi baschi e il Medio Oriente, con le lotte del periodo successivo. Certo nella diversità dei problemi da affrontare, dei metodi di azione politica, dati gli sconvolgimenti portati sia dagli eventi esterni sia, in Italia, dalla frammentazione dei movimenti, soprattutto alla luce delle profonde trasformazioni avvenute all’interno del paese con la risposta del capitale alla crisi e le profonde trasformazioni avvenute in fabbrica, e nella composizione di classe degli operai, dall’operaio massa all’operaio sociale, là dove aveva potuto costituirsi e le ripercussioni nella società. E quando e perché il livello di analisi critica e contestazione in Italia sulla questione israelo-palestinese, fosse andato declinando nelle sue modalità di lotta, osservando i risultati odierni.

Scrive Giovanni Iozzoli, delegato sindacale CGIL e FIOM a Modena e tra i fondatori dell'esperienza del Csoa Officina 99 a Napoli nel 1991 [2]:

Di fatto, all’inizio degli anni 80, le uniche soggettività autonome sopravvissute alla bufera del 7 aprile e alla sconfitta di classe, sono l’area romana e il polo veneto: due realtà che convivranno per un decennio nel Coordinamento nazionale antinucleare antimperialista, in una testarda dialettica (di unità e competizione…), che segnerà positivamente anche le grandi campagne di quegli anni contro le carceri speciali e la tortura, il contrasto al Piano Energetico Nazionale, le battaglie internazionaliste, dall’America Latina alla Palestina. I Comitati Autonomi Operai, per tutto il decennio 80, saranno il punto di riferimento nella faticosa opera di ricostruzione di un tessuto nazionale, soprattutto per i giovani gruppi del centro sud.

E cita Giorgio Ferrari nel suo libro su L’autonomia operaia romana[3]:

non avremmo potuto reggere l’impatto della repressione di quegli anni bui senza la convinzione di migliaia di militanti e la solidarietà dei quartieri proletari e questa non scaturiva da un cenacolo di teste pensanti, ma da un radicamento sul territorio che non aveva precedenti e dove le lotte costituirono la migliore scuola quadri che avremmo potuto immaginare (p.125).

Per alcuni analisti[4] di quella fase particolare l’anno 1980 è un punto di svolta, un momento di cesura, la fine del protagonismo operaio. Nuovi soggetti entrano in campo ma con un processo di politicizzazione e aspettative diverse, con una ricomposizione di classe controllata dal capitale. Si ponevano nuove domande oltre la fabbrica: dubbi sulla tenuta delle lotte oltre i confini regionali, il rapporto tra individuo e collettività, gli esiti di una nuova soggettività operaia, come attraversare gli anni successivi durante il «laboratorio» capitalistico di repressione. Restava la memoria di quegli anni?[5] Quel movimento finì ma non fu sconfitto, negli anni ’80 ricominciò ma con altri stili di militanza.

Dopo le contestazioni contro il nucleare degli anni ’80, nel ’87-’88 si avvieranno manifestazioni di solidarietà con la 1° Intifada in Palestina e nel 1991 contro la guerra nei Balcani e la disgregazione della Jugoslavia, le nuove contestazioni contro la «globalizzazione» a fine anni ’90 sino al 2000-2001 e nuove atroci sconfitte.

La ricerca presentata nel libro da me curato è solo un primo tentativo di raccogliere la documentazione posseduta nell’Archivio ISM-Italia (Associazione sorta in solidarietà con l’International Solidarity Movement palestinese), e da Alfredo Tradardi (scomparso nel 2018) dal 2004 sino al 2017 e a me rimasta[6]. E a riconnettere il livello e le modalità dell’attivismo politico internazionalista del ventennio dopo i fatti di Genova del luglio 2001, all’attivismo pro-Palestina dei circoli autonomi ancora presenti negli anni’80 sino al 2000. A una possibile o meno eredità delle iniziative e politiche dei Forum sociali locali organizzati in molte città italiane, ma soprattutto per ricreare memoria di un movimento di lotta politica e culturale in solidarietà con la 1° Intifada e poi soprattutto con la 2° Intifada, dall’ottobre 2000 contro l’aggressione militare israeliana nei Territori occupati palestinesi. Solidarietà e lotte che sono andate progressivamente declinando. Vorrei aggiungere inoltre che questo lavoro riguardante ciò che si può definire la «normalizzazione» dell’attivismo italiano sulla questione palestinese vuole assumerlo soltanto come un case study, non si pone il progetto di risolvere questo tema come attinente soltanto alla Palestina, ma acquisirlo come esempio per molti altri settori della politica interna e internazionale.

La ricerca ha cercato di far emergere e sciogliere alcuni nodi centrali della questione:

quali le cause di questo declino, quali le modalità di quanto è avvenuto, le responsabilità e cosa sta avvenendo ora. Cercare di capire il perché dell’inadeguatezza di pensiero critico di una gran parte degli attivisti e il loro adattamento alla «linea politica», alle parole d’ordine dei leader delle Associazioni e gruppi maggiori. In molti report da me scritti in quegli anni, dal 2008 al 2017 mi sono chiesta se questo comportamento fosse frutto di una maggiore fragilità del pensiero politico degli individui, dopo gli anni ’90, di una maggiore disillusione nelle possibilità di cambiamento, dovuta alle esperienze sperimentate o meno negli anni ’70, e, certo, per un cambio generazionale avvenuto con le trasformazioni tecnologiche, e biologiche di apprendimento dell’ultimo decennio.

Inoltre, se fosse stato un progetto di «normalizzazione» organizzato da tempo dal sistema di potere per indebolire gli individui più fragili e emarginare i resistenti. Progetto che si innescava su comportamenti sociali di delega all’autorità, che provenivano da tempi lontani. In quali modalità è avvenuta la «normalizzazione» su quella precisa «questione», nel contesto europeo e italiano in particolare, quali gli artefici, in generale e se è possibile comprendere chi ne ha giovato.


Normalizzazione come tecnologia di potere per l’assoggettamento degli individui

Per quanto riguarda il concetto di normalizzazione, di cui si tratta diffusamente per la situazione palestinese nel capitolo 12, concetto che viene anche definito assoggettamento, e che viene descritto da alcuni autori non occidentali come «addomesticamento»[7], occorre recuperare gli studi del filosofo francese Michel Foucault, negli anni ’60-’70 del secolo scorso, sui dispositivi disciplinari di controllo sul corpo, sulla costruzione dell’identità del sé e di controllo di questa identità e i relativi comportamenti a partire dal Medio Evo. In particolare fra le quattro categorie di tecnologie del sé studiate, Foucault individuava le tecnologie del potere[8]. Discorso molto complesso sul concetto che verrà analizzato successivamente da molti studiosi come biopolitica[9]. Vediamo in sintesi alcuni fra i temi che più ci interessano. Ad es. come vanno analizzate le tecnologie del potere? Non a partire dal centro:

si tratta di cogliere , al contrario, il potere alle sue estremità, nelle sue ultime terminazioni, là dove diventa capillare, di prendere cioè il potere nelle sue forme ed istituzioni più regionali, più locali, soprattutto là dove, scavalcando le regole di diritto che l’organizzano e lo delimitano, si prolunga al di là di esse, s’investe in istituzioni, prende corpo in tecniche e si dà strumenti d’intervento materiale, eventualmente anche violenti.[10] […] Il potere deve essere analizzato come qualcosa che circola […] funziona, si esercita attraverso un’organizzazione reticolare. E nelle sue maglie gli individui non solo circolano, ma sono sempre in posizione di subire e di esercitare questo potere, non sono mai il bersaglio inerte o consenziente del potere, ne sono sempre gli elementi di raccordo. […] il potere transita attraverso l’individuo che lo ha costituito[11].

Seguendo la riflessione di H.Gutman, nel seminario organizzato in memoria dello studioso nel 1988, si vede come Foucault abbia svolto la sua indagine (partendo da scritti di secoli passati (in particolare le Confessioni di Rousseau), per mettere in luce:

Il lavoro immenso compiuto [….] Per produrre […] l’assoggettamento degli uomini; voglio dire la loro costituzione come «soggetti», nel duplice senso della parola (soggetti e sudditi) […] Per far diventare l’uomo, e sempre più ineluttabilmente, soggetto ai piani del potere[12]

Scrive Hutton, un altro studioso nello stesso seminario di discussione:

Foucault si schiera con quegli storici che in numero sempre crescente si stanno accostando alla psicologia storica in una prospettiva non psicoanalitica. Le sue indagini hanno molte affinità con quelle degli storici delle mentalità collettive, per i quali il problema della psiche si pone in termini della sua definizione da parte delle forze sociali e culturali con cui interagisce. Essi studiano come l’ambiente materiale, i costumi sociali e l’uso linguistico creino un milieu psicologico collettivo nel quale si trova immersa la mente individuale. La costruzione della cultura è oltre che un processo creativo, un processo prescrittivo. […] Lo sviluppo culturale implica dunque la costrizione culturale.[13]

Nell’ultimo decennio gli studi sul concetto di normalizzazione riguardano il colonialismo d’insediamento odierno, sia per le riflessioni di studios* palestinesi, come Honaida Ghanem che ritroviamo nel libro, come normalizzazione che poggia su «un prodotto di relazioni di potere ineguali fra oppressori e oppressi», sia ad es. per l’analisi approfondita dello studioso israeliano Marcelo Svirsky sui meccanismi di costruzione culturale e manipolazione psicologica, da parte delle istituzioni israeliane, per la trasformazione dei coloni ebrei europei in nativi, in Israele e nella Cisgiordania occupata.

Ma vi sono studi infine che riflettono sulla normalizzazione delle politiche mondiali fra paesi occidentali «normali» e paesi considerati «non normali», fragili, passibili di sottomissione[14]. Si tratta di questioni importanti: perché il contesto mondiale deve essere normato e corrispondere ad una strutturazione di stati che hanno precise regole come diritti umani, libertà politiche e democrazie e giustizia sociale in modo da misurare la situazione di normalizzazione di quel particolare Stato per essere accettato, oppure no, nella comunità internazionale. Verso una società di docili stati e docili individui. Ma non è sempre così. Talvolta alla manipolazione e normalizzazione si può resistere.

Ma ritorniamo alla ricerca del libro e alla sua riflessione sulla normalizzazione non soltanto sulla sottomissione di stati oppressori su paesi occupati da subordinare ma anche per quanto avviene all’interno di stati occidentali normali su individui-cittadini da sottomettere anche psicologicamente.

Questo lavoro è l’elaborazione ricavata dai documenti a disposizione nell’ultimo ventennio, ma è anche tratto dalla mia esperienza personale, dai report da me scritti in quegli anni, da ricerche su giornali locali riguardanti i Forum sociali locali, da altre ricerche svolte nel 2012-13 sugli accordi fra governo italiano e israeliano e accordi economici, militari e di alta tecnologia tra Istituzioni, (come Regioni e Province italiane), e dagli scritti di studiosi e attivisti di quel periodo.

Mi chiedevo, forse ingenuamente, se su questa esperienza e sul bilancio da trarne sarebbe stato importante una discussione con altri attivisti, testimoni «liberi di mente» per interrogarci ad es. sulle modalità delle nostre attività. In una discussione critica, accettando il dissenso, senza definirsi immediatamente, com’è avvenuto spesso, in «campi» [orrenda parola, usata anche in altri contesti], contrapposti e nemici. Ma non è possibile. Poiché questo è stato da sempre l’agire politico. In questo caso, l’agire dei leader dei gruppi di maggioranza dell’attivismo «solidale», protagonisti per la «pace» e la «solidarietà» fra i popoli, che hanno invece portato avanti politiche ambigue, disastrose per i popoli oppressi e che hanno prodotto migliaia di vittime ovunque. Politiche senza nessun risultato se non quello di sottomettersi poi al sistema di potere globale odierno con la sua narrazione ufficiale, in questo caso particolare filo sionista e in generale con un progetto di dominio occidentale in almeno tre quarti del globo.

Come è stato esposto in modo più dettagliato nella prima parte del libro, la ricerca riguardante l’attivismo pro Palestina di alcuni collettivi autonomi ancora esistenti negli anni ’80 è partita da un primo archivio conosciuto e consultato, quello di Genova, l’Archivio dei Movimenti della Biblioteca Berio.

Sono stati rintracciati anche, mediante ricerca su internet, altri Archivi dei movimenti degli anni ’70-’80: in particolare a Bologna, l’Archivio storico della Nuova sinistra «Marco Pezzi» (in particolare il Fondo Luigi Vinci, creato nel novembre 1989[15], l’Archivio storico dei movimenti di «via Avesella»[16], inaugurato solo nel 2020; il Centro di documentazione dei movimenti «Francesco Lorusso-Carlo Giuliani» che ha ottenuto nel 2015 dalla Soprintendenza Archivistica dell’Emilia Romagna-Archivio di Stato di Bologna la «Dichiarazione di interesse culturale» [17]. A Milano l’Archivio online Primo Moroni [18]. A Roma è importante l’Archivio storico della Fondazione Lelio e Lisli Basso, in cui si trovano fondi relativi all’attività internazionale per i diritti dei popoli[19]. Ma per quanto riguarda la questione israelo-palestinese la ricerca risultava ancora lunga, incerta e con pochi risultati. La documentazione sull’attivismo di solidarietà per la Palestina è ancora molto disperso fra molti attivisti o in Archivi dei vari gruppi o Associazioni.

Nell’Archivio dei Movimenti di Genova, unico da me consultato per la vicinanza e per la documentazione importante per il numero dei documenti versati e molto preciso per l’organizzazione archivistica e per la descrizione degli stessi, è stato possibile rintracciare, in un sottoinsieme, l’archivio del Centro sociale occupato «Emiliano Zapata» e in esso alcuni faldoni sull’attività dei compagni dei Collettivi sul tema della solidarietà con la Palestina[20]. Ne trascrivo una breve storia.

Il Centro sociale Emiliano Zapata[21] di Genova nasce il 6 gennaio 1994 quando un gruppo di liceali e universitari decide di crearsi uno spazio di discussione autogestito, occupando una scuola abbandonata in Salita Bersezio, sulle alture del quartiere genovese di Sampierdarena. Da allora il centro sociale ha cambiato gli spazi, [con molte occupazioni e sgomberi [NdA], ponendo come sede i Magazzini del Sale di Sampierdarena. Il Centro sociale Zapata si è posizionato nell'area dei Centri sociali che hanno raccolto l'eredità politica dell'Autonomia operaia, che a sua volta ha rappresentato l'evoluzione, sia pure con grosse trasformazioni e rotture, del gruppo politico "Potere Operaio". Lo Zapata, dal punto di vista della costituzione del fondo documentario, è stato perciò un deposito e un collettore soprattutto della produzione dei gruppi e dei militanti e attivisti che si riconoscevano in questa area, sia a livello locale che nazionale. È il più conosciuto tra i centri sociali genovesi, attivo in vari settori della politica radicale sia locale e che nazionale, ha partecipato negli anni '90 alla rete transnazionale ECN (European Counter network), ai movimenti contro la globalizzazione (G8 di Genova 2001), antimperialisti e antirazzisti.

Il Centro sociale autogestito Emiliano Zapata prese il nome dal movimento zapatista che proprio il 1 gennaio 1994 si era costituito in Messico come Ezln, esercito di liberazione nazionale, occupando un territorio nel Chiapas.

Il centro rappresentò con pochi altri, negli anni ’90 l’eredità del percorso dell’autonomia operaia organizzata. Un’eredità innanzitutto di esperienze e progetti individuali e collettivi di militanza politica[22].

Il Centro Zapata operò nel centro occupato di Sampierdarena sino al G8 del 2001 e vi sopravvisse. Ora, 2023 si teme un suo sgombero da parte del Comune per alcuni progetti edilizi.

Di questo periodo si trovano poche tracce di documenti nell’Archivio di Genova e in altri Archivi, probabilmente ancora dispersi fra gli attivisti o in piccoli archivi non ancora versati, anche perché la prima metà degli anni ’80 era stata per i collettivi dell’autonomia disastrosa, come si evince dal documento qui sotto riprodotto, sia per la repressione poliziesca sia per un altro strumento micidiale, l’eroina.

Nei primi anni ’90, quell’arma usata per distruggere il movimento e un’intera generazione, dieci anni prima, era ancora presente, e a Genova più che in altre città.[23]

Ma anche a Milano l’arma dell’eroina fu decisamente letale per i giovani e i più fragili[24]. Come viene documentato anche nella testimonianza di Primo Moroni[25].

[E ancora]: «L’eroina era tutta intorno a me, a Savona», afferma lo studioso Sandro Mezzadra[26], allora studente a Genova.

Da un documento senza data (ma del 2009) e non firmato[27] possiamo ricavare in sintesi le vicende di una parte dei documenti che ora si trovano nell’Archivio dei Movimenti di Genova:

32 anni fa (nel 1977) venne aperta dalle strutture dell’Autonomia Operaia Organizzata una libreria con annesso centro di documentazione, in Via di Porta Soprana, nel centro di Genova. Conosciuta da tutti come «la libreria di Porta Soprana», raccoglieva al suo interno anche materiali di stagioni politiche precedenti. Nel maggio del 1979 la libreria venne devastata nel corso delle perquisizioni avvenute durante il «blitz» del generale Dalla Chiesa che si verificò il 17 maggio. Nonostante i danni subiti l’attività continuò fino alla fine del 1981 (forse inizio ’82 al massimo) quando venne chiusa e i materiali vennero trasferiti al «Circolo Pickwick», sempre in Via di Porta Soprana. Quest’ultimo era un circolo «culturale» utilizzato nei primi anni ’80 da quel che rimaneva attivo in città in quel periodo, sostanzialmente universitari e alcuni compagni ancora attivi provenienti dalla stagione che si era chiusa. Con la «rifondazione» nel 1983 dell’area autonoma (con la sigla Coordinamento Nazionale Antinucleare Antimperialista) si arrivò ad una rottura un paio d’anni dopo all’interno del Pickwick tra chi voleva dare alle attività del circolo una valenza esclusivamente culturale, sia pure orientata a sinistra, e chi intendeva invece stare dentro i movimenti che timidamente ricominciavano a fare capolino anche in Italia (antinucleare, studenti, spazi sociali etc). Anche, ma non solo, per questo contrasto nasce la decisione di aprire un Centro di Documentazione e Comunicazione Antagonista (nel giugno 1985) in Vico Indoratori 68, come punto di riferimento d’area e come tentativo di ripresa di una militanza vera e propria sul territorio, che a partire dal cosiddetto ‘movimento dell’85’ inizierà ad espandersi progressivamente. […] Nel 1993/94 parte il ciclo di occupazioni di centri sociali a Genova e nasce il movimento antirazzista e per i diritti di cittadinanza. Dentro questo ciclo il Centro Sociale Zapata e l’associazione Città Aperta sono le due realtà più importanti e in cui confluiscono i compagni di Santa Croce, che, nel frattempo, cessa di essere un organismo politico rimanendo per un breve periodo esclusivamente uno spazio fisico dove fare riunioni o lasciare materiali.

I temi ricorrenti negli opuscoli e nei documenti rintracciati sono essenzialmente due: per quanto riguarda gli obiettivi: il boicottaggio diretto dei prodotti israeliani, e la critica della politica israeliana. Come azione diretta: oltre al boicottaggio, l’azione solidale con finanziamenti per asili e adozioni a distanza di bambini palestinesi. È notevole, per chi legge oggi questi volantini e opuscoli, l’estrema chiarezza dimostrata dai giovani dei collettivi, pur avendo vissuto e talora subito momenti molto duri negli anni precedenti, riguardo all’indicazione delle modalità di azione, in particolare nelle azioni di boicottaggio dei prodotti israeliani: azioni dirette nei supermercati, volantinaggio di spiegazione delle motivazioni, accompagnata dall’analisi critica delle politiche dei governi israeliani sia durante la 1° Intifada sia prima e dopo gli Accordi di Oslo.

Queste argomentazioni molto critiche, dure ma anche molto lucide si erano trovate soltanto nei primi anni ’70, sia nell’opuscolo «Palestina. Imperialismo, revisionismo, e piano Rogers», del Collettivo pisano «Palestina rossa» pubblicato nel 1971, sia negli articoli della rivista quadrimestrale con lo stesso nome «Palestina», mensile a cura di «Comitato italiano di solidarietà con il popolo palestinese», pubblicato a Roma (anni 1970-’71). Di cui si tratta nel primo capitolo del volume.

Fra gli altri temi trattati, ritrovati mediante alcune ricerche personali ed elaborati nel libro, possiamo citare: gli aspetti di critica di alcuni collettivi locali sulle modalità di azione e discussione nelle attività dei Forum sociali internazionali, v. per es. alcuni documenti di un collettivo di Castellamonte (Ivrea), che critica il sistema di «democrazia partecipativa» quasi inesistente nelle assemblee e la lunga lettera degli esponenti brasiliani dei Sem terra, molto lucida e critica sulle posizioni e sull’azione dei leader del Forum mondiale di Porto Alegre del 2002 e sull’organizzazione delle Ong che funzionano, secondo gli stessi, per più del 70% dei progetti con il finanziamento della Banca mondiale. È possibile che queste istituzioni (insieme con FMI e WTO) siano «neutrali» e che non esprimano gli interessi del capitalismo globale? Tutto questo era già molto evidente nel 2002.

Altrettanto interessante, ma ormai obsoleta, è la ricerca effettuata nel 2012-13, per comprendere il funzionamento della normalizzazione tramite gli accordi Italia-Israele, e con gli accordi tra Regioni e Province italiane e imprenditoria e agenzie israeliane in tutti i settori economici, militari e di alta tecnologia; e per comprendere anche le complicità di quasi tutti i politici della sinistra in Italia. Altro tema di rilievo fatto emergere è quello del diffondersi lentamente, quasi con timore, negli ultimo decennio, del discorso critico sull’Apartheid, come unico discorso esistente di fatto in Italia sul tema dell’occupazione israeliana, sui suoi effetti economici e sociali e sulla questione dei diritti per la popolazione occupata, salvo poi diventare negli ultimi anni l’unica critica contro Israele. E invece il silenzio sugli studi riguardanti il progetto israeliano di colonialismo d’insediamento (molto avanzato a livello internazionale) e le sue effettive conseguenze. Ma c’è silenzio totale sul diritto alla resistenza e alla lotta di liberazione per un popolo occupato. E infine il problema del funzionamento delle ONG e della Cooperazione internazionale. La ricerca si pone anche la domanda: perché da oltre 20 anni la maggioranza dei leader dei gruppi di solidarietà continua a ripetere il mantra della two states solution? A chi giova? E a che serve in questo caso l’ONU e le sue numerose inutili, perché non cogenti, «Risoluzioni»?

Ma forse si può trovare qualche risposta.



Note [1]Collettivo Palestina rossa (a cura di), Palestina, Imperialismo, revisionismo e Piano Rogers, «Quaderni di Nuovo impegno», Pisa, 1971, p. 11. [2] L'autonomia operaia romana - Carmilla on line [3] G. M. D’Ubaldo, G. Ferrari, Gli autonomi, Volume IV, L’Autonomia operaia romana, DeriveApprodi, Roma, 2017. [4] V. Lezione di Salvatore Corasaniti del 1° febbraio 2022, sulla Autonomia operaia romana, 2a parte, in corso online Gli autonomi, Le storie, le lotte, le teorie, «Machina Derive Approdi», gennaio febbraio, marzo 2022 [5]Cfr. il dibattito avvenuto tra i partecipanti nella lezione di Veronica Marchio sull’Autonomia operaia veneta, 22 febbraio 2022, corso on line organizzato da «Machina DeriveApprodi», cit. [6] Per ora il materiale documentario di ISM-Italia è custodito come carte Tradardi, presso l’autrice, ma sarebbe importante catalogarlo meglio (ora è in dossier), e inserirlo presso uno degli Archivi dei movimenti, in particolare quello di Parma, dove è versato anche quello del fratello Vincenzo Tradardi. Ho proposto ad altri attivisti, che avevano condiviso lo stesso percorso di denuncia di quanto accaduto in Italia e in Europa nel primo ventennio di questo secolo, di unirsi per discutere e scrivere insieme questa parte di storia dell’attivismo pro Palestina. Per ora ci sono ancora dubbi e reticenze sulla utilità di questa operazione. Troppe specialmente in questi ultimi anni le pressioni al limite delle minacce e ritorsioni da parte del settore filoisraeliano. [7] V. la definizione che ne dà un giornalista siriano nel giornale alTawra nel 1970, citato nel mensile «Palestina»e riportato nel Prologo di questo libro. E fa riferimento ai non europei, in particolare africani ed arabi, definiti ancora nel codice razzista novecentesco come «non umani». [8]M. Foucault, Tecnologie del sé, Un seminario con L.H.Martin, H.Gutman, P. H.Hutton (a cura di), Bollati Boringhieri, 1992. Ripreso dal seminario in ricordo di Foucault all’Università del Massachussets nel 1988. [9]V. anche nel decennio a fine anni ’90 i lavori di G. Agamben sul controllo del potere sui corpi Homo sacer, Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi 1995. [10] M. Foucault, Microfisica del potere, Corso al Collège de France del 14 gennaio 1976, Einaudi, 1977, p. 182-83. [11]Ibidem, p. 184. [12]M. Foucault, Tecnologie del sé, cit, p. 97. [13]Ivi, p. 114. [14] G. Visoka and N. Lemay-Hébert, Normalization in World Politics, University of Michigan Press Ann Arbour, 2022. [15]SIUSA - Archivio storico della nuova sinistra Marco Pezzi (beniculturali.it) [16]https://www.infoaut.org/culture/bologna-nasce-l-archivio-dei-movimenti-sociali-via-avesella «Documenti che raccontano dell’eredità del 1968 a Bologna come dell’esplosione di conflitto cittadina del 1977 con i fatti dell’11 marzo 1977, delle prime lotte antinucleariste e sul terreno dell’ecologia politica, delle lotte femministe e di genere e di quelle per il diritto alla casa, delle prime lotte migranti in città fino ai movimenti nella logistica e ai conflitti studenteschi». [17] Centro di documentazione dei movimenti "Francesco Lorusso – Carlo Giuliani" (centrodoc-vag61.info) [18]Primo Moroni, vent’anni di cartografie ribelli e un archivio militante alla Calusca | il manifesto. [19] Archivio storico Fondazione Lelio e Lisli Basso - ONLUS (fondazionebasso.it) [20]Associazione per un Archivio dei Movimenti, Fondo del Centro sociale Emiliano Zapata. Genova, anni Settanta-post Duemila, presso Biblioteca civica Berio 16, via del Seminario, Genova, faldoni LIX e LX. [21] Da https://siusa.archivibeniculturali.it, SIUSA - Centro sociale occupato autonomo Emiliano Zapata (beniculturali.it) [22]V. R.Demontis, G. Moroni (a cura di), Gli autonomi. Autonomia operaia a Genova e in Liguria. Parte II (1981-2001), vol. VIII, DeriveApprodi 2021, p. 264 sgg. [23]Ibidem, p. 282. [24]Testimonianza di un militante, attivista a quel tempo a Milano, K.Y. [25] S. Bianchi, L. Caminiti (a cura di), Gli autonomi. Le storie, le lotte, le teorie, vol.1, DeriveApprodi, 2007, p. 133 sgg.. [26] Ivi, p. 25. Sandro Mezzadra insegna Filosofia politica nell’Università degli Studi di Bologna.Tra i suoi libri: Diritto di fuga. Migrazioni, cittadinanza, globalizzazione, ombre corte, 2006; La condizione postcoloniale. Storia e politica nel presente globale, ombre corte, 2008; Un mondo da guadagnare. Per una teoria politica del presente, Meltemi, 2020. Con B. Nielson ha pubblicato Border as Method, or, the Multiplication of Labor, Duke University Press, 2013, trad. in Italia S. Mezzadra, B. Nielson, Confini e frontiere. La moltiplicazione del lavoro nel mondo globale, il Mulino 2014. [27] Archimovi, Fondo Zapata, Genova, faldone LIX, fasc. 1.



* * *


Diana Carminati, già professore associato di Storia dell'Europa contemporanea presso l’Università di Torino, ha curato progetti nella Striscia di Gaza dal 2003 al 2006 per il Comune di Torino insieme ad Associazioni di donne della città. Nel 2006 ha collaborato con il gruppo ISM-Italia (Italian Solidarity Movement), e ha curato attività culturali (traduzione collettiva del libro di I. Pappé, La pulizia etnica della Palestina, Fazi 2008 e del libro di Ghada Karmi, Sposata a un altro uomo. Per uno stato laico e democratico nella Palestina storica, DeriveApprodi novembre 2010). Ha seguito seminari internazionali (Madrid, Londra, Parigi, L’Aja) sul tema One democratic state e Appello palestinese per il BDS (Boycott, Divestement and Sanctions.). Ha compiuto tour in Italia su invito di Associazioni e gruppi di solidarietà e circoli universitari per il sostegno alle campagne di BDS e PACBI (Palestinian Academic and Cultural Boycott of Israel), lanciate dal 2005 dalle organizzazioni palestinesi della società civile. È stata coautrice con Alfredo Tradardi di Boicottare Israele. Una pratica non violenta, DeriveApprodi, 2009 e con Enrico Bartolomei e Alfredo Tradardi di Gaza e l’industria israeliana della violenza, DeriveApprodi 2014 e con gli stessi autori ha curato l’edizione di A.a.V.V., Esclusi. La globalizzazione neoliberista del colonialismo d’insediamento, DeriveApprodi 2017.

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