top of page

«Blue-jeans e lambretta». Cinquant’anni da «Vogliamo tutto»





Siamo nel 1971 e Nanni Balestrini pubblica Vogliamo tutto, il testo che più ha caratterizzato la voce delle sommosse dei movimenti operai e studenteschi. Un «genere narrativo fatto dalle masse, per le masse» che è anche esperimento della voce che si oppone al linguaggio. Alfonso Natella è voce narrante, protagonista di quella parte di operai del sud che reclamano la promessa di una vita in «blue-jeans e lambretta». Un esperimento scrittorio che assume i toni di una lotta, quella del Sessantotto. Un anno di conflitto durissimo che portò a siglare nel dicembre del’69 il contratto nazionale dei metalmeccanici, conquistando nel 1970 Lo Statuto dei Lavoratori. Siamo oggi a cinquant’anni dalla pubblicazione di Vogliamo tutto, una potenza narrativa che ci racconta il metodo balestriniano di opporsi al potere con il suo quotidiano: la scrittura e la modalità epico-politico di restituirci parole e voce. L'articolo è originariamente comparso il 19 maggio 2021 sulle pagine de «il manifesto».


* * *


In un’atmosfera ancora febbrile, cinquant’anni fa, Nanni Balestrini pubblicava il testo di una generazione: è la «voce» delle sommosse dei movimenti operai. L’autore è al suo secondo romanzo, la sua poetica è nota per aver scosso le fila di una certa letteratura purista già con i suoi primi contributi (Linguaggio e opposizione 1961, Il sasso appeso, 1961, la prima mostra Cronogrammi 1961, i «poemi piani» di Come si agisce, 1963). Dopo la pubblicazione della prima edizione di Tristano nel 1964 – uno dei suoi esperimenti più radicali nella gestione di un romanzo – Balestrini ci restituisce la «voce» di un operaio salariato di fine anni Sessanta. La messa in atto di Alfonso Natella è ritmo, fraseggi che compongono il testo in un «flusso continuo» di partiture e tonalità. Siamo in un romanzo che non può sembrare semplice prosa, le parole si accavallano, altre si annunciano per poi celarsi, mentre la «voce» del protagonista si manifesta. Un proletario meridionale, che, come dice Balestrini in Prendiamoci tutto, è un personaggio non ideologico perché è un operaio senza partito, disinteressato al lavoro: «ed è da qui che bisogna partire per affrontare le obiezioni su una sua collocazione di destra piuttosto che di sinistra» [1]. Ma allora – si dirà – se non dalla sinistra o dalla destra, da dove proviene questa figura dell’operaio-massa? La rivoluzione lessicale di quegli anni è in divenire e Balestrini ne è protagonista: una «moltitudine» a cui converrà Toni Negri nella sua successione di categorie che si sfaldano, presupposto ontologico dell’essere contemporaneo [2]. Le intuizioni e usi balestriniani della scrittura, propongono Alfonso prima con parole dinoccolate, prive di senso corale, poi avvolte da un crescendo di «grossi fatti collettivi» che a partire dalla manifestazione del Primo maggio, ci restituiscono un «divenir-altro» [3]. Una figura che ha gradualmente imparato a conoscersi come merce. Prima a Brescia, poi a Milano e infine a Torino alla Fiat di Mirafiori, per divenire protagonista della lotta operaia di una voce collettiva. Questa narrazione del singolo protagonista di Vogliamo tutto è già un’azione che sembra comprendere quel moto dei «concatenamenti collettivi dell’enunciazione» – teorizzati in Kafka. Per una letteratura minore. Se «ogni enunciato è sempre il frutto di una produzione collettiva anche quando sembra emesso da una singolarità» [4] allora avvertiamo già dai primi capitoli come sia sentita per Balestrini la fondamentale necessità di rendere evidente l’emergenza di una nuova parola corale, obiettivo ultimo del Nostro. L’oralità è l’estrema soluzione per veicolare che c’è altro da «tradurre» in una visione della letteratura come mezzo di protesta, pratica sovversiva della scrittura che viene depotenziata dalla sua carica «alfabetica» per cercare quel qualcosa che manca e situarsi in una voce nella scrittura. Così il Nostro, come in una bozza ancora da correggere, omette la punteggiatura e utilizza il ritmo frasistico delle lasse – metodo che ha già messo a punto in opere precedenti – calcolando le tonalità, le combinazioni e i ritmi delle lettere. Il testo che è anche reiterazione di stralci di volantini e manifesti dell’epoca, è strutturato sulla quasi totale assenza della punteggiatura. Caratteristica che richiama, per Gian Paolo Renello, quel punto metrico che a differenza del punto fermo, «funge da vero e proprio separatore di frasi viste come segmenti versali […] rinvenibile ad esempio nei manoscritti della lirica provenzale» [5], riferimento che introduce la «dimensione epica» [6]. Tramite questa intuizione il romanzo acquisisce i vezzi di una lingua parlata più schietta e intima ma che è anche opposizione: una precisa scelta in cui l’autore c’è e decide come narrare i fatti. Questa modalità di sconfinare la scrittura nella voce, aspetto parziale ma strutturale del capitalismo, risponde alla sua volontà poetica di sgretolare convenzioni e categorie. Scrittura e «voce», motivo di discussione secolare di filosofi e grammatologi, sono collocate nel metodo balestriniano con una sua proposta autonoma di convivenza tra le parti. L’autore del libro-manifesto ci ha difatti più volte abituato a questo desiderio di «cercare di dare alla scrittura il senso dell’oralità, per avvicinarla al parlato, alla «voce» del protagonista che narra, evitando ogni intervento diretto dell’autore, ogni imposizione o interferenza ideologica esterna» [7]. In un disfacimento delle categorie, messa in discussione delle subalternità, la memoria culturale dell’intervista ad Alfonso Natella, è esperimento letterario in cui ogni lettore, abbozza tonalità, scompone continuità, interpreta chi siamo stati e chi vogliamo essere. Così mentre il fumo dell’insurrezione accompagna la fine della tentata rivoluzione, nessuna indicazione, nessun programma da seguire, una volta giunti alle ultime pagine di questi dieci capitoli. Ogni lettura del testo, non è copia di un’altra, in un finale che diventa produzione propria del lettore. Ci troviamo soli in quanto lettori, liberi di abbandonarci alle domande sull’oggi, di indovinare il finale. Se dunque «il libro è un effetto [una costruzione] del lettore» [8] desumiamo così una nostra influenza nell’atto di poter immaginare una finestra aperta sulle possibilità del quotidiano. Vogliamo tutto è perciò un «flusso continuo» in cui il nostro ruolo è ancora quello di scegliere cosa farcene oggi di quel finale accennato. D’altronde Balestrini ci propone una sua pratica sovversiva tramite il suo quotidiano, ciò che Balestrini aveva a disposizione nelle mani: parole e voce. E allora, se il quotidiano diventa modalità per la messa in discussione del potere, potremmo guardare le nostre mani, schiarire la voce e inclinare la testa come a sentire un rumore sordo. Quella possibilità, nonostante tutto, è quella di fare del nostro meglio.



Note [1] N. Balestrini, Prendiamoci tutto, Conferenza per un romanzo. Letteratura e lotta di classe, Feltrinelli, Milano 1972, p.26. [2] M. Hardt, T. Negri, Comune. Oltre il privato e il pubblico, Rizzoli, Milano 2010, p. 147. [3] G. Deleuze, Qu'est-ce qu'un dispositif?, in Michel Foucault. Rencontre internationale, Le Seuil Paris, 9, 10, 11 janvier 1988; (tr. it.: Che cos’è un dispositivo?, Cronopio, Napoli 2002). [4] G. Deleuze e F. Guattari, Kafka. Pour une littérature mineure, Minuit, Paris 1975 e Eid., Mille Plateaux, Minuit, Paris 1980 (tr.it.: Kafka. Per una letteratura minore, Quodilbet, Macertata 1975). [5] G. P. Renello, Machinae. Studi sulla poetica di Nanni Balestrini, Clueb, Bologna 2010, p. 131. [6] Il primo a rilevare la valenza epica di Balestrini è M. Spinella comparsa in M. Spinella, Balestrini: Vogliamo tutto, in «Rinascita», n.47, 26 novembre 1971. [7] G. D. Pietrantonio, Nanni Balestrini, 22 Ottobre 2015, Flash Art, [on line] https://flash---art.it/article/nanni-balestrini/ [8] M. Charles, citato in M. De Certau, L'invention du quotidien, Arts de faire. Éditions Gallimard. Folio essais. Paris (tr. it. L’invenzione del quotidiano, Edizioni Lavoro, Roma 2009).

bottom of page