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Biosfera e destino delle città. Un dialogo


Roberto Gelini


L’abitare, l’habitat, l’ambiente in cui si svolge la vita, sono argomenti di primario interesse per urbanisti, sociologi, antropologi, architetti. Il libro Biosfera l’ambiente che abitiamo, di Enzo Scandurra, Ilaria Agostini, Giovanni Attili, uscito nel 2020 per i tipi di DeriveApprodi, è il pretesto da cui prende spunto il dialogo tra Pietro, studente di Antropologia urbana nel Corso di laurea in Scienze della comunicazione all’Università di Ferrara e Ilaria, autrice del libro e ricercatrice in pianificazione urbanistica all’Università di Bologna[1].

Il dialogo ripercorre i temi dell’urbanizzazione globale, del caos climatico, del dominio dell’umano sul vivente, della natura intesa come merce, per offrire infine qualche spiraglio per un progetto di riconfigurazione dell’habitat in cui le città possano nuovamente porsi scientemente al centro del proprio ecosistema. Città in cui, attraverso il conflitto e la resistenza creativa, si possano immaginare nuove forme politiche, declinando in termini attuali le teorie anarco-municipaliste.


Pietro Inversi: Come nasce questo vostro lavoro?

Ilaria Agostini: Il nostro libro Biosfera l’ambiente che abitiamo è nato per impulso di Enzo Scandurra, primo autore dell’opera. Enzo ha ritenuto necessario mettere in relazione il funzionamento dell’ambiente di vita – da lui sapientemente narrato attraverso i principi della fisica, con la lente critica rivolta verso la scienza e la tecnica intese come «oggetti» non neutri – e i fattori che mettono in crisi i luoghi della vita, cioè la biosfera. Tra di essi abbiamo scelto due patologie contemporanee: il turismo globale, descritto da Giovanni Attili, e il gigantismo, a cui ho dedicato il mio capitolo: Megalopoli e il destino della città, per una critica al gigantismo. Il gigantismo è un processo di adattamento del progetto (a tutte le scale, «dal cucchiaio alla città») al concetto di sviluppo infinito. La crescente produzione di oggetti sempre più ingombranti e inquinanti, di città sempre più grandi ed energivore, di treni sempre più veloci la cui infrastrutturazione è sempre più devastante, sono alcuni degli epifenomeni di un’ipertrofia connaturata all’accaparramento capitalistico. Il modello insediativo che meglio si confà a tale andamento è Megalopoli: agglomerazioni «urbane» al centro di territori rapinati e desertificati dalla «naturale» attrazione delle popolazioni verso i centri, che non sono tuttavia capaci di accoglierle dignitosamente. In tali conurbazioni, iper-artificializzate e profondamente ingiuste, si concentrano ricchezze e capitali (estratti dai territori): è la rappresentazione plastica dell’ingiustizia nella distribuzione delle ricchezze planetarie, dell’1% e del 99%. Il sovvertimento dell’ordine territoriale implica lo sconvolgimento dell’ordine politico: i «think tank» teorizzano città-stato libere dalle pastoie dello Stato tradizionalmente inteso, nelle quali la tecnocrazia è indicata come la congeniale forma di esercizio del potere. La propaganda che sostiene il gigantismo in urbanistica trae forza dalle proprie contraddizioni: se la polarizzazione in gigantesche conurbazioni è fonte di squilibri ambientali o sociali, è la stessa megalopoli che deterrebbe gli strumenti per superare tali difformità. Un esempio paradossale: il principe Mohammad bin Salman assicura che nella costruenda megalopoli di Neom – trentatré volte più grande di New York – il libero esercizio dei diritti delle donne arabe sarà garantito. Insomma, quella che sorregge il mito di megalopoli è una propaganda di natura commerciale-pubblicitaria che si corrobora di annuncio in annuncio, senza provare il bisogno di fornire prove scientifiche o – faute de mieux – assunti che siano logicamente coerenti.


PI: Perché oggi le e gli studiosi urbani parlano del clima?

IA: Da decenni, gli studiosi dei fatti urbani e territoriali hanno esteso il loro interesse scientifico alla questione climatica. Ma, come dimostrato nel nostro libro, trattare di clima significa studiare il vivente, la biosfera; significa connotare politicamente le mutazioni contestuali e operare in direzione della giustizia ambientale. Questa apertura ecologica e radicale è diventata imprescindibile – per alcune/i studiosi – nel momento in cui la storia umana si è scontrata con la storia della terra, nel momento in cui è risultato evidente il «divenire forza geologica da parte dell'umanità», come scrive su «il Manifesto» Gennaro Avallone a proposito dell’ultimo libro di Chakrabarty (2 marzo 2021). Non è stato più possibile tacere sulla potenza distruttiva del capitalismo finanziario ed «estrattivo» (qualifica quest’ultima che mette l’accento sulla potente azione alterante in senso ecologico e sociale del capitalismo oggi, e che al tempo stesso sottolinea di tale alterazione la componente politica), poiché in tale potenza il gigantismo urbano e infrastrutturale gioca un ruolo preponderante. Ritengo pertanto che la forza epocale del caos climatico, dell’innalzamento dei mari, della riduzione della biodiversità, debba irrompere nei processi di pianificazione. Per portare un esempio positivo, credo che il piano paesaggistico della Regione Toscana possa costituire l’avvio di una pratica pianificatoria degna di attenzione: si tratta infatti di uno strumento che tratta il paesaggio come un «soggetto di relazione», come prodotto di una lunga e situata coevoluzione tra umano e non umano. In altre esperienze, tuttavia, il cambiamento climatico è ridotto a slogan e il vivente mantiene suo malgrado una posizione ancillare, dominata da una scienza ancora profondamente patriarcale. Il vivente non umano resta concettualmente «natura-oggetto» o «natura-merce»: una natura utile all’uomo nel rimediare ai mali urbani, mai liberata da vincoli gerarchici, da finalità coloniali e di dominio. Ne risultano politiche urbane che, con evidenti tratti di cinismo, «ridelegano» la cura delle patologie metropolitane a micro-organismi, non raramente modificati geneticamente; che opprimono l’immaginario con visioni di agricoltura industriale distaccata dal suolo (coltura idroponica, vertical farming etc.) e annientano la co-creazione tra Terra e contadine/i; che costringono le visioni urbane entro prospettive accattivanti di ossimoriche «metropoli verdi», che nulla aggiungono dal punto di vista del progresso sociale. Oggetti architettonici come i grattacieli arborati, incensati dalla narrazione dominante, hanno il solo merito di rappresentare didascalicamente le contraddizioni qui elencate: la soggezione del vivente, coartato al servizio della speculazione immobiliare, dell’iperproduzione industriale di acciaio e cemento, operante nella selezione sociale. Rimando sul tema a un mio recente approfondimento: Vivere nelle rovine di Megalopoli. Critica alla natura-merce [2], uscito sulla rivista indipendente «La Città invisibile».


PI: Quale può essere il contributo dell’urbanistica alla questione ambientale?

IA: Come ho già accennato, il messaggio che proviene dai rotocalchi padronali è preponderante e pervasivo. Un settore cospicuo della ricerca scientifica e dell’amministrazione si esercita nel «greenwashing» dell’urbanistica. Articoli e saggi scientifici che vi si «producono» sono affetti da isomorfismo e da vuoto immaginativo, e ripetono ossessivamente le medesime parole-chiave: «resilienza», «rigenerazione», «smart» etc.; sono pervasi di managerialismo e «burocratese»; omettono le voci dei subalterni (dominati, sfruttati, ultimi...) e i «saperi esperti» non inclusi dal processo decisionale. Impiegano dunque forme espressive relative a un’adesione politico-simbolica nei confronti dei dominanti (finanziatori dei progetti di ricerca, Europa, think tank...), una servitù volontaria che assicura il consenso degli organi valutativi. Dall’altra parte, si può segnalare un versante degli studi (la cui eco è certo più flebile) che disegna ambienti di vita nei quali l’allargamento dei diritti coinvolge tutte le forme del vivente. Tra di essi possiamo citare almeno la scuola territorialista, facente capo ad Alberto Magnaghi. Per la messa a fuoco della «bioregione urbana policentrica» (improntata anche al «bioregionalism» della controcultura statunitense), i territorialisti hanno tratto alimento da teorie e pratiche ecologiste e le hanno declinate in senso «progettual-pianificatorio». Come spesso accade nell’urbanistica – disciplina eclettica che recupera i propri «maestri» in varie branche del sapere – il progetto territorialista lavora nel solco di alcune intuizioni qui di seguito velocemente delineate a partire dagli autori che le hanno elaborate. Patrick Geddes, inglese, biologo poliedrico, attivo anche come planner in India, ha immaginato un metodo di pianificazione territoriale basato su: a) la «sezione di valle», ovvero la complessità e specificità dei territori che danno forma alle città (ne deriva che il piano non è intercambiabile, poiché mette al lavoro l’eccezionalità dei luoghi); b) i saperi locali intimamente collegati alle risorse presenti in loco; c) un progetto urbano che si pratica accuratamente come operazione di «surgery» (chirurgia), e che non si muta nel palcoscenico della individualità progettante (archistar et similia). Pietr Kropotkin, pensatore anarchico, fornisce un importante contributo sul mutuo aiuto, ovvero sulla cooperazione che sta alla base della produzione e della riproduzione sociale in un’ottica di comunanza, di messa a comune dell’economia nel suo senso più profondo di gestione della casa e dell’ambiente. Gandhi, dal canto suo, è preso in conto per quanto attiene all’interdipendenza territoriale tra centri urbani (tra villaggi, città etc.). L’interdipendenza diviene la leva politica sulla quale puntare, a suo tempo per la liberazione dal dominio inglese, oggi da domini di natura globale. Murray Bookchin, infine, fornisce importanti stimoli nell’immaginazione di nuovi sistemi politici nel solco della democrazia diretta. È opportuno sottolineare che i principi qui sopra elencati – cooperazione, mutualismo, solidarietà, interdipendenza, democrazia diretta, diritti del vivente, comunanza – potrebbero costituire un efficace «antiveleno» cui ricorrere per sconfiggere le «passioni tristi» del neoliberismo. Quelle passioni che nei «Trenta ingloriosi» hanno conformato fallaci politiche urbane e metropolitane: competizione, contrattazione e valorizzazione (economica), la cui pervasiva nocività domina ancora oggi lo scenario e l’immaginario urbano-territoriale.


PI: A cosa stai lavorando adesso?

IA: La risposta sta in una frase: mi occupo della vita fuori da Megalopoli, del vivere nelle rovine del capitalismo. Con un collega, Daniele Vannetiello, stiamo ultimando una «monografia di villaggio» che accoglie i risultati di qualche anno di ricerca in una cittadina del Bordolese, in Francia, nella quale si è verificato ciò che abbiamo definito «riconquista popolare»: si tratta della ventennale riappropriazione «non mercantile» della città storica sulle rive della Garonna, un percorso politico e di gestione urbana esemplare[3]. A lato di questa impresa editoriale – restrizioni sanitarie permettendo – proseguo le mie osservazioni sulle alternative di esistenza nelle campagne e ai margini della metropoli. Capitolo in cui riveste un ruolo importante la riflessione sul saper fare «vernacolare» così come raffigurato da Illich: su quelle pratiche cioè che, volontariamente autonome, posizionate fuori dal mercato, sono oggi in grado di ridisegnare nuovi (e desiderabili) ambienti di vita, architetture e paesaggi. È tuttavia l’implicazione diretta nelle «lotte» – parte integrante del mio percorso di ricerca – a fornire linfa per costruire «scenari di possibilità», capaci, come scriveva recentemente Franco Berardi Bifo, di farci uscire dalla «paralisi immaginativa» che colpisce l’urbanistica, studiata e praticata.


Note [1] Una prima versione di questo dialogo è apparsa sul sito del Laboratorio di Studi Urbani dell’Università di Ferrara (https://sites.google.com/unife.it/lsu/home-page), diretto da Alfredo Alietti e Giuseppe Scandurra. [2] https://www.perunaltracitta.org/2021/02/22/vivere-nelle-rovine-di-megalopoli-critica-della-natura-merce/ [3] Cfr. Ilaria Agostini, Daniele Vannetiello, La riconquista popolare della città storica a Saint-Macaire (Aquitania). Per una monografia di villaggio, «Scienze del Territorio», n. 8, pp. 66-77, https://oajournals.fupress.net/index.php/sdt/article/view/11788/11819

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