Estetica di una scrittura conflittuale
Traduzione di Silvia De Bernardinis
Pubblichiamo la prima parte di un denso articolo, originariamente pubblicato in francese su «Cahiers d’études italiennes» (31 | 2021), che analizza l’opera letteraria di Barbara Balzerani, la quale, motivata dal silenzio della conflittualità politica e dalle lacerazioni di una storia personale e collettiva, appare come un tentativo di ricomposizione di un’identità e di una memoria frantumate. Senza cercare di mascherarne le suture, il lavoro di scrittura di Balzerani è piuttosto simile alla tessitura con il suo andirivieni e i suoi echi che riuniscono temporalità ed esistenze diverse. In questa prospettiva, le possibilità di risonanza delle voci dei subalterni, come di quella dell’autrice, acquisiscono una rilevanza politica ma anche vitale ed esistenziale. L’opera omnia di Barbara Balzerani è disponibile sul catalogo DeriveApprodi.
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Questa riflessione, nata dall’analisi dell’opera letteraria di Barbara Balzerani, si propone di mettere in luce la forma in cui l’autrice ha espresso una doppia attività, di militante politica e di scrittrice. Le qualità letterarie e la specificità della sua scrittura, sottolineate da numerosi critici [1], si scontrano ancora, però, con un certo silenzio del mondo accademico e della critica letteraria. I testi di Balzerani infatti – soprattutto il primo, al pari di altre «autobiografie armate» [2] – hanno richiamato, in primo luogo, l’attenzione di storici e giornalisti, i quali hanno insistito quasi esclusivamente sulla questione della violenza politica, cercando di capire se tali testi potessero essere usati come fonti storiografiche [3] affidabili oppure no, o cercando di coniare una categoria specifica entro cui collocare queste diverse produzioni di militanti della sinistra rivoluzionaria [4]. Vorrei cercare qui di focalizzare la mia attenzione sulla dimensione letteraria dell’opera di Balzerani. Non si tratta di dimenticare chi scrive, né di mettere da parte il carattere politico di un corpus letterario impregnato di conflittualità, ma di riflettere sull’estetica delle opere di un’autrice che è stata anche una militante delle Brigate rosse.
Nata a Colleferro, città-fabbrica del Lazio nel 1949, Barbara Balzerani cresce in una famiglia operaia. Ha 19 anni nel 1968, quando nella penisola montano le rivolte studentesche, ed è allora che parte per Roma, dove studia filosofia e si unisce ai movimenti operai e studenteschi [5] della capitale. Milita inizialmente in uno dei movimenti operaisti della sinistra extraparlamentare, Potere operaio, prima di entrare, nel 1975 [6], nelle Brigate rosse [7], il gruppo armato rivoluzionario italiano più importante dalla fine della seconda guerra mondiale. All’interno dell’organizzazione ricopre un ruolo dirigente e partecipa nel 1978 al rapimento e all’esecuzione di Aldo Moro, allora Presidente della Democrazia Cristiana e ex Presidente del consiglio della Repubblica italiana. Entra in clandestinità nel 1978 e dirige, dal 1981, dopo la scissione dell’organizzazione, le Brigate rosse – Partito comunista combattente (BR-PCC), fino al suo arresto nel 1985. Viene condannata all’ergastolo durante il processo «Moro-ter», con una sentenza che la giudica, con altri brigatisti, responsabile dell’assassinio di Moro. Prima della sua liberazione definitiva nel 2011, ha passato 26 anni in carcere, dove si è laureata in antropologia e ha iniziato il suo lavoro di scrittura.
In un primo momento mi ero concentrata su Compagna luna, il primo testo scritto da Barbara Balzerani, con un’ipotesi di lettura che proponeva la scrittura come tentativo, metodo, strumento di ricomposizione di un’identità e di un percorso frammentati, dilaniati [8]. Si trattava, più esattamente, di capire con quali procedimenti stilistici Barbara Balzerani fosse riuscita a dare senso al proprio percorso politico, tessendo una tela non solo coerente ma anche esteticamente particolare. Del resto, questo è il testo in cui, in forma preminente, Balzerani richiama la sua esperienza della lotta armata cercando soprattutto di raccontarne i motivi, le conseguenze personali e collettive, e principalmente gli interrogativi che ne derivano, senza rincorrere giustificazioni per le sue scelte politiche e senza cercare assoluzioni. Le opere successive, pur non tacendo su quest’esperienza, raccontano di molte altre storie. Ne La sirena delle cinque [9], scritto, come la prima opera, durante il periodo del carcere, Balzerani si concentra sull’infanzia, sulla sua famiglia, sul lavoro operaio dei genitori e sugli anni passati in carcere. I due libri successivi sono stati scritti invece durante il periodo di libertà condizionale dell’autrice. Anche Perché io, perché non tu [10] torna, nelle prime pagine, sull’infanzia, per condurci poi attraverso le manifestazioni romane della fine degli anni Sessanta, ma resta soprattutto centrato sul racconto dell’esperienza carceraria di Balzerani fino agli anni della libertà condizionale e della scoperta delle trasformazioni di un’Italia insanguinata dal G8 di Genova e dalle sofferenze dei migranti «extra-comunitari», nuovi «capri espiatori» [11] del secondo millennio. Cronaca di un’attesa [12] narra l’ultimo anno precedente alla liberazione definitiva dell’autrice. Racconta ancora una volta lo scempio industriale nella sua città d’infanzia, ma soprattutto la spietatezza contemporanea del potere, dall’assassinio di Stefano Cucchi ai migranti annegati nel Mediterraneo e ignorati; dalle trasformazioni della città postmoderna alla miseria dei Rom di Milano. I due ultimi libri del corpus sono stati scritti dopo la liberazione definitiva. Nel quinto, Lascia che il mare entri [13], l’autrice ci parla di tre generazioni di donne, mescolando le esistenze della sua bisnonna, di sua madre e la propria, e dei loro dialoghi reali o immaginari. L’ultima opera fino ad oggi, L’ho sempre saputo [14], allarga ancora il campo delle riflessioni e delle tematiche dell’autrice. Il libro è incentrato attorno a un dialogo onirico tra l’«io» della militante prigioniera e una donna africana, realmente incontrata in carcere, dialogo attorno a cui sono incastonate altre voci che interrogano il mondo prima del dominio occidentale e le conseguenze scatenate da quest’ultimo.
Mi è sembrato fondamentale poter verificare l’ipotesi di lettura formulata esaminando l’insieme dell’opera dell’autrice [15], la quale, benché segnata da una tinta risolutamente autobiografica, non può in nessun modo essere ridotta al solo racconto dell’esperienza della lotta armata. Pertanto, questo lavoro potrebbe costituire un primo passo per l’analisi letteraria di questi testi, percorsi da numerosi temi come la natura, il carcere, il corpo, la città, temi che non ho potuto, per mancanza di tempo e di spazio, approfondire in questa sede.
1. Le lacerazioni della memoria e dell’identità
La scrittura di Barbara Balzerani sembra essere sottesa da due motivazioni. La prima, evocata nell’incipit della sua prima opera, è quella di voler rompere «un assordante silenzio in cui è interdetta la memoria e la libera parola» [16] dei militanti rivoluzionari, «vinti» [17] e prigionieri. Su questo silenzio torneremo più avanti. La seconda è espressa attraverso un’immagine, quella della lacerazione, della frantumazione della storia di anni di lotta e della propria identità. Nello spazio paratestuale che apre, 15 anni dopo, nel 2013, la riedizione del suo primo libro, Balzerani afferma infatti che «queste pagine sono il racconto dell’inizio di un viaggio di ritorno tra le schegge di uno specchio andato a pezzi, riflessi di una vita frantumata» [18]. Oltre alla metafora del viaggio, spesso usata nei suoi testi, c’è anche quella di uno specchio infranto che riflette una vita identicamente smembrata. Questa frammentazione non è solo individuale, è anche quella di una generazione di militanti vinti, come suggerisce l’autrice qualche riga dopo: «Avevo tra le mani una storia ridotta a brandelli, piegata alla lettura della resa dei conti dopo la rivolta degli anni Settanta» [19].
Dall’inizio del XX secolo, in particolare quando l’illusione di una qualche unità dell’«io» è stata abbandonata, il genere autobiografico è stato attraversato dal topos della frammentazione, mediante la rappresentazione di una «persona divisa» [20], più adeguata ad evidenziare la complessità del soggetto messa in luce in particolare dalla psicanalisi [21]. La dispersione dell’«io» della modernità e il riconoscimento della dimensione selettiva della memoria hanno peraltro influenzato le forme stesse dell’auto-narrazione dove, in modo ricorrente, il «frammento» appare privilegiato [22].
Balzerani parla infatti di «frammenti di vita costretti in ingorghi di emozioni [che] si animano in nuove composizioni per l’interferenza di un’eco, il frammento di un’immagine» [23] o degli «incastri del caleidoscopio in cui sta girando la [sua] vita» [24], a suggerire la frammentazione dei ricordi o le problematicità del lavoro della memoria. Ma quando allude alle conseguenze dell’impegno politico dei militanti delle Br, o più in generale del movimento degli anni Settanta, i termini si fanno più incisivi, più violenti. Nei brani dell’incipit precedentemente citati, la storia personale e collettiva dei militanti non è infatti solo divisa e frammentata ma «frantumata», «ridotta a brandelli» [25], ed è ancora una volta l’immagine di un paesaggio devastato, ridotto a «macerie» e «rovine» [26] ad essere evocata nell’ultima opera per rappresentare la loro «sconfitta».
Inoltre, anche il racconto del proprio percorso sembra procedere «a strappi» [27]. In Compagna luna, il testo che propone la struttura più lineare e che più corrisponde al genere autobiografico, come definito da Philippe Lejeune [28], la narratrice rievoca l’infanzia, innanzitutto come una sorta di età dell’oro:
«I prati e la grande libertà di giornate a sfidare i limiti della realtà nelle più immaginifiche esplorazioni. E l’avventura quotidiana a sopperire generosamente alla mancanza di favole, giocatoli e presenze. […] Ma ne poteva fare a meno. A compensare, un instancabile ripercorrere su e giù gli spazi di quel piccolo immenso mondo che regalava l’appagamento di reinvenzioni e scoperte continue, di insospettabili tesori e opportunità, fino a che sosteneva la fantasia. Ogni giorno da capo.» [29]
L’immaginazione, la fantasia e la natura sembrano cosi aver permesso alla narratrice di colmare le «privazioni materiali» [30] e affettive di un’epoca in cui domina un tempo circolare segnato dalle reiterazioni. Ma la scoperta, con l’inizio della scuola, delle disuguaglianze del «mondo degli adulti, quello in cui vigono le differenze e in cui alla conoscenza si paga lo scotto del giudizio e della competizione» [31], appare come una prima rottura. E così, qualche pagina dopo, scrive che «il tarlo aveva scavato e penetrato fino a farle perdere ogni sapere di perdute armonie» [32], evocando con un poliptoto questa doppia perdita della spensieratezza dell’infanzia. Questo primo strappo involontario è seguito da altri. La sua partenza per Roma per partecipare alle occupazioni universitarie e alle manifestazioni del ’68, per esempio, è descritta come «senza […] ritorno» [33], come un modo di «tagli[are] i ponti» [34] con la sua vita precedente, per «strappare, strappare da sé ogni legame, […] fare a mille pezzi ogni ricordo e rinascere per smentire e provare che tutto poteva essere diverso» [35]. L’entusiasmo della rivolta contro l’umiliazione, le divisioni sociali e il sistema patriarcale [36] equivale quindi a una nuova nascita che non può compiersi senza la distruzione dell’esistenza precedente, senza questa «radicalità di scelte» [37] che segna l’attivismo dell’autrice. Allo stesso modo, dopo l’entrata nelle Br, la sua estraneità ai movimenti femministi, di cui critica in particolare «l’accento posto sulla divisione di genere e non di classe» [38], è definita come «strappo», «separazione» [39], «distacco» [40]. D’altronde, quest’ultimo è reciproco e permette all’autrice di problematizzare, non senza ironia, ricordando una controversia sorta su di lei dopo il suo arresto, l’incomprensione mediatica e sociale suscitata dalla scelta delle donne di partecipare alla lotta armata: «[…] non c’era infatti nulla da capire. Tutto era già compreso nelle scelte violente che avevano scavato un baratro tra lei, la terrorista, e il resto del genere femminile» [41].
Il racconto degli strappi biografici, la cui valenza politica è evidente, fino ai brandelli della sconfitta, illustra bene questa «vita frantumata» dell’autrice che, dichiarando di non voler fare una «storia delle Brigate rosse» e affermando di raccontare unicamente «una parte di quanto h[a] vissuto e di come», conferisce tuttavia una dimensione collettiva al suo discorso, designandolo come «tentativo di riconnettere una storia collettiva attraverso le diverse stagioni di un’esistenza» [42]. Ed è con la scrittura, «fissando e ordinando nella materialità dei segni» [43] che questa ricomposizione può avvenire.
2. La scrittura come ricomposizione
Se il genere autobiografico appare come tentativo di dare senso alla propria esistenza attraverso una ricostruzione retrospettiva che organizza le parole e gli eventi raccontati, le opere di Balzerani mostrano, più che una ricostruzione, un’autentica ricomposizione di una identità e di una storia, personale e collettiva allo stesso tempo. Questo piano è esplicitato a più riprese dall’autrice, in particolare attraverso la metafora della tessitura.
L’attività della tessitura, o della cucitura, è rappresentata innanzitutto nei testi. Prerogativa femminile, questa rappresentazione appare non senza ambiguità allo sguardo dell’autrice. È evidente la sua ammirazione per la confezione dell’abito da sposa di sua sorella «uscito dalle mani di creature celesti» [44] o per quei «miracoli di richiamo in vita di indumenti e biancheria dalla sfinitezza» per mano delle «regine del recupero» [45]. Tuttavia, si sente anche, mediato dalla soggettività di sua madre [46], il rifiuto ad essere imprigionata in questa divisione dei generi, di «rincretinirsi con aghi e ferri», che fanno sembrare il cucito «il triste riassunto della decantata pazienza delle mani di donna» [47].
Oltre a questa rappresentazione, il riferimento alla tessitura, più che alla cucitura, intesa come lavorazione della materia, sembra richiamare la concezione stessa della scrittura dell’autrice, che la associa spesso all’immagine del viaggio, o alla fatica del ricordo. Ne La sirena delle cinque, le «passeggiate» all’aria in carcere, «avanti e indietro con la smania di trattenere ancora vita intrecciando racconti di viaggio» [48], ricordano la navetta per la tessitura, e qualche capitolo dopo, la narratrice evoca la «ricerca dei fili sulle cui tracce mettev[a] passi per ricomprendere la [su]a esistenza nell’ultima sua versione» [49]. In Perché io, perché non tu, di nuovo durante un viaggio, quello verso un carcere del nord d’Italia dopo l’uscita dall’isolamento, l’autrice cerca di «sciogliere l’uno dall’altro i fili che tengono legati gli incastri del caleidoscopio in cui sta girando la [su]a vita» [50]. E ancora, nel capitolo in cui racconta del sequestro di Moro, afferma: «Debbo riallacciare molti fili per rientrare in quella visione della politica, in quella determinazione, in quel contesto»[51]. In Lascia che il mare entri, racconta di «tre generazioni di donne per riallacciare il filo delle [su]e origini incerte» [52]. Infine, anche la sua ultima opera propone riferimenti a questa arte, una volta ancora associandola, a proposito del racconto della donna africana, al viaggio [53], al lavoro della memoria [54] ed infine alla condivisione, alla collaborazione politica, descritta questa volta attraverso una comparazione, «come i fili che tessono la trama di inediti percorsi di liberazione in un unico disegno» [55]. I legami tra la scrittura e la tessitura risalgono almeno all’Antichità ed hanno lasciato tracce in numerose parole o espressioni del linguaggio comune [56]. A prescindere da questo topos, Balzerani attribuisce a questa metafora un riferimento più preciso:
«Per me la scrittura è stata ed è questo: una confidente, ha una funzione terapeutica e riparatrice. È come quei fili tessuti con grande maestria da Maria Lai, contiene antiche fratture e lacerazioni ancora dolorosamente aperte» [57]
Ispirata dall’opera dell’artista sarda Maria Lai, che ha saputo trasformare dei telai in oggetti d’arte e fabbricare libri cuciti, dove i fili di cotone formano parole, Balzerani attribuisce anche virtù riparatrici a una scrittura che, però, non maschera queste «antiche fratture e lacerazioni», ma ne lascia vedere le suture attraverso diversi procedimenti.
Innanzitutto, il tentativo di Balzerani di ricomporre la sua identità frammentata – tra donna e brigatista, bambina e adulta, persona privata e personaggio pubblico – tutto volto a mostrare questo sforzo, si materializza, nella sua prima opera, in una specifica scelta del segno tipografico. L’alternarsi di corsivo e tondo esprime l’alternarsi di due punti di vista. Nel primo caso, la narratrice parla in prima persona, e si tratta di un discorso introspettivo, lirico, costellato di interrogativi personali. La grafia in tondo testimonia una posizione distanziata, spesso segnata da una focalizzazione esterna, alla terza persona singolare o plurale, e da un linguaggio meno immaginifico, più simile forse al saggio politico che alla narrativa. Questa dicotomia, questa sorta di schizofrenia della «“doppia” Balzerani» [58], tra l’identità del passato e del presente, tra la persona privata e il personaggio pubblico, esprime chiaramente quelle lacerazioni dell’«io» già ricordate. Appare del resto come un metodo di distanziamento che favorisce l’introspezione, poiché la narrazione dell’«io» comporta almeno uno sdoppiamento temporale – tra i fatti raccontati e il momento della scrittura – se non dell’identità [59]. Questo alternarsi di punti di vista permette infine, se non una ricomposizione, almeno una giustapposizione, una compresenza di diverse sfaccettature della narratrice che ricostituisce, in questo modo, per se stessa e per i suoi lettori, una persona complessa, lontana dall’immagine patinata della «terrorista dagli occhi di ghiaccio» propagandata dalla stampa.
Oltre ai segni tipografici, questo tentativo di ricomposizione dell’identità è visibile nei testi di Balzerani anche attraverso le tracce lasciate dal lavoro sulla memoria, dalla ricomposizione dei ricordi. Questo sforzo di ricordare viene narrato e rappresentato sin da Compagna luna: «Per quanto mi sforzi proprio non ricordo. Non ricordo un solo momento dei miei primissimi anni. […] Mi capita tra le mani una vecchia foto e, di colpo, ritrovo la bambina che sono stata»[60], a sottolineare la fatica che il ricordo richiede, e il bisogno di un supporto materiale che agisca da innesco. Balzerani usa un metodo simile in primo luogo in Lascia che il mare entri, dove una lettera ritrovata, inviata da una cugina di sua madre, da Chicago, «rivela un capitolo inedito di una storia non vissuta che è anche la [su]a» [61], facendo scattare, questa volta, non il lavoro della memoria ma quello dell’immaginazione per raccontare le speranze e le sofferenze dei migranti italiani in America.
L’elaborazione del ricordo si ripresenta anche attraverso il via vai incessante della narrazione tra diverse temporalità. In Compagna Luna, questo metodo taglia a più riprese l’apparente linearità strutturale del testo, come quando la descrizione dell’effervescenza politica romana della fine degli anni Sessanta è interrotta dal racconto, in corsivo, del ritorno, «quasi in pellegrinaggio», della narratrice a Campo de’ fiori, in occasione del suo primo permesso [62]. Le altre opere, meno lineari, appaiono spesso come una serie di fotogrammi, la cui sequenza ricompone l’esistenza della narratrice o di persone che vengono ricordate mostrandone le suture. È il caso di Lascia che il mare entri dove l’intreccio di vite della bisnonna, della madre dell’autrice e di quest’ultima è restituito, per esempio, attraverso l’uso di un vocabolario legato all’esperienza stessa di Balzerani, che lo applica alle precedenti generazioni di donne della sua famiglia. La situazione delle donne della famiglia materna, infatti, viene definita come «una prigionia senza colpa e senza riduzioni di pena» [63], tanto che l’autrice – riflettendo sulla «clandestinità in cui viveva ogni giudizio critico» [64] – esprime il suo stupore quando racconta della «decisione autonoma di segno contrario» di sua madre di votare contro le indicazioni del marito. Ne L’ho sempre saputo, al contrario, è l’anafora «ricordo» [65] ad apparire, nel primo capitolo, come una sorta di punto d’arresto che segnala il passaggio da un ricordo all’altro.
Questo effetto di tessitura non si limita alle singole opere, ma appare anche tra i testi che compongono il corpus, attraverso un dispositivo di echi che ne assicura la coerenza. Alcuni episodi della vita dell’autrice sono così evocati a più riprese da un testo all’altro, come l’inizio della sua militanza nelle occupazioni e nelle manifestazioni alla fine degli anni Sessanta [66], o ancora la morte di Fabrizio Ceruso, un ventenne militante ucciso durante le lotte in difesa delle «case occupate» di un quartiere della periferia romana, una morte ricordata in Perché io, perché non tu [67] e poi raccontata in Cronaca di un’attesa [68]. E ancora si possono rintracciare legami interni nella ricorrenza di un tema come il mare, che apre Cronaca di un’attesa e conclude Lascia che il mare entri, o come anche per quella sorta di dichiarazioni programmatiche, forse inconsapevoli, come in Compagna Luna, dove, nel capitolo «Una rivoluzionaria di professione», l’autrice scrive in corsivo:
«Mi scorrono davanti tutte, le donne della mia famiglia. Almeno tre generazioni. E riconosco i segni di una genealogia che fa la loro diversità tutta discendente da colei che ha messo in moto la sequenza. Quanto ancora perché l’indicibile di una ritrovata alleanza possa essere messo in parola?» [69]
Bisognerà attendere sedici anni perché Balzerani racconti, in Lascia che il mare entri, questa «ritrovata alleanza» tra queste tre generazioni di donne.
Questi effetti di echi, lungi dall’essere statici, rivelano la progressione delle riflessioni politiche ed esistenziali dell’autrice. Se in Compagna Luna c’è appena un abbozzo di critica all’idea di progresso [70], ne L’ho sempre saputo Balzerani sviluppa e approfondisce questo tema, riconoscendo forse in questa illusione uno dei principali errori politici delle Brigate rosse e di un’intera generazione di militanti:
[…] noi eravamo la generazione che chiamava genocidio la scoperta dell’America e consideravamo la vittoria di Little Big Horn come nostra. Ma neanche per un minuto ci veniva in mente che il modo di vivere degli indiani fosse paragonabile alle meraviglie dello sviluppo delle nostre forze produttive che, come l’Atala rossa di Stalin, ci avrebbero portato direttamente al comunismo, senza bisogno di nessuna transizione. Modello universale, buono per tutte le latitudini. Eravamo strabici, nell’incapacità di leggere il percorso altrui dentro il farsi di una storia e non secondo la nostra scala di valori. Una verità si fa strada. Non essere mai stati dalla parte dei conquistatori non ci ha salvati dalla loro influenza e ci siamo sentiti determinanti nello scontro per la libertà e l’eguaglianza di tutti. Non ci hanno sconfitti i padroni. In certa misura, siamo stati noi i padroni[71]
Sicuramente influenzata dagli studi di antropologia e dal tempo della riflessione, Balzerani reitera questa autocritica durante la presentazione del suo ultimo libro a Firenze, nel marzo del 2018: riconosce che l’aver creduto ciecamente all’«idea di progresso, […] di una storia progressiva che si lascia alle spalle tutto quello che non è all’altezza del momento»[72] è stato un «errore storico».
[1] Si veda in particolare la raccolta critica selezionata da Barbara Balzerani nella «Nota dell’autrice alla nuova edizione» di Compagna luna. B. Balzerani, Compagna luna, DeriveApprodi, Roma 2015, pp. 6-10. Il testo è stato tradotto in francese: B. Balzerani, Camarade Lune, traduzione di M. Baccelli, Éditions Cambourakis, Paris 2019. [2] E. Betta, Memorie in conflitto. Autobiografie della lotta armata, «Contemporanea», vol.12, n. 4, 2009, p. 676. [3] Si veda per esempio B. Armani, La production historiographique, journalistique et mémorielle sur les années de plomb, in M. Lazar, M.A. Matard-Bonucci, a cura di, L’Italie des années de plomb:le terrorisme entre histoire et mémoire, Autrement, « Mémoires/Histoire », Paris 2010, pp. 192-207 o, più recentemente, D. Bini, Donne e lotta armata (1970-1985), DeriveApprodi, Roma 2017. [4] S. Wharmby, L’édition des témoignages de membres des Brigades Rouges : manifestations du passé et vecteurs de mémoire, Tesi di Storia, relatrice M.-A. Matard-Bonucci, Université Grenoble-Alpes, 2007. [5] L’unione di queste due «anime», in particolare, caratterizza il «maggio strisciante» italiano – secondo l’espressione di Emilio Reyneri – più lungo e intenso che in altri paesi come la Francia. Cfr. E. Reyneri, Il maggio strisciante: l’inizio della mobilitazione operaia, in A. Pizzorno, a cura di, Lotta operaia e sindacato: il ciclo 1968-1972 in Italia, il Mulino, Bologna 1978, pp. 49-107. [6] La decisione di Balzerani di entrare nelle Br trae origine da due «eventi decisivi», il golpe cileno del 1973 e il rapimento del giudice Sossi da parte delle Brigate rosse nel 1974. Cfr. S. De Bernardinis, Entrevista com Barbara Balzerani, «Mouro», n. 10, São Paulo 2016, pp. 131-141. Per l’edizione italiana <https://beccodiferro.noblogs.org/barbara-balzerani-estraordinario-come-non-venga-formulato-nessun-interesse-sulle-reali-cause-della-nascita-e-delperdurare-della-lotta-armata/> [pagina consultata il 15 gennaio 2020]). Su questi eventi si sofferma anche in Compagna luna. [7] Tra le numerose opere dedicate alla storia dell’organizzazione, segnaliamo M. Clementi, Storia delle Brigate Rosse, Odradek, Milano 2007 e M. Clementi – P. Persichetti – E. Santalena, Brigate rosse. Dalle fabbriche alla «campagna di primavera», DeriveApprodi, Roma 2017. [8] Questa riflessione è nata dalla relazione presentata alla XVIII edizione del seminario Work in Progress del LUHCIE (Laboratoire Universitaire Histoire Cultures Italie Europe), organizzato dall’’Università di Grenoble Alpes, che verteva esclusivamente sulla prima opera di Balzerani. [9] B. Balzerani, La sirena delle cinque, DeriveApprodi, Roma 2015, (2003). [10] B. Balzerani, Perché io, perché non tu, Roma, DeriveApprodi, Roma 2009. [11] Ivi p. 78. [12] B. Balzerani, Cronaca di un’attesa, DeriveApprodi, Roma 2011. [13] B. Balzerani, Lascia che il mare entri, DeriveApprodi, Roma 2014. [14] B. Balzerani, L’ho sempre saputo, DeriveApprodi, Roma 2017. [15] Scritto all’inizio del 2020, questo studio non prende in esame l’ultima opera dell’autrice, B. Balzerani, Lettera a mio padre, DeriveApprodi, Roma 2020. [16] B. Balzerani, Compagna luna, cit., p. 23. [17] Ivi, p. 6. [18] Ivi, p. 5. [19] Ibidem [20] R. Barthes, Roland Barthes par Roland Barthes, Seuil, Paris 1995 (1975), p. 127. [21] Ph. Lejeune, Je est un autre: l’autobiographie, de la littérature aux médias, Seuil, Paris 1980. [22] Si veda per esempio S. Doubrovsky, Le livre brisé, Gallimard, Paris 1989, o A. Ernaux, Fragments autour de Philippe V, «L’Infini», n. 56, décembre 1996, i cui stessi titoli annunciano la frammentazione. [23] B. Balzerani, La sirena delle cinque, cit., p. 11. [24] B. Balzerani, Perché io, perché non tu, cit., p. 37. [25] B. Balzerani, Compagna luna, cit., p. 5. [26] B. Balzerani, L’ho sempre saputo, cit., p. 27. [27] B. Balzerani, La sirena delle cinque, cit., p. 11. [28] L’incipit possiede infatti tutti i tratti del «patto autobiografico» secondo la codificazione di Lejeune: intenzione dell’autore, circostanza della scrittura, definizione – tra le righe – del lettore e risposta a obiezioni e critiche. P. Lejeune, Le pacte autobiographique, Seuil, Paris 1975. [29] B. Balzerani, Compagna luna, cit., p.27. [30] Ivi, p. 28. [31] Ibidem [32] Ivi, p. 34. [33] Ivi, p.37. [34] Ivi, p.36. [35] Ivi, p.37. [36] Ibidem [37] Ivi, p.36. [38] B. Balzerani – M. Dell’Omodarme, Être une prolétaire est ce qui m’a poussé à adhérer à la lutte armée: Entretien avec Barbara Balzerani, traduction de Marco Dell’Omodarme, «Comment S’en Sortir?», n. 4, printemps 2017, p. 46. [39] B. Balzerani, Compagna luna, cit., p.60. [40] Ivi, p.61. [41] Ibidem [42] Ivi, p. 5. [43] Ivi, p. 23. [44] B. Balzerani, La sirena delle cinque, cit., p. 31. [45] B. Balzerani, Lascia che il mare entri, cit., p. 53. [46] In questo capitolo Balzerani ricorda infatti l’infanzia di sua madre, che avrebbe amato «fare parte della schiera dei maschi» e invece si trova relegata ai lavori femminili (ibidem). [47] Ibidem [48] B. Balzerani, La sirena delle cinque, cit., p. 14. [49] Ivi, p. 65. [50] B. Balzerani, Perché io, perché non tu, cit., p. 37. [51] Ivi, p. 87. [52] B. Balzerani, Lascia che il mare entri, cit., p. 6. [53] «Mi raccontò. Mi fece da guida in un viaggio che scosse le fondamenta di quello che pensavo di sapere […] seguendo il ritmo dei fili della connessione collettiva che restituisce comprensione, come direbbe l’artista che ne ricama il disegno». B. Balzerani, L’ho sempre saputo, cit., p. 29. [54] «Non voleva perderne memoria e si aggrappava ai filamenti dei ricordi per ritesserne la trama». Ivi, p. 43. [55] Ivi, p. 61. [56] Si può pensare all’etimologia stessa della parola «testo», che viene dal latino «texere», tessere, alle espressioni francesi «la trame du discours», «de fil en aiguille», «un tissu de mensonges» e alle espressioni italiane come «l’intreccio del libro», «il filo della narrazione». Tra i numerosi studi sul tema, cfr. F. Rigotti, Il filo del pensiero. Tessere, scrivere, pensare, il Mulino, Bologna 2002. [57] B. Balzerani et M. Dell’Omodarme, Être une prolétaire, op. cit., p. 50-51. [58] Riprendendo il titolo della prefazione di Ivan Della Mea a La sirena delle cinque, «I quadri della memoria della “doppia” Balzerani», in B. Balzerani, La sirena delle cinque, cit., p. 9 [59] P. Lejeune, Je est un autre, op. cit.; S. Wharmby, L’édition des témoignages, op. cit., p. 85. [60] B. Balzerani, Compagna luna, cit., p. 25-26 (in corsivo nell’originale). [61] B. Balzerani, Lascia che il mare entri, cit., p. 83. [62] B. Balzerani, Compagna luna, cit., p. 40-41. [63] B. Balzerani, Lascia che il mare entri, cit., p. 55. [64] Ivi, p. 56. [65] B. Balzerani, L’ho sempre saputo, cit., p. 17, 19, 20, 24. [66] In particolare B. Balzerani, Compagna Luna, cit., pp. 40-42; B. Balzerani, Perché io, perché non tu, cit., po. 21-22; B. Balzerani, L’ho sempre saputo, cit., pp. 15-28. [67] B. Balzerani, Perché io, perché non tu, cit., p. 98. [68] B. Balzerani, Cronaca di un’attesa, cit., pp. 46-47. [69] B. Balzerani, Compagna luna, cit., p. 119. [70] «Mentre il “bene in sé della produzione”, travolgendo relazioni industriali inservibili nel dominio dell’impresa multinazionale, si attrezzava ad esuberare sempre più operai straparlando di un lavoro più pulito e sicuro — che oggi fa quattro morti al giorno fra i pochi sfortunati che si spartiscono un simile bene». B. Balzerani, Compagna luna, cit., p. 57. [71] B. Balzerani, L’ho sempre saputo, cit., p. 47 [72] «Questo credo che ci abbia abbagliato parecchio, [...] questo vecchio discorso, che ci ha accumunato un po’ tutti, dello sviluppo delle forze produttive come viatico verso la costruzione di una società socialista di transizione verso il comunismo». Registrazione audio del dibattito «Barbara Balzerani presenta il suo libro L’ho sempre saputommagine: » organizzato dal Centro popolare autogestito di Firenze, 16mars 2018, disponibile su <www.radioradicale.it/scheda/536061/ barbara-balzerani-presenta-il-suo-libro-lho-sempre-saputo-ed-deriveapprodi> (pagina consultata il 19 gennaio 2020). Immagine: Sergio Bianchi, Fogli, 2012, acrilico su tela.
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Barbara Balzerani nei primi anni Settanta milita in Potere operaio, poi nelle Brigate rosse. Al termine di una lunga latitanza viene arrestata e sconta 25 anni di carcere. DeriveApprodi ha pubblicato tutte le sue opere, tra le quali, Compagna luna, Lascia che il mare entri, L’ho sempre saputo.
Marie Thirion è dottoranda in Italian studies all’Università di Grenoble-Alpes (laboratorio LUHCIE) e sta preparando una tesi sull’operaismo in Veneto dai primi anni ’60 al 1973. La sua ricerca si concentra sull’operaismo italiano, l’antropologia dei movimenti sociali e i legami tra pratiche politiche e territorio.
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