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Chi era Luciano Ferrari Bravo*
Nato a Venezia nel 1940 e cresciuto tra Castello e il Lido, laureato in giurisprudenza all’Università degli studi di Padova, è stato a partire dai primi anni Sessanta uno dei protagonisti di quel pensiero politico eretico che ha preso il nome di «marxismo operaista». Attivo fin da studente nell’organizzazione delle lotte di fabbrica a Porto Marghera, poi esponente di Potere operaio fino al suo scioglimento, fu negli anni Settanta tra i docenti e ricercatori del Collettivo di Scienze Politiche e tra i fondatori di Radio Sherwood. Arrestato nel quadro dell’operazione politico-giudiziaria del 7 aprile 1979, dopo cinque anni e mezzo di carcere speciale e due tra confino e sorveglianza, è stato assolto da tutte le accuse e reintegrato nel suo posto di lavoro universitario. Docente di Istituzioni politiche comparate alla Facoltà di Scienze Politiche, nella seconda metà degli anni Novanta aveva ricominciato a contribuire, con la consueta competenza, passione e generosità, al dibattito nei movimenti. Luciano è mancato il 26 aprile del 2000.
*Da: Archivio Luciano Ferrari Bravo
Nella tarda primavera del 2000, a poche settimane dalla scomparsa di Luciano Ferrari Bravo la rivista «DeriveApprodi» gli dedicò un dossier dal titolo Bellissimo Luciano.
Di quel dossier riportiamo qui il mio testo dal titolo pantera rosa.
Ho conosciuto Luciano negli affollati cortili del carcere speciale di Trani, una ventina di anni fa. Di lui mi ha colpito la maglietta blu impiastricciata di macchie indefinibili, i capelli lunghi un poco argentati, i folti baffi, il tocco delicato del pallone, l’astuzia nel mercanteggiare le razioni di vino, gli occhi ridenti, ironici, discreti ma acuti. La sua figura, e in particolare il viso, ricordavano un manifesto in circolazione all’epoca che raffigurava l’arresto di un anarchico dalla postura spavalda tenuto saldamente per le braccia da due gendarmi. La scritta recitava: «Una risata vi seppellirà!».
Era dunque quello svagato freakettone uno dei padri nobili dell’«operaismo» italiano e insieme, a detta di alcuni «magistrati democratici», uno di quei terribili «cattivi maestri» accusati di aver diretto per un decennio tutte le organizzazioni armate e la sovversione sociale del movimento autonomo.
Delle quintalate di reati da pluriergastolo di cui era accusato, il mostro sghignazzava schernendosi dietro battute e imprecazioni in dialetto veneto. Nelle conversazioni usava esprimersi in modo essenziale, pacato, semplice ma profondamente riflessivo. E in lui si coglieva bene che agli astratti discorsi politici preferiva di gran lunga la concretezza di quelli personali e affettivi, verso i quali dimostrava un’attenta e divertita curiosità.
Insomma, Luciano, come il Pippo del grande Andrea Pazienza, sembrava uno sballato perché era, per davvero, uno sballato. Non a caso si era innamorato del movimento del ’77, che di sballati strabordava, al punto di rimettersi, dopo anni di pausa, a far qualcosa di politico nella sua Padova con il giornale «Autonomia» e «Radio Sherwood», vincendo così almeno in parte una pigrizia che gli era soavemente connaturata.
Macinando «vasche» su «vasche», chilometri avanti e indietro in quegli angusti cortili di cemento armato, scoprii di quell’uomo un mite candore coniugato però a una tenacia ferrea. Scoprii, cioè, che Pippo si poteva coniugare a Lenin. Il freakettone si poteva mischiare con sconcertante disinvoltura al serissimo, classico, militante comunista. La sua era una filosofia di resistenza all’annientamento fondata su uno stile semplice ma rigoroso: una ferma e orgogliosa coerenza culturale. Insomma Luciano, in modo non dissimile da tutti i grandi pensatori della sovversione cresciuti a confronto e dentro le lotte operaie degli anni Sessanta in Italia, aveva il dono di esprimere un sapere scientifico senza sfoggiare mai i toni saccenti e muffi dell’accademia. Ed era proprio questo dono a essere meschinamente invidiato allora da quegli intellettuali «organici di partito» che coniarono la volgarissima tesi dei «cattivi maestri» corruttori di giovani menti incolte.
Diventammo pian piano prima amici, poi fratelli, per sempre. Lui fece richiesta di trasferirsi dal «loculo» (la cella singola) nel mio «cameroncino» (la cella “collettiva” che dividevo con altri tre compagni).
Al risveglio la mattina indugiava gattonescamente a letto. Caffè con sigaretta e attaccava a leggiucchiare alternativamente due libri: Milles Plateaux di Gilles Deleuze e Félix Guattari e L’uomo senza qualità di Robert Musil. Poi i giornali, i cui articoli scorreva in pochi secondi mirando subito a quel che gli interessava.
Durante l’«ora d’aria» partecipava alle partitelle a pallone dove si destreggiava con l’eleganza risaputa. La medesima che usava per evitare ogni tipo di riunione sull’andazzo rivoluzionario che annusava come inessenziale. Mangiava di tutto senza lamentarsi, motivando la cosa col fatto che non gli veniva da cucinare neppure un uovo sodo. La sera in cella, in gruppo, si giocava a carte e si scriveva agli amici, liberi e prigionieri, ma soprattutto alle ragazze. Più raramente si guardava qualche vecchio film dalla televisioncina scassata che passava la «casanza».
Un ricordo che non mi ha mai abbandonato è di una piovosa domenica pomeriggio, quando rinunciando all’ora d’aria io e Luciano eravamo rimasti insieme in cella a dar fondo ai bicchieri e alle chiacchiere ascoltando una musica struggente di Keith Jarret e immaginando un viaggio in montagna che poi, tanti anni dopo, ormai liberi, riuscimmo effettivamente a fare. A un tratto, siccome mi era parso di cogliere nei suoi lineamenti un velo di tristezza che non gli era usuale gli allungai una leggera pacca sulla spalla a mo’ di incoraggiamento. Lui mi guardò subito ironico: «Va là che ne devi mangiare ancora così di panini!». Fu l’unico rimbrotto bonario che mi indirizzò in tutto il tempo diviso insieme per un gesto che intendeva esorcizzare la tristezza. Voleva dirmi che non ce n’era bisogno, o che semmai quel ruolo spettava a lui, fratello maggiore.
In quel carcere, in quel periodo, si condensò uno strambo assembramento di individui chiassosi che mal sopportavano l’appartenenza ai vincoli e ai rituali delle organizzazioni combattenti, da cui peraltro quasi tutti provenivano. Una componente informale che aveva la sua forza nelle intense relazioni affettive più che nelle condivisioni ideologiche. Luciano, il «Vecchio», «Minestrina» o la «Pantera rosa» come lo chiamavamo, si mischiava con naturalezza a quel gruppo di sciamannati irriverenti della «scuola di Trani». Una definizione da presa in giro coniata da malelingue amiche, ma un po’ invidiose, che alludevano maliziosamente a una scuola di comportamenti trasgressivi e alquanto ambigui nelle inclinazioni sessuali.
Mi sono sempre chiesto perché Luciano, a differenza dei suoi coetanei, spontaneamente e con disinvoltura, dividesse la sua quotidianità, e quindi i sentimenti, «le cose penultime, quelle quotidiane e decisive», con ragazzi come noi che avevano la metà dei suoi anni e che sicuramente per formazione culturale non potevano sostenere con lui un confronto molto proficuo sul piano intellettuale. Sono convinto che la risposta stava nella sua acuta sensibilità nel cogliere una fragilità connaturata alla nostra generazione. Luciano era consapevole di una debolezza insita nella nostra «gioventù bruciata» da eventi grandi e drammatici e sottoposta a una repressione implacabile. Il suo starci vicino, condividendo appieno il nostro tempo e le nostre passioni, anche le più minute, era un modo per tentare di capire le ragioni di quella nostra fragilità e forse trovare soluzioni almeno per tamponare il peggio. Un peggio che avanzava giorno per giorno. Un cedimento generalizzato che assumeva le sembianze ingiustificabili e odiose della delazione e del tradimento. Mentre fuori dalle mura delle fortezze speciali in cui eravamo rinchiusi, eroina e lotta armata esistenzialista erano le due varianti con cui la nostra generazione misurava la propria vertiginosa autodistruzione. Davanti al nostro sgomento, alla nostra rabbia cieca generata dall’impotenza, e quel che più conta alla vergogna di essere partecipi di una generazione infestata di improbabili «pentiti», Luciano non smetteva, con la sua solita pazienza e discrezione, di avanzare ipotesi di interpretazione razionale di quel disastro umano, prima che politico.
Poi, alla fine dell’anno ci fu la rivolta. Il sequestro di una ventina di guardie. Il blitz delle «teste di cuoio». La notte della mattanza. Molto sangue.
Luciano fu trasferito a Rebibbia, a Roma, e da quel momento nacque il nostro scambio di corrispondenza che proseguì ininterrottamente per tutto il tempo che gli toccò di scontare e che alla fine risultò essere di cinque anni, cinque mesi e cinque giorni. Prima di essere scarcerato e alla fine, dopo altri anni di strascichi processuali, assolto da tutte le accuse.
Il plico con le lettere di Luciano [non tutte quelle ricevute, purtroppo] (…) mi ha seguito in questi decenni contrassegnati anche da fughe, esili, esodi, traslochi. È sopravvissuto anche a perquisizioni e a sequestri, a dissequestri e risequestri operati dagli epigoni della grande inquisizione. Non l’ho mai mollato e non le mollerò mai perché rappresenta, a mio parere, una testimonianza eccezionale non solo di un saldo e dolce rapporto di amicizia, ma anche di un momento storico difficile e doloroso che ha coinvolto due generazioni di militanti. […] Non ho dubbi riguardo la difficoltà da parte del lettore di comprendere unitariamente questi brani, soprattutto nel caso di un lettore giovane e non a conoscenza dei dettagli di quel frangente storico. Ho quindi ritenuto opportuno inserire delle note utili a facilitare la comprensione dei contenuti del dibattito politico di allora e di una gergalità nota solo a coloro che sono passati per il circuito carcerario.
Nel dossier di quella corrispondenza furono riportati solo brevi stralci. Qui invece la si pubblica nella sua interezza.
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