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Catherine Spaak e le altre



Pubblichiamo un articolo di Diego Giachetti che ricorda Catherine Spaak, scomparsa di recente e tra le principali icone di quei giovani che furono i protagonisti delle trasformazioni sociali e culturali nell'Italia degli anni Sessanta.


* * *


Scrivo sollecitato dal post di Augusto Illuminati, pubblicato sulla sua pagina Facebook il 18 aprile, per ricordare Catherine Spaak, deceduta il 17 aprile all’età di 77 anni. Scrive l’autore del post: «non fu soltanto un’icona erotica generazionale maschile per gli anni Sessanta italiani, ma anche una testimone di un rinnovamento di costume e di una stagione di fiducia nei giovani come agenti di cambiamento».

Nata in Francia il 3 aprile 1945, giovanissima debutta in Italia nel 1960 nel film Dolci inganni di Alberto Lattuada, nel quale interpreta il ruolo di un’adolescente spregiudicata che riproporrà in altre circostanze e situazioni in altre pellicole, due delle quali vale la pena di ricordare: La voglia matta, commedia generazionale di Luciano Salce del 1962 e La noia di Damiano Damiani del 1963 tratta dal romanzo di Alberto Moravia. Contemporaneamente incide per la casa discografica Ricordi i suoi primi 45 giri, fra i più noti la cover Tous les garçons et les filles di Françoise Hardy col titolo Quelli della mia età nel 1963[1] e L’esercito del surf, noto anche come Noi siamo i giovani, di Mogol, Pettinacci nel 1964[2].


Primi passi dell’esercito del surf

Film e canzoni che coglievano i primi sintomi di una condizione giovanile maschile e femminile non più disposta ad accettare supinamente il lascito valoriale e politico dei genitori. Se ne ebbe sentore già nel corso delle manifestazioni contro il governo Tambroni nel luglio del 1960. Gli amici di Ovidio Franchi, il diciannovenne operaio fresatore ucciso dalla polizia a Reggio Emilia – figlio di genitori antifascisti, giovane comunista, segretario di un circolo giovanile della Federazione Giovanile –, raccontavano che alle riunioni politiche ci andava giusto il tempo indispensabile. Il suo non era un atteggiamento isolato, i giovani comunisti emiliani erano un problema per gli anziani, i quali si lamentavano dei loro comportamenti: «i giovani – diceva un anziano militante - vengono poco alle riunioni, è difficile mobilitarli per il lavoro politico, mentre invece quando c’è da combattere a viso aperto sono i primi ad accorrere […]. I giovani rispondono che alle riunioni si annoiano, perché noi anziani non siamo al corrente di cose culturali, sportive, cinematografiche […]. A loro piace il rock and roll e a noi, invece, l’opera lirica»[3].

Quei giovani, accanto all’identificazione col proprio ambito familiare, sociale, partitico, sindacale e lavorativo erano indotti a un sentire comune che li accomunava in quanto tali, frutto del diffondersi di una cultura giovanile che li omologava nel modo di vestire, i jeans stretti, i giubbotti, di trascorrere il tempo libero, cinema, bar, gettonare le canzoni al juke box, giocare col flipper, girare in lambretta o in vespa, per i gusti musicali nuovi che li rendeva fruitori delle stesse merci e degli stessi dischi. E le canzonette, assieme ai vecchi canti partigiani, furono le protagoniste della manifestazione di piazza del 7 luglio 1960 a Reggio Emilia, prima della sua tragica conclusione. Ricorda infatti il fratello di Ovidio Franchi: «si cantava canzoni della Resistenza, qualche altra canzone non politica o comunque di attualità in quel periodo, che era di moda, visto anche la nostra giovane età»[4]. Da Genova a Reggio Emilia fino in Sicilia sfilarono manifestazioni antifasciste certo, connotate però dalla «rivolta dei blue jeans»[5], scriveva un giovane comunista, riferendosi agli episodi del luglio 1960.

Si stava formando un’identità trasversale che tagliava orizzontalmente ceti, professioni e classi sociali, che cominciava ad accomunare l’operaio e lo studente, chi abitava in città e chi in provincia. Un’identità che nasceva dal sentirsi giovane tra i giovani, un qualcosa di diverso e separato dal mondo degli adulti, che rendeva eguali e affratellava, nel ritmo di nuove musiche e balli, tra questi, il surf: «noi siamo i giovani/ i giovani più giovani/ siamo l’esercito del surf» cantava Catherine Spaak con la quale esprimeva genericamente sentimenti, incertezze e disorientamenti esistenziali di una giovane generazione. Il surf era uno dei tanti nuovi modi di ballare che si diffondevano nella nostra penisola tra i giovani, mode che duravano una breve stagione come l’hully-gully, il madison, il limbo, il popeye e il twist. Per il loro ritmo incalzante, la frenesia corporea richiesta, questi balli trasmettevano un dinamismo, un’allegria e una gioia di vivere contagiosi, tipica di quando si è giovani e si ha tutta una vita davanti da vivere: «Giovane, giovane, giovane/ hai tutta la vita da viver ancor/ Svegliati, svegliati, svegliati/ […] il sole splende per noi» (Pino Donaggio, Giovane, giovane, di Donaggio – Testa, 1963). Si trattava di balli per i giovani, da ballare coi jeans, stretti e aderenti, indossati anche dalle ragazze, il che, data l’epoca, era già la premessa per uno scandalo sollevato dagli adulti e fatto proprio dai giovani per esprimere simbolicamente il rifiuto di valori ricevuti in eredità dalle generazioni precedenti. Era in atto un’appropriazione di identità generazionale che maturava mentre l’Italia era coinvolta nel passaggio da un’economia prevalentemente agricola a una industriale che comportava fenomeni di inurbamento forzato, con le città che si trasformavano in immense periferie che mangiavano la campagna, come efficacemente raccontava Adriano Celentano nella canzone Il ragazzo della via Gluck del 1966, denunciando l’urbanesimo selvaggio e la speculazione edilizia. Nelle periferie anonime, nei vecchi e decrepiti quartieri medievali, nelle soffitte, dentro alloggi umidi e cadenti, privi di servizi igienici, nelle suburre, si accumulava la rabbia di un proletariato e di un sottoproletariato giovane e di recente immigrazione, che i giornali, a caldo, battezzarono come «giovinastri» e «teppisti».

Le donne che lavoravano percepivano un salario minore, a parità di lavoro svolto, rispetto a quello degli uomini, di circa il 19% nell’industria e quasi del 30% nell’agricoltura. Circa 1.800.000 giovani donne, tra i quindici e i venticinque anni, avevano un’attività extradomestica. Numeri che attestavano la tendenza in atto tra le ragazze a «uscire di casa». Cercavano un lavoro, un’attività che le facesse sentire utili, socialmente ed economicamente indipendenti a cominciare dalla rivendicazione a tenersi lo stipendio guadagnato versando solo più una parte alla famiglia per le spese, invece di ricevere la paghina settimanale dai genitori dopo aver versato in casa l’intera busta paga[6].

L’opinione che gli adulti avevano dei giovani era pessima e severissima. L’87% definiva i teenagers una «generazione perduta», molle, indifferente ai grandi valori e ai grandi ideali, superficiali, arroganti, presuntuosi; ripensando a quando erano stati giovani loro il 93% degli adulti si considerava migliore dei loro figli. Più dell’80% considerava i giovani dei privilegiati e degli ingrati perché non riconoscevano ai genitori i sacrifici che avevano fatto e il 90% riteneva che il loro maggior difetto fosse «la smodata passione per la musica leggera»[7]. Rivolgendosi agli adulti la giovane Catherine Spaak diceva: «io non vi capisco quando dite che siamo diversi perché non abbiamo conosciuto la paura, la guerra e la fame. Anche noi abbiamo infelicità, sofferenze morali che non sono da meno di quelle fisiche. Non c’è mica bisogno di avere dei brutti ricordi per capire la vita»[8].


Quelli della mia età

Catherine Spaak piaceva alle giovani donne per il modo di trattare le questioni sentimentali senza cadere nella retorica dell’amore, del cuore, della famiglia e della madre. Richiamava la dimensione amorosa come necessità impellente di amicizia, cameratismo, frequentazione dell’«altro» nella modalità del flirt, senza impegni vincolanti di fidanzamento e di matrimonio. La ricerca e il bisogno di un o una partner erano invocati, pretesi, parte della condizione giovanile: «tous le garcons el les filles/ […] hanno sempre qualcuno d’amare/ e la mano nella mano/ se ne vanno piano piano/ se ne vanno per le strade/ a parlare dell’amore», intonava Catherine Spaak. Il giovane o la giovane che non avevano qualcuno da amare soffrivano, trascorrevano giornate tristi e inutili: «tutti i giorni e le notti/ sono uguali per me/ tutti pieni di noia/ è triste restare da soli così». L’attenzione ai sentimenti conduceva a primitive forme di autocoscienza, un interrogarsi per dare senso alla propria esistenza, partendo dalle emozioni del «cuore»:«mio cuore/ tu stai soffrendo/ che cosa posso fare per te/ mi sono innamorata/ […]. Sto vivendo con te/ i miei primi tormenti/ le mie prime felicità», cantava la giovane Rita Pavone (Cuore, di Rossi – Mann – Weill, 1963).

Partendo dalle proprie emozioni la nuova generazione femminile in formazione iniziava sommessamente e timidamente a confidarsi sentimenti intimi, pensieri nuovi, prospettive di libertà, rivendicazioni minime, come quella di poter camminare in pubblico, mano nella mano, col proprio partner. Stava crescendo una generazione di spavalde e spavaldi che di lì a poco camminerà allacciata e si bacerà, «con noncuranza degli altri», in pubblico, parlerà di pillola, ghignerà sul fidanzamento ufficiale, dichiarerà che il matrimonio è il «traguardo dei fessi»[9].

Al momento erano definite «ninfette» dai giornali e dai rotocalchi per indicare le ragazze più disinibite e spregiudicate nel modo di vestire, di atteggiarsi e di comportarsi. Rappresentavano un evento nuovo e contraddittorio. Nuovo perché segnalava che le ragazze maturavano in quegli anni più velocemente che nel passato, soprattutto per quanto riguardava i loro atteggiamenti esteriori: più spregiudicato verso il sesso e nel gioco della seduzione, secondo il modello della «ninfetta» appunto propagandato scandalisticamente dai rotocalchi e dal cinema. Contraddittorio perché tali atteggiamenti nuovi si scontravano con una pratica di vita, una consuetudine morale e di costumanza regolata ancora dai tabù morali e dalle norme che avevano governato la vita delle loro madri, delle loro nonne e della famiglia tradizionale.

Il perbenismo non perdonava. Scandalosa fu giudicata la gravidanza di Mina nel 1963, frutto dell’amore consumato con Corrado Pani, sposato e separato. Tutto il moralismo e il conformismo di cui era ancora intrisa la società italiana vennero a galla nella condanna di quello che si chiamava il peccato dell’adulterio. Anche la giovanissima Catherine Spaak non offriva per i benpensanti un buon esempio. Incinta, si era sposata all’età di 17 anni andando a vivere nella casa dei suoceri. Sentendosi a disagio era scappata con la figlia. Denunciata fu arrestata e riportata a casa. Nel corso del processo il giudice sostenne che la madre, essendo un’attrice, era di dubbia moralità; pertanto decise che la bambina sarebbe rimasta con la nonna materna.

Questi due episodi stimolarono la richiesta di una nuova legge sul diritto di famiglia e un’altra che introducesse il divorzio; l’appello cadde nel vuoto. Ma l’esigenza rimaneva. E non si trattava solo di una semplice rivendicazione di diritti, «ma di un nuovo modo di essere» delle donne che sceglievano se stesse prima del marito: «vogliamo i figli da coloro che amiamo, vogliamo il diritto di scegliere l’uomo che amiamo e non più chieste in sposa»[10].

Non accettavano più che i genitori impedissero loro di avere una vita propria, autonoma e libera. Essere libere e indipendenti diventava un obiettivo da raggiungere al più presto. Tale desiderio non era ancora correlato alla richiesta di un cambiamento della società, per ora i processi di presa di coscienza, le richieste di maggior indipendenza erano contestazioni che albergavano nei brontolii tra i labirinti delle case, una sofferenza e un’angoscia pronta alla condivisione con altre coetanee. Era l’inizio di un percorso di presa di coscienza che sarebbe diventata qualche anno dopo coscienza collettiva, momento di riflessione comune con conseguente ribellione esplicita. Lo diceva bene Lorenza Mazzetti: «la morale dei figli è sempre la morale degli oppressi, di conseguenza una morale rivoluzionaria. La comprensione di ciò che c’è dietro la facciata della propria famiglia porta a comprendere ciò che c’è dietro la facciata della società. E viceversa. Per questo non è possibile ribellarsi in un campo senza ribellarsi nell’altro, per questo la comprensione di se stessi è un fatto rivoluzionario»[11].

La protesta, riscontrabile in alcuni passaggi delle canzonette scritte per i giovani e interpretate da giovani cantanti, trovava conferma nelle preoccupazioni raccolte da inchieste e articoli di giornali che evidenziavano paure, culture, remore e pregiudizi ancora forti e ben radicati. Una ricerca svolta nel 1960 individuava diversi fattori di cambiamento e di trasformazione in atto riguardo la moralità sessuale e familiare. Gli adulti lamentavano la perdita del «senso del peccato» lasciando campo libero «all’atmosfera afrodisiaca a cui la massa sembra abbandonarsi»[12]. La stragrande maggioranza dei giovani invece auspicava tra i due sessi rapporti camerateschi e desessualizzati, il 77% riteneva l’amore una cosa importante, da collocarsi subito dopo la libertà nella scala dei valori, l’87% era favorevole al controllo delle nascite e l’86,5% al divorzio[13].

Il pianeta donne era attraversato da fermenti e cambiamenti di mentalità e comportamenti, che emersero nel corso della campagna elettorale per il referendum sul divorzio. La vittoria del no all’abrogazione della legge sul divorzio nel referendum del 12 maggio 1974 (59,1% contro il 40,9%) era già stata annunciata da diversi sondaggi d’opinione comparsi su settimanali e quotidiani. Soprattutto tra le donne il «no» all’abrogazione della legge era maggioritario: il 61,4% di loro, secondo un sondaggio condotto dalla Demoskopea. Nella fascia d’età compresa tra i 21 e i 35 anni la percentuale delle favorevoli al divorzio saliva al 73,6%[14]. Una sensibilità ormai collettiva che usciva allo scoperto e dava battaglia coinvolgendo direttamente alcune famose attrici, le quali presero la parola per denunciare l’uso del corpo della donna da parte del cinema. Monica Vitti proclamò che l’attrice doveva cessare di essere un simbolo sessuale e consumistico, Claudia Cardinale e Catherine Spaak rivendicarono il diritto a essere valutate per quello che erano come persone: «ci devono prendere per quelle che siamo, rughe e cellulite comprese»; con Agostina Belli, Laura Antonelli, Stefania Sandrelli, Eleonora Giorgi affermarono che erano stufe di essere solo «supertette, superculi e supergambe»[15].



Note [1] https://www.youtube.com/watch?v=3FJPO8bYKjo. [2] https://www.youtube.com/watch?v=9neb_iiBlBY. [3] R. Nicolai, Cinque comunisti, «Vie Nuove», 16 luglio 1960. Nell’utilizzazione del tempo libero da parte di quei giovani emergeva «l’insofferenza nei confronti sia della troppo rigida morale operaia, sia della produzione culturale ufficiale, anche democratica» (N. Balestrini – P. Moroni, L’orda d’oro, Milano, Sugar, 1988, p. 16). [4] S. Franchi, Non era lì per caso, «Pollicino Gnus», luglio-agosto 2000. [5] Cfr. A. Illuminati, Insegnamenti del luglio, «Nuova Generazione», 30 luglio 1960. [6] Simili episodi sono riferiti da A. Pizzorno, Comunità e razionalizzazione, Einaudi, Torino 1960. Sul conflitto tra i genitori e le giovani figlie vedi anche la ricerca condotta dall’Istituto Italiano di Psicologia Sociale, I giovanissimi e le loro scelte, Milano, 1960. [7] Cfr. le inchieste di E. Alberti, Amore senza mezzi termini, e Non vivono di solo juke box, pubblicate rispettivamente su «Big», 21 settembre 1966 e 26 ottobre 1966 [8] O. Fallaci, La parte di minorenne, intervista a Catherine Spaak, «L’Europeo», 10 marzo 1963. [9] Cfr. rispettivamente P. Canale, Il pudore non è più di moda, «Noi Donne», 6 gennaio 1968 e B. Bellonza, Il sesso insegnato dagli sconfitti, «Noi Donne», 20 giugno 1970. [10] L. Mazzetti, Chi dice donna, «Vie Nuove», 28 marzo 1963. [11] L. Mazzetti, Chi dice donna, «Vie Nuove», 1° ottobre 1964 [12] La ricerca è citata in P.G. Grasso, Parabola giovanile: dagli anni Cinquanta agli anni Ottanta, Euroroma, Roma 1989, p. 252. [13] Cfr. rispettivamente di E. Alberti Amore senza mezzi termini e Rapporto sul sesso, in «Big», n. 38 e n. 39 del settembre 1966. [14] Per questi dati cfr. Divorzio a punti, «Panorama», 7 febbraio 1974, G. Invernizzi, Divorzio? Lo salveranno le donne e F. Dentice, Perché no, entrambi pubblicati su «L’Espresso», 24 marzo e 28 aprile 1974. [15] Dichiarazioni riprese dall’articolo di C. Beria, Siamo stelle, siamo stufe, «Panorama», 24 febbraio 1976.

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