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Black Marxism

Il giacimento dimenticato della tradizione radicale nera


Toti Scialoja, Gouache, 1983


Robin D.G. Kelley ci guida attraverso il mastodontico lavoro di Cedric J. Robinson Black Marxism: The Making of the Black Radical Tradition, alla ricerca delle radici della «tradizione radicale nera», indietro, fino alle origini della civiltà europea. Qui Robinson rintraccia la genesi del razzismo e della resistenze alle gerarchie della razza che l’accompagnano; ben prima, dunque, della nascita del capitalismo e dell’incontro, nella modernità, tra i bianchi europei e i popoli dell’Africa e del Nuovo mondo. Piuttosto, il concetto di «capitalismo razziale» che Robinson introduce, indica il fiorire del capitalismo nel razzialismo [1] dell’ordine sociale feudale, come evoluzione interna e non come rottura del vecchio ordine. Da questa angolazione, Black Marxism, pubblicato per la prima volta nel 1983, muove una critica serrata al marxismo occidentale, alla sua cecità rispetto alla razza e al suo marcato eurocentrismo, costringendoci a fare i conti con la resistenza dei popoli dell’Africa e con la Diaspora.

Kelley, che è un attento lettore di Robinson, ripercorre la densa trama del volume con uno sguardo spiccatamente politico. La narrazione che ne risulta è un nitido affresco del profilo militante e intellettuale di due figure di primo piano dei Black Studies. Il testo che qui proponiamo [2], nella traduzione di Achille Marotta, è un’utile ed efficace presentazione di un volume, ancora poco conosciuto in Italia, che costituisce una pietra miliare del pensiero radicale nero e che ci auguriamo possa risultare utile a migliorare la nostra comprensione dei movimenti della diaspora africana e del razzismo nella nostra società. Nello stesso tempo, il testo ci introduce al corpus teorico di uno dei più acuti e originali critici della razionalità capitalistica occidentale. [A. C.]



Posso dire, senza esagerare, che questo libro mi ha cambiato la vita. Come uno spettro, mi ha perseguitato dal giorno in cui l’ho sfilato dalla sua busta marrone imbottita più di sedici anni fa, fino al momento in cui ho accettato di scrivere questa prefazione. Le lunghe ore, le settimane e i mesi di tormento per stendere questo saggio sono stati esilaranti, frustranti e pieni d’ansia quanto il mio primo incontro col magnum opus di Cedric J. Robinson, nel mio primo anno di studi magistrali. Il libro era apparso dal nulla, come copia da recensire per «Ufahamu», una rivista studentesca pubblicata dall’African Studies Center di UCLA. Rimasi colpito dall’aspetto del volume; nessuno dei miei colleghi ne aveva mai parlato e non mi sembrava di averne visto alcuna segnalazione nelle riviste accademiche che conoscevamo. Nonostante tutto, la tempistica mi fu a favore, quasi un disegno cosmico. Dopo pochi mesi di magistrale, mi baloccavo con l’idea di scrivere una tesi sulla sinistra Sudafricana. L’ispirazione era tutt’altro che accademica; ero più interessato a diventare un comunista che uno studioso a tempo pieno. Non mi importava molto della storiografia o dei dibattiti accademici sui movimenti sociali. Volevo capire come costruire un movimento di sinistra tra le persone di colore per raggiungere l’obiettivo supremo: fare la rivoluzione.

Quando vidi il titolo, Black Marxism: The Making of the Black Radical Tradition, non riuscii a trattenermi. Non avevo mai sentito parlare di Cedric J. Robinson, nonostante fosse direttore del Center for Black Studies alla vicina University of California a Santa Barbara. Chiunque sia, mi dissi, è un uomo molto colto: le note a piè di pagina erano abbastanza lunghe da poter formare un libro a sé. Rimasi effettivamente scioccato dalle dimensioni del volume (quasi 500 pagine scritte con caratteri minuscoli per giunta quasi illeggibili!) e realizzai quanto poco consistenti fossero i materiali della mia ricerca sulla storia della sinistra nera in Africa e nella Diaspora. Presi questo libro insolitamente denso, lo infilai di fretta nello zaino e decisi di leggerlo in qualità di curatore delle recensioni per «Ufahamu».

Quando riuscii finalmente ad aprire il libro, capii perché raggiungeva quelle dimensioni. Black Marxism è molto più ambizioso di quanto è indicato nel titolo, perché quello che Cedric Robinson ha scritto va ben oltre la storia della sinistra nera e dei movimenti radicali neri. Unendo la teoria politica, la storia, la filosofia, l’analisi culturale, la biografia e molto altro, Robinson letteralmente riscrive la storia dell’ascesa dell’Occidente, dall'antichità fino alla metà del Ventesimo secolo, tracciando le radici del pensiero radicale nero attraverso un’epistemologia condivisa dai diversi popoli africani, e offrendo al contempo una critica stringente del marxismo occidentale e della sua incapacità di comprendere sia il carattere del capitalismo razziale e della civiltà in cui si sviluppa, sia i movimenti di massa al di fuori dell’Europa. Come minimo, Black Marxism è una sfida al nostro «senso comune» della storia, della modernità, del nazionalismo, del capitalismo, dell’ideologia radicale, delle origini del razzismo occidentale e della sinistra globale dalle rivoluzioni del 1848 a oggi.

Forse più che qualsiasi altro libro, Black Marxism sposta il centro del pensiero radicale e della rivoluzione lontano dall’Europa, verso la cosiddetta «periferia» verso i territori coloniali, i popoli di colore marginalizzati nei centri metropolitani del capitale e verso tutti quelli che Frantz Fanon ha definito i «dannati della terra». Il libro sostiene quella convincente tesi secondo cui il pensiero radicale e la pratica politica emersa nei luoghi dello sfruttamento coloniale e del capitalismo razziale furono il prodotto di logiche culturali e di una epistemologia dei popoli oppressi così come di specifiche forme di dominio razziale e culturale. Pertanto, Robinson non si limita solo a decentrare la storia e la storiografia marxista, sposta anche ciò potremmo definire «l’occhio del ciclone».


Eppure, nonostante tutto questo lavoro di decentramento, Robinson inizia dall’Europa. Per quanto potrebbe sembrare strano per un libro che ha principalmente a cuore i popoli africani, è subito chiaro perché è da lì che si deve iniziare, se non altro per rimuovere le cataratte analitiche che offuscano il nostro sguardo. Dopotutto, il libro è una critica al marxismo occidentale e alla sua incapacità di comprendere le condizioni e i movimenti dei popoli neri in Africa e nella Diaspora. Robinson non si limita ad esporre i limiti del materialismo storico nel comprendere l’esperienza nera, ma rivela come il razzismo occidentale affondi le sue radici nella civiltà europea ben prima dell’alba del capitalismo. Diversi anni prima del recente boom di «whiteness studies», Robinson ha proposto l’idea che la razzializzazione del proletariato e l’invenzione della bianchezza siano iniziate all’interno della stessa Europa, già prima che questa, nella modernità, incontrasse la manodopera proveniente dall’Africa e dal Nuovo mondo. Questi spunti conferirono un nuovo significato ai cosiddetti «Secoli bui». Nonostante la tendenza quasi assiomatica nella storiografia europea di parlare delle classi lavoratrici della prima età moderna in termini nazionali - inglesi, francesi e così via Robinson afferma che i ranghi più bassi del lavoro erano solitamente composti da lavoratori immigrati, originari di territori esterni alle nazioni in cui lavoravano. Questi lavoratori furono collocati al fondo della gerarchia razziale. Gli slavi e gli irlandesi, ad esempio, sono stati i primi «negri» d’Europa, e quel che nella storia statunitense del Diciannovesimo secolo ci appare come la loro lotta per accedere alla bianchezza non fu altro che la punta di un iceberg secolare.

Nella sua analisi della civiltà europea premoderna, Robinson non si limita ad individuare le radici del razzismo, situa qui anche le origini del capitalismo. Sulla base del lavoro svolto dal sociologo radicale nero Oliver Cromwell Cox, Robinson sfida direttamente l’idea marxista secondo cui il capitalismo fu la negazione rivoluzionaria del feudalesimo. Invece, spiega Robinson, il capitalismo nacque all’interno dell’ordine feudale, e crebbe a scatti, fiorendo dall’humus culturale occidentale soprattutto nel razzialismo che caratterizza la società europea. Il capitalismo e il razzismo, in altre parole, non furono in rottura con l’antico regime, ma furono piuttosto un’evoluzione interna che produsse un sistema mondiale di «capitalismo razziale» basato sulla schiavitù, la violenza, l’imperialismo e il genocidio. Dunque, Robinson non sceglie solamente di iniziare dall’Europa; manda in frantumi molte delle principali pretese e convinzioni della storiografia europea, in particolare nelle sue varianti marxiste e liberali. Ad esempio, discutendo della classe operaia irlandese Robinson sfata il mito del proletariato «universale»: così come gli irlandesi sono il prodotto della tradizione popolare nata e cresciuta sotto il colonialismo così anche la classe operaia «inglese» delle Isole Britanniche nasce dallo sciovinismo anglosassone, un’ideologia razziale condivisa attraverso le linee di classe, che consentì alla borghesia inglese di giustificare i bassi salari e il maltrattamento degli irlandesi. Questa forma specifica di razzialismo inglese non fu inventata dalla classe dirigente ai fini del divide et impera (anche se riuscì in questo proposito); fu piuttosto una costante presente fin dall’inizio, che ha plasmato il processo di proletarizzazione e la formazione di una coscienza di classe. Infine, in questo ordine feudale vivente, il socialismo nacque come strategia borghese alternativa per combattere la disuguaglianza. Sfidando apertamente lo stesso Marx, Robinson dichiara: «Le critiche socialiste della società non furono altro che dei tentativi per promuovere le rivoluzioni borghesi contro il feudalesimo».


Esiste ancora un’altra ragione tra quelle che hanno spinto Robinson ad avviare la sua analisi dal cuore dell’Occidente. È lì e non in Africa che fu fabbricato, per la prima volta, il «negro». Non fu affatto un’impresa facile, ci ricorda Robinson, dato che l’invenzione del negro e quindi la costruzione della bianchezza e il governo dei confini razziali che l’accompagna richiese «un immenso sforzo psichico e intellettuale da parte dell’Occidente». Gli studiosi europei spesero grandi energie nel riscrivere la storia del mondo antico. Anticipando Black Athena: The Afroasiatic Roots of Classical Civilization, Vol. I (1987) di Martin Bernal, e basandosi sugli studi pionieristici di Cheikh Anta Diop, George G. M. James e Frank Snowden, Robinson è riuscito a svelare il modo in cui gli intellettuali europei rinnegarono l’interdipendenza tra l’antica Grecia e il Nordafrica. Una generazione di studiosi «illuminati» che si impegnò a cancellare dalla storia europea i contributi culturali e intellettuali dell’Egitto e della Nubia, per sbiancare l’Occidente e mantenere la purezza della razza «europea». Spogliarono l’Africa di ogni parvenza di «civiltà». Utilizzarono la carta stampata per cancellare la storia africana, riducendo l’intero continente e la sua progenie a poco più che bestie da soma e selvaggi pagani. Anche se di recente, studiosi come Mary Lefkowitz hanno nuovamente attaccato i tentativi di riconnettere l’Occidente antico al Nordafrica, Robinson ci mostra l’importanza di queste connessioni. Non si tratta di una questione di «superiorità» o di un «furto» di idee, né di provare che gli africani fossero «civilizzati». Black Marxism piuttosto ci ricorda ancora oggi che l’esorcismo del Mediterraneo nero concerne la fabbricazione, da un lato dell’Europa come entità distinta e razzialmente pura, unica portatrice della modernità, e dall’altro del negro. A tale proposito, l’intervento di Robinson corre in parallelo a quello di Orientalismo di Edward Said, in cui si afferma che lo studio e l’infatuazione per l’«Oriente» da parte degli europei ebbe a che fare in primo luogo con la costruzione dell’Occidente.

Secondo Robinson, nello stesso momento in cui la manodopera europea veniva cacciata dalle terre e introdotta in massa in un nuovo ordine industriale, la manodopera africana veniva trascinata all’interno dell'orbita mondiale tramite la tratta transatlantica degli schiavi. La civiltà europea non riuscì facilmente a penetrare la cultura di villaggio africana, né mediante il feudalesimo né tramite il nascente ordine industriale. In altre parole, per comprendere la dialettica della resistenza africana alla schiavitù bisogna guardare oltre l’orbita del capitalismo - bisogna guardare alla cultura dell’Africa centrale e occidentale. Robinson osserva: «Marx non aveva pienamente realizzato che quei carichi di manodopera contenevano anche le culture africane, miscugli e miscele critiche di linguaggio e di pensiero, di cosmologia e metafisica, di abitudini, credenze e morali. Erano questi i termini della loro umanità. Quei carichi, allora, non erano composti di isolati intellettuali o neri deculturati donne, uomini e bambini separati dal loro universo precedente. La manodopera africana portò con sé il passato, un passato che l’aveva prodotta e aveva depositato dentro di loro i primi elementi di coscienza e di comprensione» (p. 121).


Pertanto, le prima ondate di rivolte africane nel Nuovo Mondo non furono mosse da una critica alla società occidentale, ma da un rifiuto totale dell’esperienza di schiavitù e del razzismo. Più intenti a preservare il passato che a trasformare la società occidentale o rovesciare il capitalismo, crearono insediamenti maroon, scapparono ai margini, e cercarono una strada per tornare a casa, anche se ciò significava morire. Ad ogni modo, con l’avvento formale del colonialismo e l’incorporazione della manodopera nera all’interno di un contesto sociale strutturato, emerse una critica più diretta dell’Occidente e del colonialismo una forma di ribellione volta a trasformare i rapporti sociali e stravolgere l’assetto della società occidentale invece di riprodurre la vita sociale africana. Le contraddizioni del colonialismo produssero una borghesia nativa, che manteneva con la vita e il pensiero europeo rapporti più intimi, a cui venne assegnato il compito di aiutare a governare. Addestrati ad essere complici minoritari dello Stato coloniale, i membri di questa borghesia vissero sia il razzismo degli europei che un profondo senso di alienazione dalle loro vite e di estraniamento dalle culture native. Il loro ruolo contraddittorio quali vittime del dominio razziale e al contempo strumenti dell’impero, il loro essere élite istruite ai valori occidentali che si sentivano alieni dalla società dominante e dalle masse, spinse alcuni di questi uomini e donne a ribellarsi, producendo l’intelligentsia radicale nera. Non a caso molti di questi radicali e studiosi emersero durante la Prima guerra mondiale, quando riconobbero la vulnerabilità della civiltà occidentale, e durante la seconda crisi mondiale - con la depressione internazionale e l’ascesa del fascismo.

L’emergere dell’intelligentsia radicale nera è oggetto della terza e ultima sezione di Black Marxism. Robinson esamina la vita e le opere di W. E. B. Du Bois, C. L. R. James e Richard Wright, spingendosi ben oltre la biografia e l’analisi critica da loro prodotta. Accompagnandoci in un viaggio attraverso due secoli di storia degli Stati Uniti e della diaspora africana, Robinson ripercorre i processi rivoluzionari emancipativi che catturarono l’attenzione di questi tre intellettuali. Dimostra come ognuno di loro, che era passato attraverso l’apprendistato del marxismo, fu profondamente colpito dalla crisi del capitalismo mondiale e dalle risposte fornite dal movimento operaio e anticoloniale, e produsse, nel mezzo della depressione e della guerra, libri importanti che sfidarono il marxismo provando a cimentarsi con la coscienza storica incorporata nella tradizione radicale nera. Col tempo, Du Bois, James e Wright rividero le loro posizioni sul marxismo occidentale, oppure lo abbandonarono e, in misure diverse, abbracciarono il radicalismo nero. La maniera in cui arrivarono alla tradizione radicale nera fu più un atto di riconoscimento che un’invenzione; non crearono la teoria del radicalismo nero ma piuttosto, tramite il loro lavoro e il loro studio, la ritrovarono nei movimenti di massa dei neri.


Completai finalmente la mia prima lettura di Black Marxism circa due mesi dopo che lo portai a casa. Fui talmente sopraffatto che ebbi una crisi segreta. Non scrissi mai la recensione contribuendo pertanto alla congiura del silenzio che ha circondato questo libro sin dalla sua pubblicazione. Invece, telefonai al Professor Robinson e quasi gli implorai di assumermi come studente. Fu d’accordo, e svolse un ruolo importante nella formazione della mia tesi (che, per coincidenza, fu pubblicata da University of North Carolina Press un decennio fa, sotto il titolo di Hammer and Hoe: Alabama Communists During the Great Depression) e in tutto il mio lavoro da allora in poi.

Anche se il suo libro mi aveva spaventato a morte, Cedric il professore si rivelò notevolmente umile, diretto, alla mano e generoso del suo tempo e della sua energia. Seppur impegnativo come docente, rimane tra i personaggi più dolci e spiritosi che si possono incontrare in questa professione – e il suo senso dell’umorismo sottile traspare perfino nei passi più difficili di Black Marxism. Quello che mi colpisce particolarmente è che il professor Robinson aveva appena trent’anni al momento della pubblicazione di Black Marxism, un libro che avrebbe costretto perfino il grande Du Bois a mettersi in ascolto.

[…].


Traduzione a cura di Achille Marotta.


Note [1] Il termine razzialismo, da non confondere con quello di razzismo che segna distintamente la violenta organizzazione gerarchica della società su base razziale, indica lo spazio del riconoscimento identitario sulla base di presunte differenze razziali di natura biologica. [2] Il testo è un estratto dalla Prefazione di Robin D.G. Kelly alla seconda edizione di C. J. Robinson, Black Marxism: The Making of the Black Radical Tradition, Duke University Press, Durham NC 2000.

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