Piani Ue e classe dirigente italiana
Le difficoltà economiche del capitalismo italiano sono il frutto di scelte sbagliate dell’attuale ceto imprenditoriale, che si sta dimostrando inadeguato e magari poco dinamico o hanno radici più profonde?
Quale la ratio dietro l'implementazione del PNRR e quali gli obiettivi generali che si pone il piano italiano? In che modo potrà incidere sul tessuto produttivo e sul posizionamente dell'economia italiana nella divisione internazionale del lavoro?
Parte da queste domande il preciso studio, articolato in più parti di cui oggi pubblichiamo la seconda, che proponiamo su «transuenze» a cura di Emiliano Gentili, Federico Giusti e Stefano Macera.
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III. I termini e le condizioni del prestito. Per un approccio pragmatico ma conflittuale
La questione da agitare a livello politico non è quella delle condizioni del prestito: non si tratta di somme di denaro prestate «a strozzinaggio» e, per di più, una discreta parte di queste non andrà restituita (le stesse commissioni sul finanziamento richieste dall’Ue sono praticamente nulle).
Non ci sembrano efficaci nemmeno le critiche sul livello di indebitamento del Paese, cioè sulla quantità di debito che svilupperemmo a causa dei fondi Pnrr, che dovremo restituire: concretamente il tutto andrebbe a risolversi con 6.000.000.000 euro e più all'anno in aggiunta sul debito pubblico, da corrispondere nell’arco del ventennio che va dal 2033 al 2052. Ora, aggiungere questa cifra a un debito che matura interessi annui di 7-9.000.000.000 euro non ci sembra un ostacolo insormontabile per il bilancio di un'economia avanzata, per quanto non si tratti di spiccioli.
La questione da trattare dovrebbe essere un’altra: l’attuale ripartizione degli investimenti fra capitale e lavoro e la futura ripartizione delle spese per la restituzione del prestito, sempre fra capitale e lavoro. Forse si potrebbe lavorare a una rivendicazione per la quale la restituzione dei fondi Pnrr vada richiesta ai soggetti che li hanno utilizzati, attraverso aliquote, tasse, riduzione degli sgravi fiscali per fascia di utile netto, ecc. Tutto ciò considerando, magari, solamente imprese con determinate fasce di fatturato (non troppo basse) e considerandole assieme al relativo indotto di servizi alle imprese e finanziari, per poter ascrivere così a bilancio pubblico soltanto le quote di finanziamento Pnrr destinate (sulla carta) al potenziamento dei servizi pubblici. Se vogliamo interagire col dibattito mainstream, forse sarebbe ipotizzabile un discorso del genere. Del resto i sindacati e «l’opposizione» parlamentare avrebbero potuto tranquillamente chiedere ai destinatari dei fondi Pnrr di contribuire alle spese sostenute con un contributo a un fondo appositamente costituito. Presupposto irrinunciabile di qualsiasi rivendicazione di questo tenore, però, sarebbe stata una critica politica ai meccanismi europei di funzionamento. Ma proseguiamo.
Per una parte questi fondi sono sovvenzioni a fondo perduto[1] e, per l’altra, prestiti. La loro erogazione è subordinata ad alcuni adempimenti da parte dei governi nazionali, per cui non è scontata e non avviene in un’unica tranche. Gli unici paesi che finora[2] hanno ricevuto soldi in prestito sono: Italia, Grecia, Romania, Slovenia, Portogallo, Cipro. L’Italia è sia la nazione ad aver ricevuto la percentuale maggiore dei fondi previsti (44%), che l’unica ad aver ricevuto più soldi in prestito che sotto forma di sovvenzioni.
I fondi spettanti a ciascun paese, così come la destinazione d’uso e le condizioni di prestito degli stessi, sono stati stabiliti contrattualmente fra la Commissione Europea e il governo nazionale: stiamo parlando del cosiddetto Loan Agreement («contratto di prestito»). Questo documento, di norma accessibile dai siti governativi degli altri paesi europei, curiosamente in Italia non sembra essere stato reso pubblico[3].
In caso di utilizzo non corretto dei fondi comunitari è prevista la restituzione degli stessi[4], e la norma non è puramente simbolica: per l’Italia, nel 2019 «l’ammontare totale di irregolarità e frodi tra Fonti Strutturali e Politica agricola equivale a 63.441.868 euro di cui 51.774.935 ancora da recuperare»[5].
Il totale dei fondi messi a disposizione dalla Commissione Europea per tutti gli Stati è di quasi 750.000.000.000 euro divisi circa a metà fra prestiti e sovvenzioni. Per dare un’idea della mole di denaro in gioco forniamo alcuni dati: nel 2022 il PIL italiano è stato di circa 1.930.000.000 euro, quello della Germania 3.877.000.000 e quello del Portogallo 224.000.000. L’Italia, da questo punto di vista, è la quarta economia europea[6]. Il dispositivo del Pnrr, perciò, rappresenta un investimento ingente, potenzialmente in grado di andare a influenzare le strategie e i risultati delle economie dell’Unione. Tra l’altro il Pnrr fa parte del programma Ngeu, che «comprende due strumenti di sostegno agli Stati membri. Il REACT-EU [47,5 miliardi in totale] è stato concepito in un’ottica di più breve termine (2021-2022) per aiutarli nella fase iniziale di rilancio delle loro economie. IL RRF ha invece una durata di sei anni, dal 2021 al 2026»[7].
Per quanto riguarda le condizioni dei prestiti vi è la questione della restituzione degli interessi sul prestito e quella della restituzione del prestito vero e proprio.
Gli interessi li stiamo già ripagando e, per ora, sono convenienti, in quanto i tassi sui prestiti concessi all’Ue risultano inferiori a quelli italiani. Questa, infatti, prende a sua volta in prestito il denaro (la maggior parte, anche quello da erogare come sovvenzioni) man mano che provvede a erogare le rate ai vari Stati nazionali. In che modo? Emettendo titoli obbligazionari. Come funzionano? L’investitore privato li compra e, alla loro scadenza, riceverà indietro la somma iniziale maggiorata dagli interessi. Questi ultimi vengono stabiliti al momento della transazione e tendenzialmente sono più bassi quando l’istituzione della quale si comprano i titoli è solida e ha un rischio di insolvibilità del debito (alla scadenza dell’obbligazione) basso. Ora, se fondamentalmente è questo il motivo per cui l’Ue prende soldi a prestito a costo inferiore rispetto all’Italia, bisogna considerare che: qualora le condizioni di mercato peggiorassero, i tassi salirebbero e le previsioni economiche di spesa andrebbero riviste al rialzo; i tassi d’interesse concessi all’Ue sono circa la metà di quelli italiani, ma stanno lentamente salendo; generalmente le obbligazioni a lungo termine comportano a priori tassi d’interesse più alti e possono finire per catalizzare (più delle obbligazioni a breve scadenza) gli eventuali incrementi dei tassi che dovessero occorrere nel corso degli anni, favorendo una sorta di «effetto amplificatore».
Una scommessa sulla stabilità dell’Unione, dunque, e un cappio al collo delle classi popolari, pronto a stringersi in caso di necessità. Al momento però simili problematiche sono prefigurabili soltanto per via puramente ipotetica. A quanto ci risulta, infatti, dato che il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha previsto ad hoc due nuovi capitoli di spesa in bilancio[8], sulla scorta dell’aggiornamento contenuto nella nuova Legge di Bilancio è possibile affermare che non si tratta di somme elevate: 278.000.000 euro nel 2023, 504 nel 2024 e 714 nel 2025[9]. In questi anni i costi dei soli interessi sull’intero debito pubblico saranno di 75.000.000.000 e 718.000.000 euro per il 2023, 84.829.000.000 euro l’anno seguente, 91.517.000.000 euro nel 2025[10].
Il debito vero e proprio (che per l’Italia dovrebbe essere di 194.300.000.000 euro, di cui però solo 126 da restituire, essendo i rimanenti finanziamenti a fondo perduto) andrà ripagato a partire da 10 anni dopo la ricezione dei soldi e nell’arco di ulteriori 20 anni. Facciamo presente che complessivamente (comprendendo quindi anche le sovvenzioni a fondo perduto) «l’ammontare dei prestiti RRF all’Italia è stato stimato in base al limite massimo del 6,8% del reddito nazionale lordo in accordo con la task force della Commissione»[11].
IV. Pnrr italiano: obiettivi generali e predisposizione del quadro amministrativo
Pensiamo che possa essere utile esaminare brevemente le riforme collegate al Piano, ossia quelle norme in carico al governo nazionale che è necessario promulgare per poter utilizzare correttamente ed efficacemente i fondi Pnrr. Alcune di queste servono a garantire l’attuazione del piano (riforme abilitanti) e a preparare il contesto (riforme orizzontali o di contesto)[12], mentre altre sono molto più specifiche (riforme settoriali).
Le riforme abilitanti puntano alla semplificazione burocratica e alla digitalizzazione dell’amministrazione pubblica, nonché a stimolare la concorrenza nei mercati.
Fra queste troviamo la legge annuale per il mercato e la concorrenza[13], attraverso cui i governi hanno tentato (e tenteranno ancora) di semplificare le procedure per gli investimenti e lo sviluppo delle infrastrutture, rilasciando più facilmente le concessioni e riducendo gli oneri amministrativi, nonché di liberalizzare completamente i settori dell’energia elettrica, idroelettrica e da gas naturale, e le autostrade. Importante poi sottolineare come uno degli obiettivi di riforma dichiarati nel Pnrr sia stabilire che il pubblico, per ricorrere a risorse interne anziché al mercato (appalti ed esternalizzazioni, consulenze…), debba fornire adeguate giustificazioni, anche di carattere economico: «andranno introdotte specifiche norme finalizzate a imporre all’amministrazione una motivazione anticipata e rafforzata che dia conto delle ragioni del mancato ricorso al mercato, dei benefici della forma dell’in house dal punto di vista finanziario e della qualità dei servizi e dei risultati conseguiti nelle pregresse gestioni in auto-produzione, o comunque a garantire una esaustiva motivazione dell’aumento della partecipazione pubblica»[14]. Fra i settori che probabilmente verranno più colpiti da questo approccio troviamo quello della raccolta e dello smistamento rifiuti.
Un’altra riforma abilitante punta a dotare l’amministrazione di un unico sistema di contabilità, di piattaforme informatiche compatibili e capaci di operare congiuntamente, di personale specializzato ed esperto negli strumenti di vendita e di misurazione delle performance.
Questo vorrebbe dire aumentare l’efficienza e la produttività dello Stato (stimolando ritmi di lavoro più alti e passando dalla misurazione collettiva della produttività a quella individuale, relativa al singolo dipendente). Ma vuol dire anche stimolare la compra-vendita di prodotti digitali hi-tech creando un mercato ad hoc che veda lo Stato come primo cliente, nel tentativo (che immaginiamo sarà solo parzialmente efficace) dichiarato di spingere il tessuto imprenditoriale italiano all’innovazione produttiva e a investire nei settori più remunerativi dell’economia. Vuol dire, infine, aumentare il controllo politico sui cittadini lavoratori: questi saranno suddivisi per categorie di rischio (ad esempio in riferimento all’evasione fiscale), in maniera tale da rendere il controllo «mirato» e scovare i colpevoli; la stima del rischio verrebbe fatta con l’ausilio di strumenti informatici come i big data analysis[15], che consentono l’analisi e la «clusterizzazione» (categorizzazione) di mole di dati anche molto grandi e il cui uso, non a caso, si sta diffondendo largamente nei settori produttivi dell’economia. A tal fine, l’organico dell’Agenzia delle Entrate è già stato rafforzato con 4113 unità in più, deputate all’utilizzo di strumenti informatici avanzati a fini di controllo. Unico argine democratico è la «pseudonomizzazione» delle informazioni, che protegge la privacy del cittadino informalmente indagato dai lavoratori dipendenti dell’Agenzia.
Le riforme orizzontali servono a intervenire nella Pubblica Amministrazione e nella Giustizia, al fine di stimolare gli investimenti: quelli pubblici, nel caso della PA, o quelli delle imprese private sul territorio nazionale, nel caso della riforma della Giustizia. E se per la PA fondamentalmente tornano le solite parole d’ordine (semplificazione burocratica, digitalizzazione, nuove assunzioni e investimenti sulle competenze della forza-lavoro), per la Giustizia il problema è inquadrato nella lentezza dei processi, vista come il principale fattore di disturbo per gli investimenti.
Insomma, l’intento celato dietro queste (e altre) riforme sembra chiaro: attrarre gli investimenti e farli fruttare, eliminando lentezze e storture procedurali di tipo amministrativo e giudiziario. Gli investimenti, difatti, sono la base di un piano capitalistico di sviluppo come il Pnrr. Tuttavia, bisogna essere più specifici e cercare di capire a cosa, in concreto, la classe dirigente stia mirando.
Una sintesi dei tre obiettivi centrali nel Pnrr Italiano
Potremmo riassumere in tre punti gli obiettivi generali del Piano italiano: produttività, efficienza e posizionamento. La produttività indica la riduzione delle tempistiche di produzione e circolazione delle merci (approvvigionamento di materiali, manifattura e manifattura informatica, logistica, vendita); per «efficienza» intendiamo l’efficienza degli investimenti (la capacità di sviluppare il massimo potenziale economico con investimenti mirati) e allo stesso tempo la loro redditività (il guadagno che garantiscono al capitalista); il posizionamento è riferito al risultato di questi processi di implementazione economica sul mercato mondiale, ovvero alla possibilità di conquistare o mantenere le posizioni più remunerative nell’ambito delle filiere produttive di alcune tipologie di merci, considerate strategiche[16].
V. Pnrr italiano: ritardi nell’utilizzo dei fondi
I paesi europei non sono tutti uguali. L’Italia, come forse in molti si sarebbero aspettati, sembra essere ben poco capace e disciplinata nel portare a termine il percorso di attuazione degli investimenti. Certo, sarebbe stato utopico porsi come sfida quella di sviluppare tecnologie in grado di monitorare il processo di implementazione tecnologica in itinere, utilizzando gli stessi fondi del Pnrr: questo è, in maniera esemplificativa, il livello tedesco[17]. Anche volendo però fare un raffronto con un paese per alcuni versi più simile al nostro, quale ad esempio la Spagna, non emergerebbe un quadro edificante. Da un lato, l’Italia ha presentato quattro richieste di finanziamento (erogazione delle rate Pnrr), mentre la Spagna tre, ma al nostro paese ne sono state accettate due, mentre per la Spagna sono state accolte tutte: «l’intervallo di tempo che intercorre tra la richiesta di pagamento e l’effettiva erogazione della rata (…) si allunga quando compaiono difformità tra gli obiettivi originariamente fissati dal Piano in corrispondenza della rata in questione e quelli effettivamente realizzati, discrepanze che devono essere valutate e validate dalle istituzioni europee. Ebbene, nel caso della prima rata, la Spagna ha ricevuto l’erogazione dei fondi dopo appena 45 giorni dalla richiesta, l’Italia dopo 104; per la seconda rata Madrid ha riscosso il pagamento dopo 90 giorni, Roma dopo 132; per la liquidazione della terza rata alla Spagna ci sono voluti 140 giorni, mentre l’Italia la sta ancora aspettando e sono passati 272 giorni dalla richiesta, inviata a Bruxelles il 30 dicembre dello scorso anno [la rata è infine stata versata il 09/10/2023][18]».
Dimostrando puntualità ed efficienza, inoltre, la Spagna è riuscita a sostenere con successo la richiesta di un notevole incremento dei fondi concessi (84.000.000.000 euro di prestiti in più, a cui vanno aggiunti altri finanziamenti e trasferimenti di denaro). Nel caso italiano, invece, «alla data del 26 novembre risultano spesi complessivamente 28.100.000.000 euro, pari a circa il 14,7% del totale delle risorse europee del PNRR: 1.300.000.000 euro nel 2020 (tutto il programmato per l’anno), 6.200.000.000 euro nel 2021 (leggermente più di quanto programmato), 18.100.000.000 nel 2022 (leggermente più di quanto programmato) e 2.500.000.000 euro nel 2023 (il 7,4%del programmato)»[19]. Non esattamente un risultato brillante, per il governo a guida Meloni: ad oggi il Pnrr italiano ha dovuto essere ridotto di circa 17.000.000.000, al fine di ottenere l’erogazione delle rate. Vedremo se nel 2025-2026 si potranno recuperare quei soldi[20]… Per ora, concentrandoci sul presente, proviamo concretamente a vedere quali siano i problemi.
Ritardi nell’affidamento degli appalti
L’affidamento degli appalti risulta frequentemente in ritardo e spesse volte viene sospeso dopo l’assegnazione. Queste inefficienze non si verificano tanto nella fase della progettazione degli investimenti («cosa fare»), quanto in quella della messa a gara e dell’assegnazione dei progetti («chi deve farlo»). Da questo punto di vista sono evidenti le disparità territoriali fra nord e sud:
«la quota dei progetti conclusi è bassa dappertutto, ma al centro e al mezzogiorno è poco più della metà di quella del nord. I ritardi nella messa a gara e nell’assegnazione dei lavori, invece, si concentrano soprattutto nel mezzogiorno. (…) A fine novembre [2023] nel mezzogiorno risulta aggiudicato il 9,4% dei progetti finanziati, contro il 14,1% del nord e il 15,2% del centro[21]».
Le cause dei ritardi sono molte, ma incidono soprattutto la carenza di personale all'interno della PA e la conseguente, eccessiva mole di lavoro. A ciò si lega una diffusa difficoltà, sia da parte degli impiegati che dei dirigenti, a portare a termine gli adempimenti burocratici relativi ai progetti e ad assumersi la responsabilità di procedure che o non si conoscono, o non sono facili da gestire. In tale contesto, diventa ancor più difficile accertare la trasparenza dei processi di affidamento.
La soluzione del governo, allora, è stata quella di diminuire i controlli e le sanzioni e di escludere la Corte dei Conti dal controllo delle operazioni del PNRR e del Piano Nazionale Complementare; prorogare fino al 30 giugno 2024 lo scudo per i dirigenti al fine di scongiurarne la contestazione del danno erariale per colpa grave[22]; limitare l’ammontare economico delle condanne (riducendo i poteri di controllo della magistratura contabile sugli appalti); obbligare i dirigenti pubblici a sottoscrivere un’assicurazione; un maggior uso dei crediti d’imposta, più rapidi rispetto alla realizzazione diretta di opere pubbliche, per l’assegnazione dei finanziamenti. Tutto ciò mentre si tamponano le inefficienze con assunzioni ad hoc per il Pnrr nel pubblico, principalmente a tempo determinato, e con riorganizzazioni interne degli uffici, finalizzate alla gestione e alla realizzazione dei piani e quindi foriere più che altro di un aumento del carico di lavoro degli impiegati.
A parer nostro, per tutelare i lavoratori sarebbe stato meglio intervenire istituendo clausole sociali di salvaguardia e stipulando contratti più favorevoli. Evidentemente però il PNRR è anche il banco di prova di soluzioni forti, che andranno a cadere negativamente sulle condizioni salariali e di contrattazione.
D’altro canto l’idea di garantire ad amministratori e dirigenti pubblici uno scudo quasi totale, che eviterebbe loro ogni accusa e contestazione di colpa grave per danno erariale in caso di un controllo preventivo, fa rabbrividire, perché elimina tutti i controlli successivi della Corte dei Conti, anche su appalti da milioni di euro. Eppure sarà così: il governo ha scelto di rendere più complicati i controlli sugli atti firmati da dirigenti pubblici che abbiano precedentemente richiesto un «controllo preventivo» sugli stessi. Fino a oggi questa procedura era limitata per legge a pochi atti di grande rilevanza, mentre ora verrebbe consentita – per quel che riguarda gli appalti del Pnrr (e non solo) – a tutte le amministrazioni pubbliche, anche quelle locali, e a tutti i «soggetti attuatori», comprese le aziende. Tutti avranno facoltà di chiedere un controllo preventivo sull’atto e, in caso di via libera, non potranno più subire contestazioni per danno erariale per averlo adottato. I tempi concessi ai giudici per rispondere, fra l’altro, vengono dimezzati e se non arriva la risposta vale il silenzio assenso e scatta lo scudo erariale (salvo che per dolo). È facile capire cosa potrebbe succedere: gli uffici della Corte verrebbero subissati di una tale mole di atti, difficile da esaminare puntualmente, e il rischio è quello di dare il «liberi tutti». Per quegli atti che continuano a non poter essere sottoposti al controllo preventivo viene invece estesa a dismisura la cosiddetta «attività consultiva»[23].
Insomma, l’esclusione di responsabilità amministrativa per condotte gravemente colpose e l’eliminazione dei controlli in itinere sull’andamento dei progetti definiscono l’approccio di un governo che, forte di una certa quota di sostegno fra la piccola e media imprenditoria, cerca una sponda politica sicura per poter coprire alcune mancanze e difetti del proprio mandato. Peccato che, così facendo, si spalanchino le porte alle mafie…
Infiltrazioni della criminalità organizzata: l’appetito vien mangiando
Secondo Vincenzo Musacchio, criminologo forense, giurista e saggista di chiara fama, «i controlli in itinere sul Pnrr servono perché così si monitorano i processi di spesa pubblica senza i quali si rischia davvero che il sistema cada nell’illegalità, nella corruzione e nelle mani della criminalità organizzata»[24]. Purtroppo vari decreti dei governi precedenti (Conte e Draghi) hanno gradualmente elevato la soglia di investimento (sino ai 5.000.000 euro) oltre cui non sono necessarie gare d’appalto ed è concesso l’affidamento diretto dei finanziamenti[25]. Il rischio allora «è di rivolgersi, anche inconsapevolmente, alle imprese colluse con la mafia o a quelle che accettino la corruzione facendo aumentare i prezzi, favorendo il lavoro nero e non garantendo né qualità, tantomeno risparmi di tempo»[26]. Secondo Maria Di Mauro, Procuratore aggiunto della Repubblica presso il Tribunale di Napoli Nord, quello dell’infiltrazione della singola impresa mafiosa non è, però, l’unico rischio: «sodalizi delinquenziali, fortemente radicati nel tessuto economico e sociale, [potrebbero essere in grado] di “gestire” direttamente tutte le procedure di aggiudicazione ed esecuzione delle opere realizzate con fondi pubblici»[27].
Ora, è vero che gli investimenti risultano meno efficaci senza un coerente adeguamento amministrativo e normativo, ma tale adeguamento può essere fatto in varie maniere. In questo senso giova presentare ancora una volta l’esempio del capitalismo spagnolo, meno interessato a sfruttare la deregolamentazione dell’attività d’impresa in alcuni settori (alias «mafia») per incrementare i profitti e rendere efficaci gli investimenti.
Un confronto tra Italia e Spagna sul sistema di controllo
Anzitutto, in Spagna il piano di gestione dei fondi è separato dal piano di controllo, in un’ottica di interazione reciproca tra due ambiti mantenuti differenti. Il piano di controllo è basato sull’implementazione (almeno sulla carta) dei meccanismi già in uso presso la P.A, piuttosto che su un loro superamento o «aggiramento». L’indipendenza del potere giudiziario dall’assegnazione e dalla successiva gestione degli investimenti (legislativo ed esecutivo) permette una maggior correttezza (minor spreco di soldi, lavori condotti «a regola d’arte») e linearità nell’applicazione del Pnrr. Ciò in virtù di quattro meccanismi di base:
- monitoraggio dei doppi finanziamenti: l'identificazione, la caratterizzazione e l'assegnazione di progetti o azioni da parte degli enti attuatori e le loro fonti di finanziamento faciliteranno il monitoraggio per evitare il doppio finanziamento;
- analisi dei conflitti di interesse: l'identificazione dei beneficiari delle sovvenzioni negli inviti a presentare proposte e degli aggiudicatari dei contratti faciliterà l'analisi dei conflitti di interesse;
- indagine sulla corruzione: l’dentificazione dei beneficiari delle sovvenzioni negli inviti a presentare proposte e degli aggiudicatari dei contratti fornirà la base per le indagini sulla corruzione;
- controllo delle frodi: la natura completa del sistema, che include informazioni sulla gestione e sui risultati dei progetti e delle azioni, il controllo contabile delle spese sostenute e le informazioni sui bandi e sui contratti attuati, faciliterà l'analisi di potenziali frodi.
Sarà ormai chiaro al lettore quanto detto anche sopra: per un’efficace attuazione degli investimenti serve un piano di assunzioni straordinario a tempo indeterminato nella PA e il miglioramento delle condizioni contrattuali, a partire dagli enti locali, subissati di lavoro per il Pnrr e con la forza lavoro meno pagata di tutto il pubblico impiego. Potrebbe essere la soluzione per arrivare almeno a un servizio completo di informazioni pubbliche sull’avanzamento dei progetti finanziati.
Per completezza citiamo infine un altro fattore – stavolta forse più «tecnico», per così dire – che potrebbe causare ritardi considerevoli: la bassa dimensionalità (e poca esperienza) di molti dei soggetti attuatori, ossia di chi si è aggiudicato l’appalto o se lo è visto affidare, nel caso del pubblico, come piccole imprese, scuole, associazioni, Partite IVA individuali, ecc. Questo è vero nonostante sia comunque forte il ruolo svolto da alcuni grandi soggetti, in primis gli ex-monopoli pubblici (Rfi, Infratel, Anas, ecc.): « i primi cinque soggetti attuatori[28] arrivano a contare per il 18,6%, mentre i primi dieci per il 22,5%»[29].
In conclusione: la borghesia italiana non sembra essere in grado di portare il paese a quella capacità e organicità dell’intervento economico che sarebbero necessarie per ottenere realmente qualcosa dai fondi Pnrr; per far sì, cioè, che non finisca tutto in un po’ di «doping economico», in grado soltanto di attrarre investimenti per qualche tempo e dare così un sollievo momentaneo ai capitalisti nostrani. La consolidata italica strategia di deregolamentazione normativa e di riduzione del costo del lavoro, così necessaria in un paese ad alto tasso di piccole e medie imprese, è la stessa che ha portato alla scomparsa dei piani industriali e all’indebolimento della Pubblica Amministrazione: le competenze per trattare il Pnrr come un piano industriale, anziché come una iniezione di ossigeno, non ci sono e non possono essere formate subitaneamente. In questo contesto, i grandi progetti imprenditoriali italiani tendenzialmente sono o naufragati, oppure hanno campato sui finanziamenti statali, rapinando la popolazione per arraffare quanti più denari possibile (specie se provenienti dalla finanza speculativa). Non esattamente quel che si possa dire essere un’iniziativa coordinata ed efficiente. Purtroppo in Italia abbiamo una classe dirigente arraffona, spregiudicata e arrogante, e il modo in cui verranno usati i fondi Pnrr lo testimonierà.
VI. Note conclusive
La strategia europea descritta dai Flagship programs ruota attorno ad alcune priorità ben definite: il contenimento dei consumi energetici e lo sviluppo di una certa indipendenza dalle fonti estere; l’integrazione economica e l’interconnessione digitale delle varie economie nazionali; l’aumento e il miglioramento (specializzazione) della capacità produttiva.
Gli Ipcei indicano i settori ritenuti basilari per lo sviluppo economico o perlomeno, tra questi, quelli su cui è possibile adottare piani di sviluppo coordinati a livello comunitario: batterie, idrogeno come fonte energetica, microelettronica e connettività (tecnologie per la comunicazione, Cloud computing)[30].
L’Italia, dal canto proprio, si trova a interagire con questa strategia da una posizione di relativa difficoltà, dovuta soprattutto alle problematiche storiche che la nostra economia si trascina appresso da decenni: rispetto ai desiderata dei capitalisti, da noi si produce poco, si investe poco e gli investimenti non rendono bene. Il lavoro è poco specializzato e questo anche per via di un tessuto imprenditoriale fatto di moltissime piccole e medie imprese, poco capaci di innovare[31].
Vedremo nella prossima parte dell’articolo come l’Italia intenda utilizzare i fondi del Pnrr per «dimostrarsi utile» e acquisire un ruolo importante nel processo di ristrutturazione economica continentale. Per ora possiamo soltanto affermare che tali fondi non dovrebbero comportare un livello di indebitamento eccessivo e che ci sono stati concessi secondo modalità tutto sommato convenienti, per quanto non esenti da rischi o aspetti potenzialmente problematici[32].
Preoccupano di più, semmai, le modalità scelte dalla nostra classe dirigente per stimolare gli investimenti privati, che hanno un ruolo necessario e complementare a quelli pubblici del Pnrr. Eliminare le lentezze burocratiche e uniformare le procedure amministrative per la gestione degli investimenti, in Italia, vuol dire diminuire i controlli e facilitare la concessione dei permessi per evitare di rafforzare il sistema amministrativo. Quest’atteggiamento sta portando a ritardi e sospensioni nell’affidamento degli appalti, anche per via delle numerose infiltrazioni della criminalità mafiosa. Un aspetto, quest’ultimo, che ci offre già un indizio sulle difficoltà italiane nello «stare al passo» con gli altri paesi[33].
Note
[1] Soldi pubblici che non vanno restituiti, non sono soggetti a interessi e non vanno garantiti da adeguate coperture finanziarie o di Enti.
[2] Europarlamento, dati del 20/12/2023.
[3] C. Canepa, M. Taddei, Quanto costano davvero i prestiti del Pnrr, «pagella politica», 03/05/2023, https://pagellapolitica.it/articoli/costo-prestiti-pnrr. Ciò testimonia per l’ennesima volta un atteggiamento ingiustificabile da parte del Governo (e di quello precedente), a prescindere da quali siano le cause della mancata pubblicazione. Un Governo che definire «scarsamente consapevole» dei propri oneri e responsabilità nei confronti del rafforzamento dell’ordine democratico-costituzionale equivarrebbe, già oggi, a una colpevole piaggeria.
[4] Regolamento UE 2021/241, art. 22.
[5] Redazione Fiscal Focus, La clausola che rischia di far saltare (e restituire) i fondi del PNRR, in «fiscal focus», 01/07/2021 .
[6] «Quarta economia», a livello di PIL. Sulla base del PIL pro-capite il nostro Paese si trova nella metà inferiore degli Stati dell’UE. Dati 2019, Ragioneria Generale dello Stato.
[7] PNRR #NextGenerationItalia, p. 10.
[8] Ministero dell’Economia e delle Finanze, Decreto 8 giugno 2022, art. 4. I capitoli in questione sono il numero 2226, per la spesa per gli interessi dei prestiti del Pnrr, e il 2246, per i costi amministrativi e di gestione, comunque in capo al Paese destinatario dei fondi.
[9] Ministero dell’Economia e delle Finanze, Decreto di ripartizione in capitoli, pp. 152 e 153.
[10] Ministero dell’Economia e delle Finanze, Nota integrativa al Disegno di Legge di Bilancio per l’anno 2023 e per il triennio 2023 – 2025, 2022.
[11] PNRR #NextGenerationItalia, p. 22.
[12] Esistono infine le riforme d’accompagnamento al Piano, interventi necessari a evitare che, in seguito all’utilizzo dei fondi PNRR, possano sorgere contraddizioni di vario tipo. Interventi di questo genere potrebbero riguardare il regime fiscale, oppure gli ammortizzatori sociali.
[13] «Prevista nell’ordinamento nazionale dal 2009 (con legge n. 99/2009), la legge annuale per il mercato e la concorrenza è stata in concreto adottata solo nel 2017 (legge n. 124/2017)». Tratto da «PNRR #NextGenerationItalia, p. 79».
[14] PNRR #NextGenerationItalia, pp. 80-81.
[15] Ma anche l’intelligenza artificiale, il machine learning, il text mining o l’analisi delle relazioni.
[16] L’Italia, per esempio, è un importante produttore di tecnologie belliche e controlla segmenti importanti di quelle filiere produttive, mentre al contrario nel settore aeronautico non riesce a esprimere appieno le proprie «potenzialità», trovandosi divisa fra poche grandi imprese di punta e una miriade di aziende minori poco dinamiche.
[17] «La strategia dei dati viene monitorata anche durante la sua attuazione, ciò significa che lo stato di avanzamento della realizzazione dei progetti viene registrato quantitativamente». Darp (Deutscher aufbau und resilienzplan), p. 339 (traduzione effettuata tramite applicazione informatica).
[18] L. Rizzo, R. Secomandi, A. Zanardi, Spagna batte Italia «a Pnrr», «lavoce.info», 03/10/2023.
[19] Ufficio Parlamentare di Bilancio, Memoria della Presidente dell’Ufficio parlamentare di bilancio, 05/12/2023, p. 10.
[20] Esiste anche la possibilità che il Governo si trovi a praticare comunque alcuni degli investimenti rinviati, finanziandoli però, a questo punto, coi titoli di Stato anziché con i fondi comunitari.
[21] Ibidem, p. 6.
[22] Stando alle dichiarazioni degli esponenti di maggioranza, infine, le intenzioni sono di estendere la riforma fino a ridefinire il concetto di «colpa grave» e rendere il più possibile permanenti le attuali, nuove misure, che ad oggi sarebbero transitorie.
[23] Oggi riservata ad atti o pareri forniti a regioni e comuni e inerenti alle materie di contabilità pubblica, di bilancio o di ordine generale.
[24] V. Musacchio, Scudo erariale su Pnrr? Rischio aumento corruzione e maggiori infiltrazioni mafiose, «antimafiaduemila», 23/12/2023.
[25] V. Musacchio, Appalti Pnrr, quasi il 90% è affidato senza gara. Le mafie banchettano, «huffpost», 23/10/2023.
[26] Ibidem.
[27] R. Patscot e V. Ricchezza, I fondi del PNRR e le possibili infiltrazioni della criminalità organizzata. Intervista a Maria di Mauro, «unicost», 12/11/2022.
[28] «Primi soggetti attuatori» per valore dei progetti aggiudicati. Agli attuatori spetta poi il compito di selezionare le imprese esecutrici (compreso, nel caso sia un’impresa, il soggetto attuatore stesso).
[29] Ufficio Parlamentare di Bilancio, op. cit., p. 12.
[30] V. Par. II, La strategia della Commissione Europea.
[31] V. Par. I, La situazione dell’economia produttiva italiana.
[32] V. Par. III, I termini e le condizioni del prestito.
[33] V. Parr. IV, Pnrr italiano: obiettivi generali e predisposizione del quadro amministrativo, e V, Pnrr italiano: ritardi nell’utilizzo dei fondi.
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Emiliano Gentili è docente alle scuole medie. Ricercatore politico-sociale (e attivista), esperto di musica e disabilità. I suoi studi attuali si concentrano principalmente attorno al tema dell’evoluzione contemporanea dell’organizzazione del lavoro, nel tentativo di individuare problematiche trasversali ai diversi settori lavorativi.
Federico Giusti è operaio e delegato sindacale della cub. Collabora a varie riviste e blog su tematiche sociali, del lavoro e di carattere internazionale. Corrispondente di RadioGrad.
Stefano Macera svolge la professione di guida turistica. Collabora con varie riviste, applicandosi a 2 campi di ricerca. In ambito socio-politico, si occupa delle nuove forme assunte dal conflitto capitale-lavoro. In ambito socio-culturale, si interessa alle produzioni artistiche e cinematografiche estranee alle logiche di mercato.
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