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Autonomia del nord – autonomia del sud


Pubblichiamo per scavi la trascrizione della conversazione avvenuta tra Antonio Bove, Francesco Festa, Lanfranco Caminiti e Piero Despali in occasione della presentazione, curata dal Laboratorio di Mutuo Soccorso Zero81, dei primi due volumi della trilogia sull'autonomia meridionale edita da DeriveApprodi. Negli interventi emerge un confronto tra l'autonomia nel nord e nel sud Italia. La trascrizione è stata originariamente pubblicata dall'«Archivio autonomie del Meridione» (https://archivioautonomia.it/autonomie-del-meridione/una-chiacchierata-tra-gli-anni-70-e-il-presente-con-uno-sguardo-al-futuro/?fbclid=IwAR3fRLAmip979LCvsDTJ-HvfpZo9kJqQ34t8wESIQCaI2j1T0H2Sp2af_hA).


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Vittorio – Zer081

Buonasera a tutti e tutte per essere qui.

Questa è la seconda iniziativa di dibattito e confronto che abbiamo ripreso, come compagne e compagni dello Zer081, dopo un lungo periodo di chiusura dello spazio dovuto ovviamente alla pandemia.

Iniziamo questa chiacchierata, perché tale abbiamo scelto che sia, quindi non un dibattito, non una presentazione tipica di un libro o più libri, perché pensiamo che, avendo la fortuna di avere insieme due compagni, tra i tanti che hanno animato la stagione di lotta degli anni '70 possa essere la forma migliore per provare a scandagliare un pezzo della storia.

Abbiamo scelto cercando e trovando un tema, come dire, abbastanza intrigante a partire da uno slogan che era in voga negli anni 70 - «Nord - Sud Uniti nella lotta».

Ci siamo chiesti se poi era così veramente, sei chi lottava al nord e chi lottava al sud aveva lo stesso orizzonte, lo stesso metodo di lavoro, gli stessi riferimenti e via discorrendo.

Quindi partiamo dal primo dei tre volumi della trilogia sull'autonomia operaia meridionale che è già uscito e che si arricchirà, a breve, anche di un secondo volume che dovrebbe essere disponibile a partire dalla fine di maggio o comunque prima dell'estate.

Vogliamo anche dare merito al lavoro che DeriveApprodi, come casa editrice, ha in questi lunghi anni iniziato a fare, cioè la ricostruzione di un periodo storico, dando voce ai protagonisti diretti piuttosto che alle storie di quella stagione e che purtroppo, ancora oggi a 40 - 45 anni viene spesso definita come la stagione degli «anni di piombo».

Con Lanfranco e Piero proveremo a dare qualche elemento in più rispetto a quella stagione partendo anche da una base che è quella che la trilogia, le famose 900 pagine di questo lavoro, che Antonio Bove e Francesco Festa hanno fatto, ci aiuta a capire.

Il primo passaggio che chiederei, dandoci tempi stretti, è quello di farci dire da Francesco quale è stato il tipo di impegno che hanno dovuto mettere per tirare fuori queste storie, quale è stata la difficoltà; a tale proposito provo a raccontarvi molto velocemente, con due parole, quella che è anche la difficoltà che come «Archivio Autonomia» abbiamo nel reperire il materiale di quegli anni, materiale che in parte è andato perso e che, tranne alcune realtà particolari, mi riferisco al Veneto piuttosto che a un pezzo dei compagni di Bologna, sul Meridione ha delle difficoltà proprio nel reperimento di materiali piuttosto che nella loro collocazione sul web. Quindi ci rendiamo conto della difficoltà che i due compagni curatori hanno avuto nell’imbastire questo lavoro. Per cui molto velocemente chiedo a Francesco di raccontarci questa difficoltà e poi iniziamo la chiacchierata vera e propria partendo da queste considerazioni che come spazio ci siamo imposti di porre all'attenzione dei nostri due ospiti.


Francesco

È stata un’impresa abbastanza ardua, e un po' folle da parte di Sergio Bianchi, quella di affidarci la ricostruzione della storia dell’Autonomia meridionale. Per quanto riguarda le fonti, c’è davvero poco: qualche scritto di Lanfranco Caminiti nell’Orda d’oro di Nanni Balestrini e Primo Moroni, e un contributo nel volume collettaneo Il settantasette; mentre qualcosa in più si trova nel primo volume della serie Gli Autonomi; e poi vi sono le raccolte di documenti editi negli anni Settanta.

Complessivamente sono frammentarie ed episodiche le fonti sull'Autonomia operaia meridionale o sull’Autonomia meridionale o sull'Autonomia proletaria. Infatti le differenti diciture enucleano concettualmente bene una delle tracce da restituire alla discussione di stasera: le diverse declinazioni riflettono la molteplicità della composizione di classe e di territorio nel Mezzogiorno.

Quindi i primi passi nella ricostruzione sono stati mossi dai racconti ascoltati durante gli anni di militanza nell’attivo politico di Officina 99, a partire dalla fine anni degli anni Novanta e gli inizi del Duemila, durante il periodo no global. In quei racconti, in controluce, si percepiva una sorta di mito, una dimensione quasi mitopoietica, attorno all’Autonomia operaia, anche se effettivamente questa restava una sagoma sullo sfondo: a parte alcuni vecchi compagni, i più giovani non ne sapevano nulla, a parte quel mito cui istintivamente ci si rifaceva o lo si riproduceva automaticamente sugli stencil o sui murales come un Dna assodato.

Il problema – ed è un altro nodo da restituire alla discussione – è che a Napoli o nel sud Italia c’è un problema di salti generazionali, di interruzioni nella trasmissione di memoria collettiva. Ad esempio, noi abbiamo contattato e intervistato circa 45 tra compagne e compagni – fra coloro che hanno direttamente scritto dei contributi oppure sono stati intervistati – alcuni di essi, nonostante abbiano anch’essi militato ad Officina 99, nei primi anni di occupazione, personalmente non li conoscevamo. Quel gap nella ricostruzione dell’Autonomia meridionale è dovuto anche e soprattutto alle rotture o alle interruzioni nell’organizzazione, che ad esempio a Padova o nel Nord-est non c’è stato. Poi – Piero – in merito a ciò mi correggerai. A Padova ci sono state strutture, come Radio Sherwood, che hanno permesso una continuità, soprattutto nei periodi di riflusso o di forte repressione – negli anni Ottanta – per poi favorire la ripresa dell’azione collettiva con la stagione dei Centri sociali e gli anni Novanta.

Parimenti, seppur con i giusti distinguo, è avvenuto a Roma. Si assiste a una continuità anche se diversificata: differenti realtà che sono rimaste legate, in termini organizzativi, di coordinamento se non propriamente di rapporti affettivi, all’esperienza dei Volsci e dei Comitati autonomi operai, grazie a Radio Onda Rossa.

A Napoli, in particolar modo, questo gap esiste, ed è assai ampio con risvolti talvolta laceranti in termini di organizzazione, di trasmissione di sapere e di identità. Insomma complessivamente di continuità. Il che, alle volte, è anche positivo, a patto che non divenga un modus operandi.

In compenso, in Italia, rispetto alle altre organizzazioni e/o agli altri gruppi della sinistra rivoluzionaria, l'Autonomia, tanto come forma organizzativa quanto come cultura, forma mentis, pratiche e sentire comune, ha vissuto, per lo meno, fino al movimento No Global e, ancor più, in là, per altri due lustri. In altre parole, vi è stata una continuità generazionale e biografica che si sono riconosciuti in quel patrimonio e, alle volte, richiamati nelle forme identitarie: gli autonomi è stata infatti una categoria assai usata nei movimenti, così come nei documenti, nei testi di canzoni o anche nel linguaggio giornalistico.

Badate: la categoria di autonomi o di autonomia non va presa come continuità nelle forme organizzative – il che ci indurrebbe in un errore madornale – bensì nella qualità della sua concettualizzazione e messa in opera, ossia nelle pratiche e nella teoria, nelle rivendicazioni e nelle istanze. Insomma, nelle domande che l’Autonomia ha posto in essere negli anni Settanta. Basti pensare che se siamo arrivati all’undicesimo e al dodicesimo volume della saga Gli autonomi di DeriveApprodi, vuol dire che le domande poste e sorte in quegli anni sono ancora di notevole interesse.

Nella ricerca sull’Autonomia meridionale, nel ricomporre la geografia autonoma nel Sud, ci siamo dati un metodo ben preciso. Se avessimo voluto parlare dell'Autonomia operaia organizzata avremmo liquidato la ricerca in due-trecento pagine, relativamente a tutto il Mezzogiorno. E in effetti, sono state poche le realtà organizzate collegate ai Collettivi politici veneti oppure ai Comitati autonomi operai romani.

Quindi ci siamo dati un metodo per ricomporre quella geografia: riuscire a far parlare gli autonomi aldilà dell'Autonomia, prendendo spunto da una delle riflessioni che lanciava Lanfranco, nell’Orda d’oro, asserendo che «gli autonomi ci sono aldilà dell’Autonomia», ci sono stati aldilà dell’Autonomia organizzata. Così, abbiamo ricomposto via via un filo fra le diverse province e le diverse comunità meridionali. Anche perché, da un punto di vista metodologico – e questo è un secondo elemento di metodo – un errore commesso anche da noi stessi, dal punto di vista dei movimenti, e lo restituiamo bene in uno dei capitoli del libro, Dimenticare il Mezzogiorno, è intendere il Mezzogiorno come una dimensione geografica, economico-sociale, e dunque, storica e culturale, indistinta, unitaria: come se i territori non fossero diversificati al suo interno; una diversificazione intesa come processi di accumulazione, rapporti produttivi e composizione di classe. E questo è un errore prospettico, di metodo, da una parte, e dall’altra, un uso strategico fatto dalla borghesia proprietaria, tramite la storiografia liberale e anche di parte Pci, ossia narrare il Sud – dal XVI secolo, e in particolare, nel XIX e XX secolo, con l’epopea unitaria italiana – come un’estensione di feudo da parte di Napoli in giù o da Palermo nell’entroterra. Non è così.

Infatti, nella nostra ricerca, abbiamo visto come la militanza, l’attività politica e il conflitto sociale a Potenza oppure a Brindisi oppure a Foggia oppure a Cinisi sono stati fra esse assai differenti. Il che intuitivamente è facile a cogliersi, assai meno nelle ricostruzioni storiche o negli interventi politici, laddove il Mezzogiorno viene interpretato come un tutt’uno di territori, di dialettica capitale/lavoro, di lotte di classe, ecc.

Va da sé, abbiamo cercato di trovare i fili comuni fra quei territori e in quelle composizioni di classe, ciò nonostante abbiamo mantenuto fede a un approccio molteplice nella ricerca degli autonomi nel Mezzogiorno.

Nell’immaginare questo incontro mi è venuto in mente un libro. Un ponte fra Nord e Sud, all’interno dell’area dell’operaismo e dell’Autonomia operaia. Un’introduzione ideale all’incontro. Il libro è Stato e sottosviluppo. Il caso del Mezzogiorno d’Italia, di Luciano Ferrari Bravo e Alessandro Serafini. Entrambi compagni del Collettivo di Scienze Politiche e ricercatori dell’Università di Padova, e Luciano collaboratore interno di Radio Sherwood; ambedue arrestati il 7 Aprile del 1979. Luciano è stato 5 anni detenuto preventivamente per poi uscirne pulito da quella sporca vicenda. Le conseguenze della detenzione lo hanno segnato profondamente. Così come alle tante e ai tanti coinvolti nel girone infernale del 7 aprile.

Ferrari Bravo e Serafini hanno scritto quella ricerca, pubblicata nel ’72, e finanziata coi fondi universitari La Palabra de guerrillero del poeta peruviano Javier Heraud di Fernanda Mazzoli ancora di estrema attualità. Vi sostenevano come il sottosviluppo del Mezzogiorno fosse – o sia La Palabra de guerrillero del poeta peruviano Javier Heraud di Fernanda Mazzoli una variabile dello sviluppo capitalistico, non una dimensione esterna, bensì endogena all’accumulazione del capitale, tradotta come pianificazione – oggi utilizzeremmo la categoria di governance - all’interno dell’organizzazione dello Stato-piano: un sistema di gestione razionale volto a controllare la forza lavoro emigrante verso le industrie del Nord, da una parte, mentre dall’altra, di contenimento della pressione sociale e composizione di classe nel Mezzogiorno, e complessivamente di costituzione dello Stato-sociale.

In merito a quanto sostenuto in Stato e sottosviluppo, nel parlarne con diversi compagni, questi ci hanno confidato, con franchezza, di non averne conosciuto l’esistenza se non molto tardi: «l’abbiamo conosciuto negli anni ’80, anche se tante di quelle cose che si dicevano, come la funzione dello Stato, dell’emigrazione, del sottosviluppo, ecc. noi le vivevamo quotidianamente, le scrivevamo sui volantini e nei documenti, insomma le traducevamo nelle lotte».

In altri termini, che lo Stato fosse presente con i suoi apparati istituzionali, innervato coi suoi apparati ideologici nel Sud Italia era – ed è – un fatto ben presente ai quadri militanti dell’epoca.

Gli apparati operanti sui territori erano il partito con i suoi «mediatori» fra centro e periferia, sia della Dc che del Pci; erano il clientelismo, la Cassa per il Mezzogiorno, e poi le forme di patriarcato, ecc. Allora il «rifiuto del lavoro», chiave di volta delle istanze dell’Autonomia operaia, era nel Mezzogiorno, anche e soprattutto, rifiuto dello Stato e di quel tipo di innervamento nei rapporti sociali.

Il rapporto Sud e Stato è al centro di un volume di Lanfranco, Scirocco, scritto con Fiora Pirri. Ed è un libro in dialogo precipuo coi temi di questo incontro: è prensile della funzione dello Stato nelle province meridionali. Certo è stato scritto in un altro periodo storico, in differenti situazioni storiche e biografiche, e con un altro registro, ma ha tanti rimandi con Stato e sottosviluppo. In esso, Lanfranco individua la presenza all'interno del Sud Italia, come una figura parassitaria – alla pari del capitale: un parassita presente sui territori, nella composizione classe, con i suoi apparati, fra gli altri, anche con i suoi apparati politico-criminali, divenuti imprenditoria e holding soprattutto dopo il terremoto, e grazie ai fondi pubblici.

Chiudo con un ultimo elemento accomunante l’area dell’Autonomia in Italia e non solo. Essa ha vissuto all’interno dei gruppi e delle organizzazioni autonome come metodo della composizione di classe, in base alla pratica della conricerca o dell’inchiesta, da una parte, e dall’altra, come punto di vista interpretativo della realtà sociale e organizzativo, secondo la massima operaista: « prima la classe e poi il capitale», prima le lotte sociali e i movimenti e poi il capitale. Esemplare è l’attività fatta dai Collettivi veneti: il lavoro d’inchiesta e conricerca, e poi di organizzazione, con una composizione operaia legata all’indotto di Marghera, dunque, tipicamente di operaio massa, e soprattutto con una composizione emergente negli anni Settanta, l’operaio sociale. Allo stesso modo, seppur con peculiarità differenti, nel Sud Italia, le organizzazioni dell’area dell’Autonomia meridionale hanno operato in maniera simile: si pensi all’Uscl (Unione Sindacale dei Comitati di Lotta), presente nelle fabbriche (Alfa Sud, Italsider, Gie, ecc.) il cui intervento era all’interno di una composizione definibile di operaio massa; e poi il lavoro molto importante dei comitati di quartiere con una composizione di classe cosiddetta «spuria», una composizione di classe afferibile all'operaio sociale, che faceva parte integrante del processo di accumulazione e di produzione del valore all'interno della metropoli; con quella composizione hanno operato le compagne e i compagni dei comitati di quartiere a Napoli.

Quello stesso metodo della composizione credo abbia permesso, come accennavo prima, che l’Autonomia vivesse quale opzione e pratica negli anni ’80, nei Novanta e oltre, poiché si è stati in grado di fare inchiesta e conricerca all’interno di composizioni di classe mutate: il precariato sociale, quello che è stato il lavoro autonomo di prima e seconda generazione e via discorrendo, fino a cavalcare e essere parte integrante dell'onda lunga dei movimenti studenteschi, la Pantera, e poi centri sociali, lavorando in maniera carsica, come una talpa, all’interno di composizione sociali in continua mutazione. Questo approccio ha fatto sì che ancora oggi noi continuiamo a parlare dell’area dell’Autonomia, va da sé, con i dovuti distinguo.


Vittorio – Zer081

Dai ragionamenti che faceva Francesco viene fuori un quadro che interroga molto le complessità di quelle esperienze che, da Nord a Sud, in un qualche modo hanno attraversato la stagione della sovversione sociale in Italia. Credo che sia importante, senza entrare nelle biografie personali, dire chi sono Piero Despali e Lanfranco Caminiti almeno per i tanti compagni e compagne abbastanza più giovani rispetto a noi.

Piero Despali, insieme con il fratello Giacomo, ha scritto un volume della serie Gli Autonomi che riguarda i Collettivi Politici Veneti per il potere operaio. L’ha fatto in una forma quasi autobiografica relativamente a una delle esperienze più longeve che si è riportata dagli anni ’70. Ha inoltre scritto, insieme con altri, I padovani sempre edito da DeriveApprodi che, racconta gli anni che vanno dalla fine dei ’70 fino a Genova 2001

Lanfranco, invece, è stato tra i fondatori della rivista DeriveApprodi, che poi ha generato la casa editrice, ed è stato uno dei primi curatori, insieme con Sergio Bianchi, dei primi volumi che hanno dato vita alla serie che oggi arriva a undici - dodici volumi. Inoltre come si legge quando si cerca il suo nome sui motori di ricerca è scrittore, giornalista e saggista.

Diciamo che queste sono le loro «biografie editoriali». Poi ci sta una biografia molto più ampia che qualcuno ha scritto dentro e fuori delle aule dei Tribunali … ma quelle sono le loro scritture delle biografie di questi compagni.

Francesco accennava una serie di domande. Io direi di iniziare questa chiacchierata/confronto tra il Nord e il Sud, proprio dallo stimolo che ha dato Francesco, tra il Veneto che è stato sempre considerato il Sud del Nord e il Sud che è sempre stato il Sud del Sud o meglio solo il Sud oppure il Nord dell’Africa.


Lanfranco

Io partirei dall’inizio, «Nord – Sud uniti nella lotta». Ero a Reggio Calabria durante l’insurrezione, perché l’insurrezione c’è stata al Sud ed era l’insurrezione di Reggio Calabria. Un’insurrezione che non fu capita perché in quell’insurrezione la destra fu abile ad utilizzare schemi narrativi che la sinistra non coglieva e lo schema narrativo che la destra utilizzò e che la sinistra non coglieva era il territorio.

Perché la rivolta di Reggio Calabria era una rivolta di territorio: sì, il capoluogo, reggini contro catanzaresi, però non era quello il punto. Il punto è che c’era un territorio abbandonato, dismesso, dove lo Stato era solo una presenza repressiva, dove la criminalità organizzava una sorta di contro-stato, e che viene ulteriormente abbandonato proprio con spregio, come, non so come dire, con uno schiaffo.

E lì scoppia la rivolta, scoppia la rivolta dove ricade, all'interno di questo discorso – Reggio, l'orgoglio, la fierezza di essere reggini – tutto quello che c’era prima: la disoccupazione, i poli industriali che non servivano, che non producevano nulla, il gap che continuava ad aumentare, il precariato, la disoccupazione, l’emigrazione. Tutto questo precipita dentro quella rivolta e chi riesce più facilmente a gestire ideologicamente, a giocare su questa sorta di contrapposizione binaria – territorio contro Stato, territorio contro violenza repressiva – fu la destra. La sinistra ci provò però non avevamo proprio la testa. Mi ricordo Ingrao che viene a Reggio Calabria con compagni comunisti che conoscevo, venivano da Bovalino, dalla Jonica, venivano da dove c'erano state le prime lotte delle gelsominaie e delle raccoglitrici di olive perché la legge per gli asili nido nasce dalle battaglie di quelle lavoratrici, da tutta quella zona Jonica calabrese dove c’erano state le repubbliche all'indomani della caduta del fascismo ed erano costituite da compagni – Rosario Migale e altri che erano stati partigiani e che riportavano nel sud il vento del nord che tanto amava Pietro Nenni – perché per lui c’era solo il vento del nord, per lui non c’era la possibilità dello scirocco, del vento del sud.

E tutti quei militanti che erano sempre stati al confine con l’illegalità, con quella che era una sorta di antica resistenza popolare, compagni comunisti che furono accusati di essere ndranghetisti, erano lì al comizio e mentre Ingrao parlava strapparono le tessere del Pci a cui erano legati da un vincolo decennale, ventennale, trentennale perché la sinistra non capì esattamente che quella era un’insurrezione.

Una insurrezione che durò un anno, con l'esercito lungo i binari, ogni 400 metri c’era un soldato, con l’esercito che occupò paesi, caricava brutalmente, e uccise un ferroviere, un autista dell’azienda municipale, un barista… questa fu la rivolta di Reggio Calabria: non uccisero fascisti, uccisero lavoratori.

Questo fu la rivolta di Reggio Calabria che finì con la repressione e quando vennero giù gli operai del Nord a gridare «Nord – Sud uniti nella lotta» c'ero anch'io; c’ero anch’io, prima, nelle barricate, perché provammo con i compagni di Archi, con i compagni di Santa Caterina dove si proclamavano le repubbliche, nei quartieri di Reggio Calabria si proclamavano le repubbliche, si facevano le milizie popolari e non entrava nessuno.

E poi fui anche con «Nord - Sud uniti nella lotta» perché avevamo perso, perché quella battaglia, quell’insurrezione era stata abbandonata dalla sinistra. La sinistra perbenista, la sinistra operaia, la sinistra democratica quello accadde – e poi ha vinto la destra, e quindi io stesso, posso dire, di aver fatto entrambe le parti in commedia, con dolore lo dico ma non sapevamo più come uscirne fuori: aver fatto le barricate contro la polizia e aver preso le botte da loro in Piazza del Duomo con una brutalità mai più vista fino a Genova.

Poi fui quasi un «obbligo» partecipare a quel Nord – Sud.

La condanna della sinistra democratica è sempre stata questa: il Sud è sempre stato visto come fatto di rivolte improvvise, come se fossimo una jacquerie o contadini del ‘700 che un giorno si rompono le palle per le vessazioni che subiscono e incendiano i fienili, i covoni, tagliano le teste, bruciano fanno eccetera e poi puff, si acquetano. Questa è l'idea del Sud che è passata, perché la continuità della lotta per la democrazia era data dalla struttura della produzione ovvero dalla fabbrica ovvero dalla sinistra, dal sindacato.

Questa era la contrapposizione.

Noi invece abbiamo pensato sempre che le cose non stessero esattamente in questo modo, non che non ci fosse, sicuramente, un impatto straordinario nella trasformazione stessa del territorio, nella determinazione dei rapporti sociali dall'introduzione della fabbrica dentro un territorio che prima era disperso.

Quel paesaggio che io mi ricordo non c'è più. Il Sud ha subito una serie di trasformazioni dello sguardo, dei paesaggi. Si dice Sud e dici ulivo, ma l’ulivo al Sud non c’era in questa estensione, l’ulivo viene messo nel Sud perché le fabbriche di Marsiglia che fanno i saponi e le fabbriche inglesi che hanno bisogno di lubrificanti che impediscano la frizione eccessiva dei macchinari capiscono che l’olio d’oliva può essere buono e quindi dove si fa l'olio d’oliva? E quindi intensificano così la coltivazione dell’olivo e l’olivo diventa la pianta del Sud ma non è che prima c’erano tutti questi olivi, è una esigenza che nasce da un bisogno produttivo, da un impulso produttivo che era al Nord non era al Sud; questo vale anche per gli alberi da frutto, non è che si avevano tutti questi alberi da frutto, però poi c'era la mandorla che serviva, l’arancio, c’era questo e quello, e cambia il paesaggio.

Cambia lo sguardo, eravamo sicuramente grandi produttori di grano ma tutto il resto dei passaggi che il Sud ha subìto sono stati imposti da un processo produttivo che aveva nel Sud un ingranaggio, non la ricaduta di quel processo. E’ così è stato per la fabbrica, la fabbrica è stato l’ultimo ulivo, l’ultimo mandorlo che è stato piantato al Sud perché era una cosa che serviva ai processi e ai rapporti di sviluppo e sottosviluppo che si erano imposti con l'unità d'Italia e con l’immediato dopoguerra.

Questa intuizione che bisognava partire da quella che era davvero la nostra situazione, com’era il nostro processo produttivo, quali erano i soggetti sociali di questo processo produttivo, non c'era una gerarchia di questo processo produttivo, non c'era più il blocco operai-contadini che Gramsci aveva ipotizzato come la prospettiva possibile, non solo della trasformazione rivoluzionaria, ma anche della stessa democrazia però dove i contadini erano l’ancella del blocco operaio: il blocco operai-contadini aveva una struttura centrale che erano gli operai, poi c'erano le ancelle di questi operai che erano i contadini, ma neanche quello c’era più, non c’erano più contadini, era una situazione che si era evoluta.

Quello che noi pensammo, intuimmo, fu che il processo produttivo del Sud era un processo circolare cioè nel senso che era un processo in cui quello che contava era la circolazione, non era l'elemento che andava a differenziarsi dalla produzione ma che la circolazione, quello che noi chiamavamo, riprendendo un concetto caro alla critica marxista, «la giornata lavorativa sociale», era il punto centrale. Il Sud aveva una ininterrotta giornata lavorativa sociale, da quello che vendeva ‘o purp la mattina a Napoli a quello che vendeva pane e panella la notte a Palermo. Non si chiudeva mai questo ciclo, questo ciclo non si chiudeva mai perché c’era sempre qualcosa accesa dove si produceva per la società, per la socialità, perché era questo il punto, era una produzione di socialità. Vendere pane e panelle non è soltanto la sopravvivenza ma è costituire socialità esattamente come ciascuno di voi sa cosa significa la piccola produzione artigianale, cosa che ormai va scomparendo. In quel momento capimmo, immaginammo, che era questa la faccia meridionale, che era contemporaneamente lavoro e non lavoro. Che era non lavoro.

Ma no non lavoro nel senso di un tasso morale inferiore rispetto all’eticità che la sinistra ha sempre posto nella parola lavoro, «perché se si lavora si è integrati dentro la socialità»: io mi ricordo gli operai di Melfi che andavano al bar lontano dalla fabbrica e stavano con la tuta Fiat, perché la tuta era status e quindi se la tenevano sempre come la tuta sportiva perché era un segno, un elemento di distinzione e contemporaneamente di appartenenza a un processo, a qualcosa.

Invece il punto era partire dal non lavoro, non come qualcosa che fosse peggio, che fosse un privativo, ma qualcosa che fosse pieno di quella ricchezza di vita, che fosse anche la fuga da quell’obbligo del lavoro, da quella condanna al lavoro che peraltro vedevamo nelle cattedrali che ci hanno messo e che ancora campano come il triangolo di Melilli, Augusta e Priolo dove c'è il più alto tasso di leucemia d'Europa, dove i bambini nascono leucemici oppure Gela: questa è l’industrializzazione che c'è stata donata e che ora chiamano green.

E’ questo quello che hanno regalato al Sud, allora noi pensavamo di fare leva su qualcos’altro, sul fatto che il non lavoro non è soltanto una condanna ma è anche un'opportunità, un’occasione, un'invenzione di vita perché questo è. Quello che scende la mattina a Ballarò vendendo ’o musso di maiale, quella è un’invenzione di vita, un tentativo di costruire vita diversa dall’oppressione della macchina lavorativa, della macchina produttiva e quindi è questo il filo che abbiamo provato a cercare già, che poi è diventato forma di stare insieme: io mi ricordo la prima assemblea del ‘76 a Cosenza: c'era l’ira di dio, c’erano gli anarchici, quelli che fumavano gli spinelli, quelli con i fiori in testa, quelli un po’ truci, quelli che inquattavano i ferri.

C’era di tutto ma dissi «…ok facciamo, forse non andiamo da nessuna parte in questo modo però probabilmente se riusciamo a tenerci per mano, a costruire i fili, a tenere fili di questa situazione…». Anche perché erano posti piccoli fatti da tre persone, uno a Lametia, due sulla jonica, tre a… ovviamente questa dispersività, l’assenza di un luogo, che fosse una aggregazione per tutte le forze e quindi potessero esplodere così non c’era: immaginate la solitudine dei numeri primi perché quello erano, cioè tutti i militanti che stavano sparsi erano tutti i numeri primi, perché erano proprio solitari.

Dove trovarono l'occasione di discutere, di scambiare esperienze? In queste cose che facevamo, in queste assemblee autonome – chiamiamole così – in cui si parlava di tutto, poi ci si muoveva, ci si incontrava, eravamo transumanti, pastori transumanti, questo facevamo da militanti: transumavamo continuamente dalla Puglia a Palermo, da Palermo in Calabria perché era il modo di poter tenere i fili di questa realtà e vincere la solitudine che ogni militante, anche quando riusciva a costruire dentro il proprio territorio una realtà, purtroppo manteneva.

Questo è un po' la chiave che credo abbia ancora una valenza oggi.

Questo discorso del non lavoro, questo discorso della giornata lavorativa sociale. Certo, oggi ci troviamo in Sicilia a vedere, negli ultimi anni, scomparire una città come Messina per l’emigrazione perché se ne sono andati 250.000 ragazzi negli ultimi quindici anni; è una cosa impressionante, il centro della Sicilia sta scomparendo, non ci sono letteralmente più le persone, ci sono paesi che vanno morendo.

L'impatto di questa mancata capitalizzazione di questo paese, questo è un paese che è arrivato nel post modernismo senza aver fatto fino in fondo il modernismo.

Noi possiamo dire questo se guardiamo le dinamiche, le statistiche dei consumi, mi ricordo i braccianti che facevano il Primo Maggio e camminavano con i pantaloni di fustagno con le toppe e le scarpe buone però il vestito nuovo non lo avevano. L’unica cosa che avevano erano le scarpe buone.

Poi nello spazio di dieci, vent’anni anni camminavano con le automobili, poi i figli sono andati a scuola… tutto questo c'è stato ma è come se avessimo corso verso la post-modernizzazione senza avere fatto fino in fondo un processo vero di modernizzazione.

Questo è un po' il buco delle cose però questo non è che è un buco che può essere colmato, è il carattere proprio che ha la struttura produttiva, la struttura comunicativa, la struttura relazionale del Sud, è il suo carattere distintivo, non solo come interezza ma anche territorio per territorio, con differenze come per Melfi fabbrica Fiat ma anche Termini Imerese anche se ormai è come dire una fabbrica che fu. Però ci sono, ovviamente, anche altre realtà interessanti, produttive, ci sono città importanti come Palermo che è la terza/quarta città d’Italia non è che stiamo parlando di tutti paesini, dove le dinamiche esplodono.

Ci sono diversi Sud dentro il Sud ma sicuramente c’è un carattere che puoi identificare non solo nelle differenze dei paesaggi, dello sguardo, ma ovviamente nelle differenze dei territori, di come essi si presentano produttivamente, però di sicuro questo è un tratto comune, quello dell'elemento della circolazione; pensavamo che fosse il denaro come nei film: segui il denaro e capisci chi è il killer… il killer è lo Stato, il capitale che si andava finanziarizzando, perché dentro la giornata lavorativa sociale chi mette assieme quello che si alza la mattina per andare a pulire gli uffici del centro direzionale a quello che la sera prepara pane e panelle all'angolo di Ballarò, quello che unisce tutto questo è esattamente la circolazione del denaro, non c'è altro, è lo scambio, è questa la forma post-moderna, non ci siamo passati ma lo siamo diventati.

Questa è la forma attuale, e non lo dico come se fosse un giudizio, una chiave di lettura, post moderna della questione meridionale, ma non credo sia solo la questione meridionale perché se è vero che il Sud è un territorio dismesso non è il solo territorio d’Italia che è dismesso e non è neanche il solo territorio dell'Europa che è dismesso.

Ormai il capitale si muove così; si muove su aree virtuose e su aree che sono abbandonate; le aree virtuose vengono collegate tra di loro perché sono logisticamente più importanti, più significative, più produttive se sono collegate e d'altronde funziona così, si chiama New Economic Geography per cui hanno dato il Nobel a Paul Krugman.

Paul Krugman dice che il capitale va dove c’è capitale, il capitale si muove per inerzia, è difficile che il capitale inventi, quindi dove ci sono aree dove già ci sono aggregazioni di capitale andrà. È come per il Pnrr, che andrà esattamente nelle zone dove già esistono elementi di produzione che abbisognano di una spinta, non è che fanno un piano di intervento per il Sud che rovesci completamente le cose… ce lo possiamo scordare, ci vorrebbe proprio il coraggio di investire all'incontrario, il 75% al Sud e il 25% al Nord.

Ma non accadrà mai perché così funziona ma non solo per il Sud, in altre aree che hanno visto momenti d’oro nel circuito di produzione del capitale, ormai questi momenti d’oro non li vedono più, perché le connessioni logistiche delle aree virtuose tendono a concentrarsi e a dismettere le aree che sono meno interessanti. Quindi addii distretti felici del mobile, delle scarpe… tutto questo che è stato non è più, non sarà più.

Per fare una metafora, Sciascia parlava della risalita della palma, cioè per indicare che c'era un processo in cui certe caratteristiche del Sud stavano invadendo progressivamente – e si riferiva alla corruzione della politica e soprattutto quel travaso tra corruzione della politica e corruzione criminale che faceva alla fine il vero nodo vitale dello Stato.

Questo processo – diceva Sciascia – sta camminando, così come attraverso il cambiamento climatico c'è la palma che continua a salire verso il Nord e trova sempre più un clima favorevole a 100 km più avanti, e poi a 100 km più avanti e ancora a 100 km più avanti e questo, intendeva Sciascia, che questa linea della palma, che aveva caratterizzato un po' il Sud, questo elemento di corruzione tra politica e criminalità, la forma dello Stato, penso che potremmo dire che siamo di fronte ad un processo di meridionalizzazione non solo dell'Italia ma di meridionalizzazione dell’Europa, cioè nel senso che questa dismissione di una forma produttiva precedente, questo puntare più sulla circolazione finanziaria che sulla produzione di merci, questa precarizzazione totale del lavoro e quindi l'imposizione di una forma di non lavoro, ai limiti della sopravvivenza è proprio il carattere di fronte al quale noi ci troviamo adesso, in una sorta di meridionalizzazione progressiva, di avanzata della palma da questo punto di vista.

Questo è un po' il cuore delle cose che pensavamo allora e che credo che abbiano un po' un valore da riconsegnare alla riflessione attuale.

Quello che noi vivevamo era un'idea, anzi una presenza, della forma-Stato che aveva caratteri non solo repressivi ma anche centralistici e dirigistici, l’abbiamo vissuto nel senso dell'unificazione d'Italia, della questione dell’immediato dopoguerra e abbiamo sempre vissuto questa idea di un potere decisionale sulle forme produttive, di circolazione, relazionali dei territori che è sempre stata una cosa molto centralizzata.

Pensa, la Sicilia ha avuto lo statuto autonomo nel ’46, la Sicilia ha avuto uno statuto autonomo prima della Costituzione Italiana che è del ’48. Nel 1946 c'erano 500 mila persone in piazza con il movimento indipendentista, non c’era solo Salvatore Giuliano, c'erano gli assalti alle caserme, c'erano i tralicci che saltavano – tutte cose che poi abbiamo anche visto in altri territori al nord.

Però quello statuto che dava ampia autonomia poi non ci dava i piccioli e che ci fai con l’autonomia senza i piccioli.

Quando noi diciamo che il potere decisionale si è sovra-nazionalizzato, cioè che in realtà è al di sopra di quello che è il territorio, diciamo una cosa tremenda e anche importante. Il fatto che nei territori dove noi viviamo non c'è più potere decisionale, questo è la prima cosa sulla quale riflettere, cioè i politici locali si scannano sulle elezioni amministrative, su questo e quello ma poi non contano nu cazz.

Non c'è più potere decisionale perché le forme economiche, strutturali, relazionali, logistiche in cui vivranno quei territori sono decise altrove. Questa è una cosa tremenda anche per come collocare una lotta, perché noi lottiamo contro le discariche, blocchiamo, occupiamo strade, autostrade e poi andiamo dal Presidente della Provincia, dal Presidente della Regione e non riceviamo risposte cioè non contano un cazzo nessuno. Sono cose che vengono decise altrove con piani, progetti e questa è una cosa terribile perché significa che non riesci a trovare una controparte alla quale opporti.

Fai la lotta e poi non riesci mai a trovare un potere decisionale, quindi è una cosa importante ma nello stesso tempo terribile.

Questa è una cosa che ci interroga rispetto alla forma-Stato contro la quale noi abbiamo combattuto. Qual è la forma-Stato in cui oggi viviamo? C'è? C’è una forma-Stato? Lo chiedo davvero con curiosità. Qual è? Cos'è? Ci dicono che abbiamo una governance, quindi c’è una struttura, non c'è un fatto politico, non c'è una forma politica, la governance è una forma amministrativa del potere e della continuazione del potere, quindi che forma può avere un territorio oggi? Un territorio che prova a lottare, che prova a ricostruire, che prova a immaginare una sua produzione diversa, un suo paesaggio, un suo sguardo, che è soprattutto lo sguardo su ciò che è non su ciò che qualcun altro vuole che sia. Che forma istituzionale si può dare a questo territorio, a questi territori, alla relazione fra questi territori? Perché certo non posso fare la rivoluzione a Calascibetta, quantomeno mi devo mettere in provincia di Enna, quantomeno mi devo collegare a Palermo e alla Sicilia, quindi che forma possono avere oggi questi territori per le lotte? Per le lotte che pensino anche una forma istituzionale, non per le lotte che siano solo l'antagonismo perché, l’ho detto prima, non conti niente e quindi anche per decidere la discarica vai a Bruxelles? Perché è così, perché le discariche si decidono a Bruxelles e le decide la Veolia, la società francese o quell'altra società olandese o la decide la A2A di Brescia eccetera.

Questa cosa pone dei problemi enormi nell'immaginare la trasformazione e ovviamente è una trasformazione di soggettività politica e anche una trasformazione istituzionale, dico il termine nel senso della società che si mette insieme per decidere, quest’è istituzione, l'assemblea è una istituzione, il comitato è una istituzione.

Queste le cose che allora intuimmo ma non avemmo l’occasione e la possibilità, anche perché sicuramente eravamo un po’ scapocchiatelli, però io credo che abbiano ancora una potenza interrogativa, non abbiamo risposte a queste cose, abbiano ancora una potenza interrogativa.

Ho trovato molto interessante il libro di Piero e la mia venuta qui è perché c’era Piero e trovo importante questo scambio ma non è perché abbiamo avuto delle cose straordinarie ma alle spalle.

E’ invece interessante guardare in avanti per cercare quelle cose straordinarie che colleghino questo Nord e Sud.

Perché non era quel «Nord e Sud uniti nella lotta», non era il fatto che dovesse venire la sinistra operaia e sindacale a mettere ordine nelle rivolte del Sud, perché erano sfuggite di mano; quello è stato l’errore fatale, perché poi è finito in niente, è finito che abbiamo avuto il V Centro siderurgico dove la ndrangheta ci ha fatto i miliardi e poi è diventato un porto, eccetera eccetera.

Non è servita a nulla quella insurrezione che poteva essere una straordinaria occasione per fare in modo che la Calabria, che rimane all’ultimo posto di tutte le classifiche d’Italia dalle scuole agli asili, dal reddito pro capite etc., potesse diventare qualcosa di diverso. Distrussero gli aranceti e fecero il porto di Gioia Tauro.

Però io penso che in questo scambio ci sia davvero la possibilità di un discorso Nord Sud, perché il discorso sui territori - chiaro che ci sono territori particolari, anche il Veneto ha territori particolari, anche al sud ci sono territori che hanno storie particolari - e quindi hanno una immaginazione politica, una idea di soggettività politica diversa. Però questo è, oggi a 50 anni da «Nord - Sud uniti nella lotta» noi possiamo ricominciare a ragionare su questo.


Vittorio – Zer081

Direi che dalle parole di Lanfranco viene fuori la fatica degli attivisti, dei militanti nel lavorio di costruzione di reti. E' un dato che ci siamo portati sempre dietro, noi al Meridione, quello di faticare per congiungere i punti, le realtà che in qualche modo erano più affini. Ma questo ragionamento parte da ancor prima, da una differenza di partenza laddove quei quattro militanti di Bovalino, i tre o uno di Diamante, di cui si parlava prima, non avevano una casa comune, una provenienza comune.

L'esperienza del Veneto, in particolare quella dei Collettivi Politici invece aveva una propria casa da cui è partita, che era l’esperienza di Potere Operaio, come gruppo della cosiddetta sinistra rivoluzionaria o extraparlamentare. PO si scioglie nel '73 e da lì nasce l'esperienza dei Collettivi Politici, guardando chiaramente al territorio, al punto che non assume una definizione generalista ma si specifica prima come Collettivi Politici Padovani e poi nel '78 come Collettivi Politici Veneti.

Da questo punto di vista il territorio diventa anche per loro, i compagni del Veneto e del Nord Est, un elemento fondativo.

Ci si riannoda, dunque, alle cose che diceva Lanfranco rispetto alle specifità del territorio e a come il territorio, in qualche modo, abbia modellato sia lo strumento organizzativo sia le pratiche e soprattutto anche la teoria che poi se ne è sviluppata.


Piero

Intanto grazie per l'invito. Ho accettato volentieri di venire a Napoli anche per la presenza di Lanfranco che non conoscevo di persona ma che ho sempre apprezzato per la sua capacità di stare dentro le cose nel mentre accadono senza forzarle con un punto di vista ideologico. Usare gli occhiali dell'ideologia è sempre stata una grande malattia per il movimento comunista e mi sembra sia un problema anche oggi.

Ci tengo a precisarlo perché proprio rispetto alle vicende di Reggio Calabria, di cui si parlava prima, Potere Operaio era allora l’unico gruppo che dava la stessa interpretazione di Lanfranco e cioè che era una rivolta di popolo e non fascista. Con tutte le sue contraddizioni. A Padova, mi ricordo che ci siamo presi a botte con i vari gruppi Ml e il Pci proprio in una assemblea che era stata organizzata contro i fatti di Reggio Calabria.

... Per cui, già allora: uniti nella lotta.

Personalmente ho scelto di parlare di quegli anni raccontando la mia esperienza degli anni ’70 nel libro Storia dei Collettivi Politici Veneti per il potere operaio. La forma è quella della narrazione autobiografica per cui il racconto è volutamente di parte, soggettivo, insomma un mémoir il che spiega anche il dialogo imbastito con mio fratello.

Venivamo da Potere Operaio. Dopo Rosolina e la rottura di PO, il nostro gruppo di studenti medi non se l’è sentita di aderire alla proposta delle assemblee autonome operaie che aveva nell'Assemblea Autonoma di Porto Marghera un punto di riferimento nel nostro territorio. Il ragionamento che abbiamo fatto era semplice: «noi siamo studenti medi, abbiamo un certo tipo di ruolo, un certo tipo di soggettività, un modo di stare nel territorio, facciamo delle cose» per cui non ce la sentivamo di ridurre tutto a una presenza esterna alla fabbrica, che era quanto l’autonomia operaia organizzata proponeva in quel momento.

Partiamo da un punto: la definizione di autonomia ha vari livelli.

Intanto il primo. Qui l'autonomia operaia vede nell'operaio massa della fabbrica fordista il punto di riferimento della proposta rivoluzionaria. Il modello, il punto di riferimento, è quello della tradizione operaista, in cui si riconoscevano allora i gruppi di Potere Operaio e Lotta continua. Un elemento che continua fino al '73. L'esperienza di Potere Operaio, dunque, vive di quel tipo di punto di vista. La fabbrica fordista dell'operaio massa era il punto di riferimento per ogni discorso di tipo rivoluzionario. Questo elemento è da tenere in considerazione perché, anche noi, giovani studenti medi, siamo nati col mito della rivolta di fabbrica, in particolare della rivolta di Piazza Statuto e con esso la composizione Nord e Sud dell'operaio immigrato. Il racconto Vogliamo tutto di Alfonso Natella e di Balestrini è un elemento fondativo di un modo di pensare. Per noi la rivolta era quella operaia, una rivolta capace di parlare a tutto il territorio.

Per cui il primo livello dell'autonomia operaia trova nella definizione della centralità della fabbrica fordista e della figura dell'operaio massa il punto fondativo, importante, almeno per noi al Nord.

Dopo il '73, quando la forma del capitalismo si pone il problema di sconfiggere la rigidità operaia dell'operaio massa, si crea una nuova situazione. Lanfranco lo ha evidenziato parlando di «giornata lavorativa sociale». Noi lo abbiamo definito come il fatto che la produzione diventa non solo di fabbrica ma sociale; da qui una nuova forma di composizione di classe che chiameremo fin da subito operaio sociale. Veniva a delinearsi una nuova figura di centralità che aveva nel territorio il suo elemento fondativo: non più solamente la fabbrica ma il territorio.

Questo è stato un elemento che ha già cominciato a porre delle diversità dentro le varie esperienze. Fino al '77 c'era una composizione, un punto di vista soggettivo soprattutto al Nord, che si rifaceva all'autonomia operaia, che continuava a vedere nell'operaio di fabbrica il punto di riferimento e non riconosceva l'elemento di passaggio all'operaio sociale, al territorio e alla composizione sociale come fondativo di un nuovo percorso.

Questo dobbiamo dirlo. Per cui non c'è stato un elemento di omogeneità, non c'è una continuità unica dell'autonomia, ci sono varie esperienze. Il primo elemento che comincia a determinare forme di rottura all'interno del corpo soggettivo, che aveva come riferimento l'autonomia operaia, è questo passaggio all'operaio sociale, alla fabbrica sociale, al territorio.

Non vi racconto le molte discussione che ci furono dentro tantissime assemblee e riunioni. Adesso sembra tutto facile, ma allora le discussioni partivano dalla legge del valore, si doveva sempre dimostrare chi aveva più ragione dal punto di vista della critica marxista, chi era più leninista. Per cui ore e ore di discussione intorno al fatto che chi produceva valore era l'operaio, che la produzione restava centrale, che la merce non poteva essere sussunta dalla circolazione, per cui la circolazione era subalterna alla produzione, solo chi produce poteva essere centrale, chi lavorava nei servizi poteva solo essere alleato della centralità della fabbrica ... e via dicendo.

Insomma è stata anche una grande rottura di scatole, con riunioni infinite in stanze piene di fumo, visto che allora non era vietato come ora per rispetto degli spazi comuni....

Questo è il primo momento di passaggio. Per alcuni si chiamava autonomia proletaria, noi lo abbiamo definito operaio sociale perché in realtà si vedeva in questo passaggio anche la centralità produttiva. Il territorio, la fabbrica sociale diventava l'elemento centrale del processo di ristrutturazione capitalista.

Questo è il primo elemento di differenza, che ha poi determinato i vari percorsi delle autonomie diffuse.

Per quanto riguarda la nostra esperienza, noi, come Collettivi Politici, abbiamo rotto con l'Assemblea Autonoma di Marghera che riproponeva la centralità della fabbrica. Quella di Marghera era una fabbrica particolare; non era la Fiat ma una fabbrica chimica che produceva nocività. Una sorte di «nocività non dichiarata» anche dal punto di vista della lotta operaia. Infatti fino al '73-'74 il discorso era quello del rifiuto del lavoro, come capacità di autogestione del ciclo chimico che dimostrava come non fosse decisiva la presenza del padrone. Gli operai si potevano autogovernare, gestendo ilciclo.

Ma il ciclo chimico era nocivo e proprio la dinamica della nocività è stata, tra le altre cose, l'elemento di crisi della soggettività operaia di Marghera, che nel '76 comincia a porsi il problema del rifiuto del lavoro di morte. Si tratta di un passaggio per certi versi repentino, nel senso che la soggettività operaia di Porto Marghera è passata in due anni dalla rivendicazione della propria centralità nel percorso politico complessivo, al problema di non far più intervento in fabbrica. Un elemento forte di rottura, che ci siamo trovati davanti. Non tutti furono però d’accordo e infatti alcuni continueranno a sostenere l'iniziativa della lotta in fabbrica mentre altri daranno vita a «Lavoro Zero» ragionando sul rifiuto del ciclo chimico, contro i fertilizzati e affrontando il dibattito sul nuovo modo di fare agricoltura ... E via di questo passo.

Ci sono stati tutti questi aspetti in quel periodo e per quanto ci riguarda ci siamo posti il problema di fare la nostra esperienza anche rompendo molte volte con i compagni, con soggettività, con cui prima stavamo.

Arriviamo così al ciclo cosiddetto dell'autonomia operaia organizzata che parte dal '74 e arriva, per noi, fino al '79 con il 7 aprile, che chiaramente pone poi altri problemi.

Rispetto alla nostra esperienza veneta, Lanfranco prima ricordava che ha sempre circolato e continua a circolare l'idea di una nostra voglia di egemonia, come se volessimo sempre comandare. Devo dire che questa cosa l'ho sempre vissuta con grande fastidio perché in realtà questo tema dell’egemonia era un elemento legato ad un ragionamento, diciamo, di teoria d'organizzazione.

L'autonomia operaia nella sua versione dell'operaio massa e dell'operaio sociale aveva come orizzonte la rottura rivoluzionaria. Negli anni settanta volevamo fare la rivoluzione. Questo è l'altro elemento decisivo. Non volevamo fare solo le lotte, bisogna dirlo con sincerità. Non c'era solo il problema del confronto sulle lotte, su quale di queste fosse più radicale. L'orizzonte, non solo per noi, ma sul piano complessivo, mondiale, era il problema di fare la rivoluzione comunista.

Quel mondo, non dimentichiamolo, era ben diverso da quello di oggi.

La discriminante era «lo stato borghese si abbatte non si cambia». A partire da questo assunto, si poteva poi discutere sulle forme che il processo rivoluzionario avrebbe assunto e con quale organizzazione avremmo determinato il processo di rottura rivoluzionaria. Per certi versi, noi avevamo scelto un aspetto di tipo «maoista» o meglio i veneti sono stati considerati un po’ leninisti, un po’ maoisti, un po’ tutto e il contrario di tutto. In realtà ci sembrava che l'aspetto insurrezionale, legato a un concetto di partito per l'insurrezione, che Potere Operaio aveva caldeggiato, non era più sufficiente. Era una dinamica che non si rapportava a un capitalismo avanzato, a una possibilità di costruire un percorso, per cui avevamo ripreso il ragionamento del contropotere, che ci sembrava più possibile da costruire e mantenere. Costruire una prospettiva rivoluzionaria con un ragionamento di lungo periodo, di «lunga marcia», di costruzione delle «basi rosse».

Da qui il «maoismo». Contropotere come costruzione di altra società dentro e fuori, come elemento di percorso rivoluzionario. Tutto questo all'interno della necessità di una organizzazione politica e militare in grado di sostenere ciò. Questa era la realtà di allora, c'era poco da fare.

Da qui il ragionamento, dentro l'autonomia, sulle forme combattenti. Le forme combattenti non sono estranee al percorso dell'autonomia. Almeno nella prima parte, la scelta della lotta armata riguardava tutti, ha riguardato tutti, per questo noi siamo stati contrari alla dissociazione. Nel senso che in realtà non era solo un problema dei brigatisti o dei nappisti o di altre esperienze: la rottura rivoluzionaria attraverso la lotta armata era un elemento di scelta politica per tutti noi. Era il livello di differenza col Partito comunista e non solo, ed era un elemento di centralità.

L'esperienza delle Brigate Rosse prima maniera stava all'interno del primo livello che ho chiamato dell'autonomia operaia organizzata attorno alla centralità della grande fabbrica. Le assemblee autonome, i comitati operai a Marghera, alla Fiat, all'Alfa Romeo a Milano, vedevano insieme compagni che facevano esperienze varie. Ci siamo trovati insieme, ragionavamo su una stessa prospettiva con dinamiche, tattiche diverse, usando questi termini vecchia maniera di «strategia» e «tattica».

Questo è stato l'elemento che poi si è trascinato in forma mai risolta nella seconda fase, soprattutto dopo il '77. Con il movimento del '77 entra in ballo definitivamente la nuova figura dell'operaio sociale, le forme di centralità del movimento. Con il movimento del '77 e con il rapimento Moro avviene la prima rottura vera con le forme combattenti storicamente date. Prima non era così. C'è chi racconta un'altra storia, ma almeno per quanto riguarda la nostra storia eravamo diversi ma all'interno di una dialettica di quel tipo.

Sul '77 e il rapimento Moro chi vuole può leggere il nostro libro, o altri libri, in cui raccontiamo meglio come abbiamo vissuto quel passaggio storico. Giusto in sintesi per far capire: la scelta allora di non aver capito la possibilità, partendo dal '77, di costruire una politica di contropotere, di lungo periodo, di «lunga marcia», di costruzione di un processo rivoluzionario all'altezza dei tempi, unita alle dinamiche di forzature continue di tipo combattente, ha prodotto quello che ha prodotto.

Questa è per noi una rottura. Il secondo elemento di grande diversità per quel che ci riguarda.

Dopo il '77 e il rapimento Moro, convinti che tutto questo avrebbe portato prima o poi alla sconfitta, proprio per contrastare l'egemonia dei combattenti ci ponemmo il problema non di esaltare solo il movimento che già c'era, l'autonomia diffusa ma di contrapporre alla loro pratica e alla loro teoria politico-organizzativa una pratica e un’organizzazione diverse e altrettanto potenti. È il motivo per cui abbiamo provato a fare il discorso del partito dell'autonomia, cioè di mettere insieme una teoria e una pratica politica dell'autonomia operaia organizzata in grado di contrastare la deriva combattente, non intesa come lotta armata ma nella forma che aveva assunto di degenerazione con il rapimento Moro e dopo il rapimento Moro.

Questo non ci riesce, purtroppo. C'è una sorta di impossibilità, qualsiasi elemento di gestione che cerchiamo di fare non produce quel che intendevamo e siamo arrivati ad una sconfitta. Una sconfitta non è la fine della storia. Ma dobbiamo anche fare i conti con queste cose. Questo va detto. Non viviamo una falsa continuità, una gioiosa continuità. Abbiamo vissuto, soprattutto all'inizio degli anni Ottanta un periodo difficile, pesante, non solo per il carcere, per i compagni morti, ma anche per gli scazzi tra di noi, per le dinamiche di rottura di solidarietà, di fratellanza, per la dissociazione, i pentitismi e via dicendo. Tutto questo va tenuto presente nel racconto dell'autonomia.

Per finire, per quanto mi riguarda io ho fatto più di 13 anni di latitanza. Sono stato in galera per due mesi solo molto prima e ho avuto la fortuna, rispetto ad altri compagni, di non essere stato nelle patrie galere in quel periodo. Latitanza, dunque, non esilio. Ne parlo nel secondo libro, che ho

scritto con altri, «I padovani». La latitanza è stata una scelta. Così ho attraversato tutto quel decennio da latitante, cercando di contribuire e costruire alcuni elementi di superamento di quel momento difficile, attraverso la costruzione del Coordinamento Antinucleare Antimperialista e poi tutto il percorso che ha prodotto la Pantera e ancora, negli anni Novanta, la ripresa con il movimento No global.

Come ho scritto, ho vissuto questo periodo come un passaggio tra un «non più» e un «non ancora». Non era più possibile continuare a ragionare con i ragionamenti e l'orizzonte degli anni Settanta ma bisognava mantenere una identità capace di attraversare, in termini materialisti e concreti, la nuova fase.

Eravamo immersi nel tempo della rivoluzione capitalista. Negli anni Ottanta, alla fine degli anni Ottanta c'è stata una rivoluzione all'incontrario: avremmo dovuto farla noi, la rivoluzione, e invece la stava facendo sotto i nostri occhi proprio il capitalismo con il passaggio al postfordismo e con la globalizzazione. Non a caso è stato il tempo della fine di tanti confini, di tanti muri, di tanti punti di riferimento.

Si è trattato di un nuovo inizio. Per cui ho difficoltà a vedere la continuità dell'autonomia dagli anni Settanta ad oggi, non fosse per il bisogno di mantenere una capacità di metodo nell'affrontare le cose. Non c'è una continuità storica. Non si è onesti pubblicamente e anche culturalmente se si cerca di dimostrare che c'è una continuità storica delle esperienze. Sono state tutte esperienze che hanno avuto un inizio e una fine, e ciascuna con punti di riferimento propri. Si possono mantenere un metodo comune e alcuni punti di vista, come hanno fatto alcuni. Ad esempio, partire dalle cose che accadono. Guardare le cose per quello che sono e non per quello che vorremmo che fossero.

Nel qual caso il presupposto sarebbe ideologico, fisso e sempre determinato nella propria testa, per cui la realtà la si declina a nostra immagine e somiglianza. La nuova realtà va capita e su questa vanno costruite nuove ipotesi, nuove dinamiche. Chiaramente sempre con la voglia di un cambiamento radicale, non accontentandosi di avere un contentino, di pensare di poter cambiare il mondo soltanto andando nelle sovrastrutture ma andando sempre alla ricerca della possibilità di rompere gli elementi sostanziali del dominio e del potere.

Questo è fondamentale insieme al fatto di partire dalle cose che ti trovi attorno. Qua ritorna la centralità del discorso del territorio. Territorio, che sia il territorio locale, che sia l'Europa, importante è porsi il problema «io dove sto?», «con chi sto?», «cos'è questa realtà che vivo». Da questo devo ripartire, sempre, per immaginare un cambiamento. Il territorio inteso anche come un elemento di metodo.

Vedo, e qui concludo, che molti invece anche adesso sono incapaci di cogliere questi aspetti. In questo mi ritrovo anche con Lanfranco sulle cose che scrive sull'oggi. È uno dei pochi compagni di quel passato che mantiene la lucidità e la voglia di continuare a utilizzare quel tipo di metodo, che riguardi la pandemia, la guerra in Ucraina, o altre cose. Ragionare sui dati di fatto, sulla realtà com’è e, in questo, partendo da una dinamica di etica politica, essere in grado di interpretare la realtà, poterci stare all'interno senza costruirci su discorsi a volte incomprensibili solo per dimostrare ipotesi politiche del passato.

Dopo la sbobinatura Piero ha ritenuto di integrare il suo intervento con questa nota.

Rileggendo i testi della prima parte dell'incontro a Napoli vorrei solo soffermarmi su come, intorno alla rivolta di Reggio Calabria, l'atteggiamento del Pci fosse all’insegna di un antifascismo tutto ideologico, nostalgicamente resistenziale. Ma altrettanto ideologica era la loro lettura della questione meridionale tutta centrata sulla presunta arretratezza del Sud.

Mentre rileggevo il testo di Lanfranco, mi è tornato in mente il libro a cui accennava Francesco, scritto da due nostri compagni, Luciano Ferrari Bravo e Alessandro Serafini. S’intitolava Stato e sottosviluppo. Da riprendere in mano oggi, magari alla luce di quanto dice Lanfranco a proposito della circolazione finanziaria e della precarizzazione del lavoro. Ma l’ideologia è stata una brutta bestia per il Pci anche per un altro motivo. Lanfranco a proposito dell’insurrezione di Reggio Calabria parla di incomprensione da parte del partito.

Secondo me il Pci non era culturalmente all’altezza di quell’evento che, guarda caso, accadeva in un territorio ai suoi occhi abbandonato e dismesso, come dice Lanfranco. No, non poteva capire cosa stava accadendo. A impedirglielo c’era il peso di tutta una tradizione lunga almeno un secolo di condanna della rivolta. Solo che a Reggio e poi all’Aquila a recitare la parte che a fine Ottocento fu di Labriola troviamo Ingrao. Lo stesso spartito. I rivoltosi? Diseredati, manovali randagi, senza la coscienza viva del proprio diritto, incapaci di vedere oltre la cerchia dell’indigenza in cui vivono. C’è una storia lunga di rivolte che dall’Unità d’Italia a ieri l’altro ha accompagnato la vicenda del nostro Stato e sempre la sinistra di volta in volta in campo non l’ha compresa e ne ha avuto terrore.

Ha ragione Lanfranco: quel Nord-Sud uniti nella lotta noi l’abbiamo interpretato a modo nostro.

Prima ricordavo il libro di Luciano e Alessandro; ora vorrei suggerire anche la lettura dell’editoriale del n. 3 di «Classe operaia» del 1964. Il titolo, Operai senza alleati, (https://archivioautonomia.it/fondo-deriveapprodi/classe-operaia-n-3/) voleva essere un invito a chiudere con la politica delle alleanze ventilata fin dal dopoguerra dal Pci.

In quel testo Antonio Negri partiva dalla qualità delle lotte di quegli anni: radicali, continue, comunicative. Che gli dicevano che la distinzione classica tra operai avanzati e arretrati, tra operai e braccianti, era saltata. Se lo sviluppo capitalistico aveva provveduto fin lì a uniformare i suoi settori, ora era la volta degli operai procedere speditamente sulla strada della ricomposizione di classe. A Nord gli edili, i minatori, i portuali, i chimici, i tessili, i metalmeccanici, a Sud i braccianti. Un sol corpo proteso verso i livelli più alti della lotta.

Queste sono le letture che allora furono stimolanti per chi voleva essere eretico.


Vittorio – Zer081

Il portato, che riguardi il Meridione o un'area particolare che potesse essere il Veneto, in qualche modo segna in maniera decisiva anche lo sviluppo della vita dei militanti.

Se da un lato i compagni del Veneto hanno questa continua tensione alla costruzione del partito, dall'altro lato Lanfranco, in particolare, scrive una serie di cose nel '76 che vanno quasi nella direzione opposta e però ci sono elementi di continuità nel metodo e nella capacità di individuazione di alcuni terreni comuni.

Quindi da questo punto di vista: Nord e Sud erano uniti ma forse non lo sapevano, almeno per quanto riguarda una serie di esperienze autonome più o meno organizzate, più o meno tendenti ad una pratica di organizzazione di un certo tipo.

Chiederei ad Antonio di darci una ulteriore mano su questo ragionamento che ha visto Lanfranco e Piero confrontarsi in maniera tale offrire altri stimoli per continuare la chiacchierata.


Antonio

Quando ci siamo trovati a lavorare a questo libro la difficoltà principale è stata reperire i materiali, confrontarli, verificarli. La gran parte di questo lavoro si basa su racconti e memorie che vanno sempre maneggiati con attenzione perché sono ovviamente visioni personali, dalle quali provare a comporre un quadro storico obiettivo. L’altra difficoltà, di prospettiva, era riassunta dalla domanda: “Ma a che servono questi testi? Che ne facciamo?”.

Se tutta questa collana fosse solo una memorialistica buona per consolarci, per dire «quanto eravate bravi!» sarebbe del tutto inutile. Credo invece che dalla ricostruzione di quegli anni emergano una serie di questioni politiche, terribilmente attuali, soprattutto nel grande deserto che stiamo attraversando.

Il primo elemento è relativo al rapporto che quelle forze, che per mancanza di definizioni esaustive riassumiamo dentro l’alveo dell’ «area dell’autonomia», hanno avuto con il sistema produttivo, con l’organizzazione della produzione sociale. È un elemento che a partire dagli anni Settanta riguarda tutto quello che è venuto dopo.

Come organizzare in maniera alternativa la produzione sociale? È questa la domanda essenziale se si vuole affrontare il sistema di produzione borghese delle merci ed è quello che, probabilmente, più di ogni altra cosa è mancato. Siamo chiari, non si tratta di una riflessione di tipo merceologico, il punto non è cambiare tipologia di merce ma il sistema stesso di produzione, il che non è facile, evidentemente, finora l’unica vera rivoluzione in questo senso è quella borghese che spazza via il feudalesimo. Eppure il nodo della produzione è stato affrontato da quella variopinta «area dell’autonomia», anche nel Meridione, che in molte narrazioni, che speriamo questo volume abbia in parte fugato, sembrava un pallido riflesso di quello che accadeva nel Nord, sviluppatosi in terre narrate in maniera omogena, come prive di complessi industriali, prive di un tessuto operaio, prive di una capacità di organizzazione antagonista, aspetti che, invece, a leggere tutto con attenzione, non sono tali.

Questa narrazione fittizia, in realtà, ha riguardato anche il Nord. È vero che il Sud non è un territorio indistinto, ma non lo è neanche il Nord. Un conto è il Piemonte, un conto è Padova, ma anche all'interno del Veneto, un conto è Venezia, un conto Vicenza. Questo ci rimanda alla questione territoriale ma lascia sul fondo quella che è la questione essenziale, secondo me.

Bisogna interrogarsi su quelli che sono i rapporti di produzione, su che idea si ha di alternativa. Questo è importante per chi, come me e tanti altri compagni ha attraversato gli anni Novanta facendo politica in anni abbastanza lontani da quelli narrati in questa ricerca ma sentendosi in continuità storico – culturale con quelle vicende.

Credo che questo tema sia stato il punto debole di quella storia iniziata con la Pantera e conosciuta come «stagione dei centri sociali» la cui azione politica portata avanti in quel decennio sia stata carente, tra le altre cose, proprio su questo punto.

Sembrava quasi, in certi momenti, che si volesse evitare la “questione produzione” e i rapporti che ne derivano, magari lasciando defluire interrogativi essenziali e complessi dentro vie di fuga concettuali che impedivano di affrontare la questione.

Se si pensa agli anni Settanta, invece, è del tutto evidente che ci si era interrogati su questo, nelle fabbriche certo ma anche nei quartieri, dove prese piede la questione del rifiuto del lavoro. In questo senso a Napoli è stata importante la storia del Movimento dei disoccupati, che ha rappresentato una domanda aperta proprio sulle modalità di produzione sociale. I disoccupati, in questo senso, erano tutto meno che il lumpen proletariat del Pci, inteso come una zavorra. Si trattava, piuttosto, di forme di organizzazione del precariato metropolitano (quindi di figure sociali già messe al lavoro dentro la metropoli) in una città che già negli anni Settanta prefigurava, in maniera sinistra, quello che sarebbe accaduto di lì a vent'anni con la smaterializzazione dei rapporti delle catene produttive.

Non avere una visione alternativa a quei sistemi di produzione, è un problema e credo che questo sia l’elemento su cui cominciare a riflettere per il domani. Il tema di questa discussione, «Nord e Sud uniti nella lotta» mi rimanda a una delle cose che abbiamo riportato a galla, il romanzo di Vincenzo Guerrazzi, un operaio calabrese trapiantato a Genova che racconta non la rivolta di Reggio Calabria ma la manifestazione dell'anno successivo, organizzata dai sindacati in cui gli operai del Nord vanno a dare solidarietà alla città.

Il Pci e i sindacati avevano capito di aver detto cazzate su Reggio Calabria e organizzano la marcia anche su spinta dei quadri di fabbrica. Una manifestazione che fu funestata da alcune bombe sui binari dei treni in arrivo e che sembrò realizzare, finalmente, una unità di classe che prescindeva dall’appartenenza geografica e culturale. Il tema è importante e io darei una risposta provocatoria, rileggendo dentro le esperienze dell'autonomia nelle fabbriche come nella città una realtà opposta alla narrazione unitaria, «italiana» che in quanto nazionale poco ci interessa.

La storia dell’autonomia rompe quella narrazione sulla «classe operaia italiana» – l'Italia unita – mostrandone il volto assolutamente fittizio, imposta. Quelle esperienze guardavano al territorio, alle proprie esigenze materiali che venivano fuori dalla terra che si calpestava. Non sto parlando degli egoismi locali che arriveranno poi con la Lega ma della capacità di guardare alla traduzione locale dei processi di dominio che sono sempre differenti.

Calare su questa molteplicità di processi il mito di una unità indistinta della classe operaia è perfettamente inutile e in quegli anni era chiaro, fuori dal Pci e dalla Cgil. Se dovessimo trarne oggi elementi di riflessione «da Sud», non potremmo che riprendere quelle istanze traducendole nella necessità di una rivolta contro lo Stato, in quanto incarnazione di un'idea unitaria che è tutta a sostegno di un sistema produttivo basato nel Nord e che vede nel Sud il suo bacino di forza lavoro, il suo «altro». A questo proposito riprendevamo nel libro un ragionamento di Rosa Luxemburg sulla capacità di costruire un «altro» da cui poi espandere il mercato, aumentare la produzione di valore.

Spero che si riesca a ragionare collettivamente intorno a questi nodi.

Le storie differenti che compongono questa ricerca ci dicono soprattutto che al Sud lo Stato unitario è un’invenzione, un simulacro. Intorno alla storica avversione che le popolazione del Meridione nutrono per questo Stato, però, va fatto un intervento politico solido perché il rischio è che la questione diventi pericolosa, come negli anni Novanta con il fenomeno della Lega.

Bisogna intercettare questo fenomeno provando a imporre una visione alternativa a quella del localismo egoista e rilanciarla come apertura verso nuovi possibili spazi di autonomia.

Questi sono alcuni elementi che ritengo cruciali ed anche molto concreti, sui quali spero che si inizi a ragionare con metodo.


Piero

Per riprendere quello che dicevano Antonio e Lanfranco. Noi padovani ci abbiamo provato a intercettare negli anni Novanta la trasformazione del Veneto offrendo anche un punto di vista diverso da quello della Lega, solo che siamo arrivati troppo tardi.

Il che dimostra la necessità di capire a tempo, di stare dentro i tempi quando è il momento.

E il momento era prima degli anni Novanta.

Ci abbiamo provato anche contro i compagni che erano dell'autonomia invitandoli ad affrontare in forma non ideologica il nodo del federalismo, come un possibile modello per superare lo stato nazione, per andare oltre una sorta di visione “romanocentrica”. Un tema nuovo, questo, difficile da far passare all’interno dei soliti circuiti politici. Su questo vorrei fare una piccola riflessione: continuando sempre a ragionare dentro il solito giro dei compagni, ci si scazza senza che nulla cambi perché alla fine ci si rimette insieme in un gioco che è sempre lo stesso. I compagni sono sempre quelli e il giro resta quello. È il motivo per cui a volte dovremo vedere le cose un po’ al di fuori delle forme abitudinarie. Questo elemento va rotto. Soprattutto a fronte di nuove scommesse andrebbe riscoperta una capacità comunicativa più larga, senza la paura di andare controcorrente rispetto alle abitudini consolidate di un certo movimento in quel momento.

Noi – parlo della prima metà degli anni Novanta – ci siamo trovati in una situazione affatto inedita. C'era il movimento dei sindaci e c’erano tante altre cose ma è inutile che faccia tutta la storia che potete leggere ne I padovani. Fatto sta che in quel momento c'è stato il fatto di dire che gli autonomi del Veneto si erano un po' «rifarditi», avevano abbandonato gli elementi consolidati, i punti di riferimento.

Non si capiva che per noi ragionare sul federalismo riempiva di nuovo contenuto il vecchio tema antistatale. Come diceva prima Lanfranco non si può solo continuare ad esprimere una dinamica antistatale generica, bisogna avere la possibilità e la voglia di affrontare a pieno il tutto, declinarlo in termini nuovi. Questi nodi dovevamo affrontarli prima mentre noi lo abbiamo fatto tardi. Ripeto, dovevamo farlo prima. Sì, prima della Lega. Mio fratello dal carcere l’aveva capito, partendo dal Polisarario e da quel tipo di esperienza territoriale aveva posto il problema di procedere in una certa direzione. Ma poi, per tenere sempre insieme tutti i compagni, per non forzare mai le cose, non abbiamo spinto più di tanto. Quando siamo arrivati ad affrontare la questione, questo ha significato anche scontrarci con la dinamica «nazionale»: se la dimensione nazionale non funziona più in riferimento all'aspetto statale non funziona più neanche sul piano dei movimenti. E' insufficiente un movimento nazionale dei movimenti, ma possono esistere forme federate territoriali, da costruire, da mettere insieme facendo dei patti, basati sul riconoscimento reciproco. E' stato un grosso limite nelle varie fasi non liberarsi appieno da questo tratto «nazionale», di manifestazioni nazionali, di retorica nazionale, che anche noi abbiamo subito e anche praticato.

Un limite che abbiamo affrontato anche su un altro aspetto, oggi di grande attualità, cioè quello europeo. Con la globalizzazione ci siamo trovati ad andare oltre la forma stato, come dicevo prima eravamo di fronte ad una rivoluzione prodotta dal capitalismo, e c'è stata una grande difficoltà tra i compagni, dalla nostra parte ad affrontare questo cambiamento.

Mi ricordo che quando abbiamo fatto i famosi «treni per Amsterdam» (N.d.R. - l'occupazione dei treni dall'Italia per raggiungere la capitale olandese e partecipare alle Marce europee contro la precarietà), ponendo al centro la dimensione europea siamo stati fortemente criticati da un certo tipo di componenti di movimento che dicevano che stavamo sbagliando e insistevano sulla dinamica nazionale come rigido elemento di riferimento da contrapporre alla globalizzazione. Questo era il problema. Non si era colta la necessità di costruire anche noi un elemento di rottura sul terreno della sovranità nazionale, invece si è preferito riaffermarla, perché, dicevano, alla globalizzazione si risponde con una politica nazionale. Come è stato per il discorso Nord e Sud, di cui parlavamo prima: alla rivolta di Reggio Calabria si risponde con l'unità nazionale delle forze produttive.

Per certi versi la situazione si ripresenta oggi con la questione dell'Ucraina e dell'Europa. L'Ucraina ci pone il problema non da che parte stare – se con Lenin e altre simili stupidate, se l'Armata Rossa è ancora quella, se gli ucraini sono tutti fascisti e via di questo passo – ma quello ben più serio di comprendere se questa dinamica apre un nuovo percorso possibile, quello di uno spazio europeo di tipo federale, che guarda non all'Atlantico ma al Mediterraneo.

Questo dovremmo essere noi a dirlo, cioè i movimenti. Non lo dice nessuno, non vedo nessuno che lo assuma come elemento di idealità, di punto di riferimento. Noi negli anni Settanta avevamo la rivoluzione comunista, poi negli anni Novanta c'è stata la dinamica dell'altra globalizzazione, «l'altro mondo possibile», oggi dovrebbe esserci l'idea forza di un'altra Europa, l'Europa euro-mediterranea.

Bisogna riuscire a declinare il nodo della statalità, della sovranità costruendoci attorno un percorso. Questo è sempre stato affrontato in maniera molto parziale dai movimenti. Per questo, come dicevo prima, siamo arrivati tardi.

Siamo arrivati tardi anche negli anni Settanta, anche se in certi momenti siamo riusciti ad anticipare i processi in corso, e questo ha prodotto dei termini positivi. Adesso bisognerebbe stare di nuovo a quel livello.

Si tratta di un invito a comprendere che oggi l'Ucraina non parla solo della questione se «dare le armi o no» (cosa che dovrebbe essere scontata, ma lasciamo perdere …) ma piuttosto ci interroga. Dobbiamo capire cosa sta emergendo ovvero la necessità di uno spazio europeo, euro-mediterraneo, nuovo. Di fronte a una geopolitica che vede agire non più un solo impero, quello americano, non possiamo continuare a sognare che tutto resti uguale, quasi desiderare di tornare indietro alla vecchia egemonia americana, come capace di determinare lo spazio mondiale. Come se dicessimo che tutto è cambiato ma in realtà non è cambiato nulla. Come se non fosse vero che siamo di fronte a un modello multipolare, che i russi sono un impero capitalista, come quello cinese o indiano e che questo sconquasso è anche frutto delle lotte di classe internazionali. Ed in fondo sembra che si cerchi di ritornare, invece, ad interpretare questi nuovi imperi capitalisti come una possibile rottura di scatole per il nemico di sempre, gli americani. Questa incapacità di vedere come cambiano in termini materialisti i percorsi storici è un grosso limite.

Ho vissuto dentro percorsi che hanno provato a offrire una continuità nella discontinuità. Ancora rifletto sul fatto che potevamo, a partire dalla nostra esperienza di radicamento sociale negli anni Ottanta, anticipare la Lega con ben altri contenuti. Non lo abbiamo fatto e siamo stati costretti dopo la nascita della Lega a rincorrere ma quando non anticipi e rincorri, non vinci mai.

Una situazione simile, e qua concludo, l'abbiamo anche oggi con l'Europa e con questa guerra in Ucraina. Non intravedo nessuno che rilanci un discorso forte sull'Europa euro-mediterranea come spazio di conquista dei movimenti, che rompa un ragionamento di geopolitica che vede l'affermazione di imperi, nuovi imperi, che stanno dentro a un unico sistema che io personalmente con altri compagni chiamiamo l'algoritmo del comando finanziario. Un sistema in cui tutti stanno all'interno. Tutti. Non è solo un sistema, è un algoritmo del comando finanziario che funziona in forma automatica, che viene accettato dalla Cina, dall'India, da Musk, dagli Usa. Almeno per adesso, poi chissà.

Dentro questo scenario, che nessuno mette in discussione, ci sono aspetti di battaglie, forme di guerre, come abbiamo già visto e continueremo a vedere, finanche lo spettro di guerre tattiche atomiche, che io non escludo; visto che se c'è un cambiamento così radicale dentro questo quadro generale, si può andare in qualsiasi direzione.

Mentre succede tutto questo penso sarebbe importante superare gli schemi, non perdersi in discussioni a volte inutili e anticipare una prospettiva nuova anche per i movimenti.


Vittorio – Zer081

Sono temi complessi, ma ho visto che Lanfranco ha preso una serie di appunti, per cui senza andare tanto oltre lo inviterei a dirci la sua.


Lanfranco

Quello che dice Piero rispetto alla nostra sconfitta è vero, cioè noi abbiamo perso, è inutile girarci intorno. Quel movimento voleva la rivoluzione, quel movimento è stato sconfitto. Io credo che abbiano perso tutti, nel senso che anche Berlinguer che va davanti alla fabbrica della Fiat nel 1980 ha perso, hanno perso anche i comunisti che erano i nostri nemici, hanno perso anche loro. Oggi, dopo il ciclo degli anni Settanta, Ottanta, Novanta siamo senza sinistra. Questo è il dato. Abbiamo perso noi, hanno perso i comunisti, hanno perso tutte le variazioni, tutte le forme più particolari, certo ci sono sopravvivenze. Il problema è che non c'è sinistra in questo paese. Ma è una questione, che se ci si pensa, è solo in questo paese. Eravamo il laboratorio politico delle sinistre, dove c'è stata non solo una grande capacità teorica di intuire, intravvedere, immaginare, ma anche una potenza reale. Si riesce a governare anche nelle piazze, tu riesci a trasformare una riforma universitaria e a farla retrocedere, tu riesci con i movimenti a far tornare indietro un intervento sui salari o sulle pensioni o a migliorarlo. Questo si riusciva a fare: a governare dalla piazza. Questo è stato. Però il punto è questo: in Spagna c'è una sinistra, in Francia c'è una sinistra, in Germania ci sono i socialdemocratici, c'è la Link, il Pd non è neanche un partito socialdemocratico. La sconfitta, da questo punto di vista, è stata anche loro, è scomparsa la sinistra. Questo è il punto in cui ci troviamo oggi.

Io ancora vado in giro, mi capita nelle presentazioni, a proposito del salto generazionale, avverto in queste presentazioni una presenza, c'è una presenza nuova. Che cosa ricordano, che cosa guardano di quegli anni Settanta? La radicalità. Gli anni Settanta sono gli anni della radicalità, gli anni in cui il riformismo, la socialdemocrazia, vengono messi con le spalle al muro. Questo è quello che è rimasto in grande linee, forse arrivando pure a comprendere le forme combattenti, le forme di lotta armata, in qualche modo vengono recuperate però dentro questa grande dimensione, cioè il fatto che c'era una forma radicale, che non era solo la forma della radicalità politica, cioè che c'erano Lotta Continua, Potere Operaio, poi tutti quelli del movimento studentesco, poi ancora l'Autonomia eccetera, ma che c'erano forme di vita radicali. Forme di vita. C'era una circolarità, una capacità di costruire tessuti sociali che non dipendessero dalle forme del capitale o che in qualche modo ci frizionassero, ricavassero degli spazi, dei modi d'essere che costruivano società, vita. Questa radicalità si è persa. Questo il punto. Questa radicalità oggi non c'è. Ovviamente non è che era solo il portato dei movimenti. Era qualcosa che stava dentro la società, era qualcosa a cui i movimenti hanno dato corpo politico, hanno dato soggettività, hanno dato forza ma che era una trasformazione. Ora è impossibile pensare che oggi le contraddizioni dentro la società non ci siano. Ci sono, poi le vediamo che in qualche modo prendono forma, prendono la forma di Greta, prendono la forma del Ddl Zan, perché queste cose coinvolgono comunità Lgbt, non è che la gente non scende in piazza e non protesta. Non hanno radicalità, questo è. Non è che radicalità significa che devi prendere necessariamente il sasso da terra e lo devi tirare, non è il punto, non è la gestualità, è proprio diciamo un sentimento di rottura, di distanza totale da quello che era la società borghese… e quindi una trasformazione di sé, del fatto che sé stesso era dentro una comunità, una socialità, cercava una fratellanza, una solidarietà con il lavoro, con il non lavoro…

questa cosa è ancora quello che si guarda con nostalgia, degli anni Settanta. Questo si guarda degli anni Settanta. Non si guarda il fatto che fossimo tanto incazzati, tanto cattivi, ma del fatto che fossimo radicali. E secondo me questa è una cosa che ancora possiamo dare. Cioè il fatto che il fatto che in qualche modo manteniamo una posizione che è maturata nel tempo, si è costruita nel tempo. Noi allora pensavamo alla rivoluzione, noi, secondo me è stato l'errore più grande, volevamo essere più comunisti dei comunisti, questo volevamo essere, volevamo essere ancora più a sinistra della sinistra invece di costruire una idea diversa, adeguata a quello che era lo stato della produzione, lo stato del paese, la sua mentalità, la sua antropologia, la sua sociologia. Noi ci scannavamo sui modelli, se dovevamo essere lussemburghiani, maoisti, leninisti… davvero una forma ideologica. Però la forma ideologica aiutava, perché era quella, era il faro, era il fuoco che ci bruciava dentro, noi ci commovevamo quando vedevamo le bandiere rosse, quando gridavamo «Che Guevara, Che Guevara», non eravamo solo incazzosi eravamo anche pieni di passione, di moralità, di amore…


Interviene Piero ... eravamo i buoni


Esattamente, eravamo i buoni. Adesso il punto è che questa radicalità manca, manca soprattutto per una sconfitta generale della sinistra. La radicalità è una questione che sta dentro i conflitti sociali, dentro le contraddizioni della società, il problema è far diventare le contraddizioni conflitti. Perché le contraddizioni divengano conflitti occorre un pensiero, uno sguardo che renda lucido ciò che è opaco, che renda evidente ciò che è offuscato. Questo è quello che il pensiero deve fare, questa è la cosa che può fare un pensiero radicale. Soltanto così riesci poi ad organizzare, ad associare. Se riesci a rompere il quadro generale delle cose e dire c'è la possibilità di spezzare questo, di costruire una realtà alternativa, di diventare prima di tutto radicali sé stessi, nelle proprie forme di vita e poi aggregandosi ad altri, costruendo un percorso con gli altri. Adesso certo non abbiamo, almeno io, in testa non ce l'ho la rivoluzione comunista ... però penso che non è un problema che io mi sono rifardito, io non la vedo così. Nel senso cioè che io prima ero quello... e siccome adesso sono europeista sono diventato istituzionalista.

Credo che sia un fatto che le contraddizioni si presentano in forma diversa, il mondo è cambiato. Allora negli anni Settanta il mondo era bipolare, c'era l'Unione Sovietica, c'erano gli americani, che facevano porcate, stragi, massacri, bombardavano eccetera… Oggi non è così, oggi c'è una situazione geopolitica, politica, istituzionale, produttiva che è completamente diversa.

Io credo che oggi la rivoluzione passi proprio per l'Europa. L'Europa la intendo non come Unione europea ma insomma come un qualcosa che va costruita interamente a partire dai movimenti sociali, farne uno spazio di pace, di welfare, di produzioni diverse, di ecologia, di salute, di benessere, di salario, di reddito universale di cittadinanza, farne uno spazio di libertà, di diritti, di comunità, di cultura. Abbiamo visto delle cose orribili, quella russofobia che metteva all'indice Dostoevskij, quelli che si mettono l'elmetto e vanno alla guerra.

Allora questa radicalità la dobbiamo recuperare. In questo senso noi anziani, vecchietti, quelli che siamo rimasti abbiamo ancora qualcosa da dire, non tanto nel proporre, ma anche nel raccontare il nostro stesso percorso forse, nel rendere conto di questo percorso che non ha smesso di essere… è perché nonostante una serie di rotture, di fratture con i nostri stessi fratelli abbiamo mantenuto un elemento di radicalità io credo, qualcosa che ci distanzi diciamo dalle cose ... e quindi questo lumicino, questa cosa è qualcosa che possiamo ancora … io vedo tantissimi giovani che chiedono e cercano questa cosa. Vedo anche un pericolo ed è vero, che in questo bisogno di radicalità, un

binarismo semplice, diciamo una sorta di semplificazione della contraddizione.

Ora io francamente non penso che il problema sia quale sarà il sistema produttivo che faremo. Io di questa cosa non ne sono convinto.

Sono più convinto che il problema sarà la situazione istituzionale che costruiremo, perché io credo che il problema sia sempre il potere. Il potere è il problema. La decisionalità è il problema. Come conquistare il potere è il problema. Come esercitare contropotere o potere differente. E' sempre questo il problema.

Non è che se io faccio 1000 bottoni invece che 1000 bombe all'operaio cambia qualche cosa. O se faccio burro al posto di cannoni se il sistema produttivo rimane identico. Non è la merceologia del processo produttivo che cambia la differenza del mondo che verrà. E' un sistema di partecipazione, di decisionalità, di potere che va distribuito e, secondo me, è sempre quella la questione, la questione istituzionale.

Al tempo pensavamo che la questione istituzionale si risolvesse con la presa del potere, poi certo poteva essere il Palazzo d'Inverno, potevano essere le basi rosse, poteva … però alla fine la questione era come prendere il potere, un potere che veniva sempre rimandato. Penso che sia sempre questa la questione: come riusciamo a trasformare le istituzioni che esistono e costruire istituzioni che esercitino potere. Questo è anche possibile, significa che probabilmente tra i due elementi c'è vicinanza, è frizione e conflitto. Però è questa la questione che noi ci poniamo, io credo.

Dopo di che proprio per tornare ad un discorso del territorio, e quindi alla fine per parlare pro domo mea, io credo che la questione oggi nel Sud si ponga in questo modo, si ponga nel senso di immaginare una territorialità che sia staccata dal processo unitario nazionale. Se c'è un Sud possibile deve avere una idea di sé stesso come un Sud che non è più in Italia o che comunque è un'altra Italia, che è federato con il resto d'Italia, però che deve essere autogovernato.

Dobbiamo rovesciare completamente questa cosa che il Sud debba aspettare i piani nazionali, i piani del Mezzogiorno, gli investimenti. Bisogna rompere questa cosa. Fare qui davvero una rottura, una radicalità di passaggio che significa che il Sud è un soggetto autonomo, politico.

Questo significa anche guardare le lotte del territorio con un occhio diverso.

Non è che io vado a chiedere a chi blocca i traghetti a Messina perché i prezzi del gasolio stanno aumentando se ci ha la tessera del centro sociale, se ha pagato gli scontrini fiscali, ma che cazzo me ne frega. Mi interessa oggi che questi soggetti sociali che si organizzano, che scendono in piazza, che sono contro una situazione che va sempre più degenerando, pongono una questione, che è la questione di un gap economico, produttivo, sociale tra il Sud e il Nord che è diventato intollerabile e che non si ha una prospettiva, nel senso che negli anni Sessanta i Piani del Mezzogiorno immaginavano, in realtà lo fecero, i processi dei Piani di sviluppo hanno modificato realmente ma anche positivamente la vita delle popolazioni meridionali.

Oggi non c'è più, non c'è più riformismo, non c'è più quella socialdemocrazia contro la quale noi ci siamo battuti per poter spostare il suo asse per condizioni sempre migliori. Di fronte non abbiamo la possibilità di riformismo, abbiamo la possibilità di liberismo sempre più sfrenato.

Allora questo è il problema. Per potere costruire condizioni di vita sociali diverse, produttive, immaginare produzione, immaginare società, immaginare forme di cultura, di vita associata

differenti, il Sud si deve assolutamente staccare. Intanto concettualmente, deve costruire un soggetto politico autonomo.

Ci vuole un soggetto politico autonomo che si batta per il Sud, solo per il Sud, che sia nelle istituzioni, nella società, nelle battaglie sociali, e che costruisca un processo federativo con tutte le altre realtà.

E' probabile che siamo in ritardo, sicuramente siamo stati in ritardo verso alcuni fenomeni che hanno fatto del territorio l'elemento secessionista, hanno fatto del territorio un elemento divisivo, hanno costruito aree virtuose dentro l'Europa piuttosto che immaginare una trasformazione complessiva dell'Europa, come ha detto Piero, ad esempio l'asse che partiva dalla Spagna e arrivava fino ai Balcani, che piaceva tanto alla Lega.

Invece oggi è possibile immaginare la ripresa di un discorso dei territori che sia, diciamo così, progressiva, riformatrice oltre che radicale.

Questo secondo me è il quadro, il sogno che significa una nuova Europa, che significa nuovi rapporti internazionali, dentro il quale il militante, chi oggi combatte deve avere una idea, una prospettiva.

Il comunismo è troppo in là mentre invece è molto più di qua la possibilità radicale di trasformare questo Sud in un luogo … non un paradiso abitato da diavoli ... ma un inferno abitato da angeli, che sarebbe già meglio.

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