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Athena, la «racaille» e la cattiva coscienza bianca

Recensione al film di Romain Gavras su Netflix







Un commento sulla pellicola, disponibile nei circuiti della distribuzione di massa, che mette in scena la rabbia irriducibile delle banlieue.



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- Dopo tutto quello che hanno fatto perché non vuoi che bruci tutto?

- Ma stai zitta! Non sai di che parli. È meglio che non bruci tutto! Che non ci sia la guerra...

specialmente qui.

- Ma non lo capisci che è già cominciata la guerra?


Piano sequenza. Interno appartamento. Alle finestre echi e frammenti di uno scontro di piazza.

Che le piattaforme di streaming siano diventate anche ambiti di possibilità per cineasti radicali è ormai un fatto. È una di quelle contraddizioni per cui uno degli strumenti di massificazione e allargamento del mercato finisce poi per offrire spazi di conflitto o di tensione. Bene così, meglio del cinema addomesticato, sofisticato e pudicamente critico che piace alla sinistra.

Ecco allora che si aggiunge alla galleria di quello che, se fossimo critici cinematografici, potremmo a questo punto chiamare nuovo cinema radicale, una pellicola tragica e maestosa: Athena.

Una storia di banlieue che ritorna a girare il dito nella piaga della cattiva coscienza francese.

L’incubo delle periferie urbane e delle classi pericolose, da governare con dispositivi polizieschi che nulla hanno da invidiare a forze d’occupazione, invade e tiene ostaggio l’immaginario democratico (?) francese.

L’immigrato, il musulmano, il teppista, il disoccupato, la famiglia povera, sono gli spettri che agitano le città che fanno capolino dal fondo e rendono ancora più cupe e minacciose le forme di conflitto messe in campo da una classe media cittadina via via sbalzata dalle sue condizioni di vita precedenti e spinta verso i gradini bassi della scala sociale.

Sta tutto lì, tra i casermoni popolari delle citè, in un regno di cemento abitato da black e beurs, da arabi e residuati di una classe operaia autoctona smantellata, il grande terrore della Francia, quello per cui chi è messo al fondo della scala sociale, a far funzionare gli ingranaggi della macchina del capitale con uno scarpone sopra la testa, possa ad un certo punto alzarsi e mandare tutto a carte e quarantotto.

Quanto il tema della banlieue (come territorio, come aggregato di classe, come soggettività e solo e soltanto dopo come quartiere), sia centrale e critico lo dimostra proprio il cinema, che continua a riflettere su questa realtà.

Quella che nelle cronache giornalistiche è una no man’s land, ambiente di abbandono e disperazione, è un luogo abitato da un’umanità con suoi linguaggi e sue volontà, con un crudele carico di oppressione sulle spalle e pertanto con una feroce necessità di strappare la propria dignità dai guanti della polizia. Ed è questo cinema a dargli giustizia, imponendo un’altra narrazione, dura e necessaria. Una narrazione che rimane e non cede al tempo, al contrario dei servizi scandalistici, perché va a toccare ciò che è necessario, ciò che sta al cuore delle cose: dominio e rivolta, sfruttamento e resistenza, gendarmi e subalterni.

Già negli anni Novanta, dopo che le rivolte avevano incendiato le strade e i giornali versato tonnellate di fango, alcuni registi avevano prodotto film di culto come l’intramontabile L’odio di Mathieu Kassovitz, o il quasi dimenticato Ma 6-T va crack-er di Jean-François Richet (entrambi ripescati dalle piattaforme).

In tempi più recenti Les Miserables di Ladj Ly (che troviamo di nuovo come sceneggiatore in Athena) aveva rimesso in scena il truce rapporto che intercorre tra polizia e banlieusard, fatto di abusi e fiammate di rivolta.

Sempre questo è il tema. La polizia, la sua brutalità e discrezionalità assoluta e la conseguente rivolta, con il suo pesante tributo pagato sempre da chi sta in basso. Non potrebbe essere altrimenti. Lo stato governa le colonie col pugno e con la frusta, l’amministrazione del potere, in faccia ai subalterni veste sempre una divisa e impugna un’arma. Questo, se è vero ovunque, lo è tanto di più in una Francia che, dismesso(?) l’impero coloniale, porta dentro i suoi confini quegli stessi corpi dominati d’oltremare e quelle stesse tecniche di disciplinamento.

Al cuore delle cose. Razza e classe, catena e bastone.

Ed ecco che anche Athena, nome fittizio di una banlieue, che contiene in sé l’intento di ricalcare una tragedia greca, non fa eccezione.

È l’omicidio di un adolescente, quasi un bambino, per mano della polizia a dare origine alla vicenda. Non lo conosciamo né vediamo l’accaduto. Tutto è già successo, a sottolineare la banalità e l’onnipresenza della brutalità poliziesca. Uno dei tanti momenti oscuri che costellano la storia di questi territori.

A muoversi in primo piano, sul palcoscenico della periferia, sono i tre fratelli della vittima. Tutti beurs, tre generazioni di ultimi e tre volti del medesimo universo.

Il maggiore, criminale e individualista, connivente della polizia interessato più al proseguire del suo business, che al resto del mondo, tragedia familiare compresa. Figura onnipresente dei contesti (sotto)proletari, agente indiretto della repressione ed elemento automaticamente nemico della propria gente nel momento in cui i nodi vengono al pettine.

Il mediano, musulmano credente e cittadino integrato, militare di carriera, figlio e fratello responsabile. Porta in sé l’elemento di solidarietà e di cura comunitaria che sopperisce alle mancanze del destino, cercando un perenne accesso ad un completo riconoscimento della propria cittadinanza, del proprio essere parte integrante del consesso nazionale. Forze ingenue, destinate a scontrarsi regolarmente con una realtà che fa a meno di loro, che probabilmente li detesta.

Il minore, giovane teppista che vive la banlieue in simbiosi con i suoi coetanei, con cui condivide giornate, passioni e tragedie. Archetipo della racaille, la «feccia» delle strade, personaggio irriducibile, come irriducibile è anche il soggetto di cui veste i panni. E non per un’innata attitudine morale, ma perché è lì che cova la rabbia più profonda, alimentata da un presente incattivito ed un futuro cupo.

E sono infatti i giovani a cercare giustizia e gridare vendetta, innescando la miccia dell’incendio.

Torme di adolescenti si scontrano con i flic (i reparti antisommossa), tute da calcetto diventano divise di battaglia. Il brutalismo architettonico della periferia è trasformato in paesaggio dell’ingovernabilità sotto assedio.

Lunghi piani sequenza e inquadrature plastiche di soggetti collettivi costruiscono una teatralità drammatica ed epica che eleva lo scontro al di sopra della sua dimensione di scandalo mediatico.

Non c’è vittimismo, né morale e non c’è pietà in questo racconto.

La rabbia e la paura, l’islam e la comunità, la legge e l’insubordinazione, sono forze dotate di vita propria, trascendono la volontà dei singoli. Le azioni sono crude e dettate da una logica meccanica che non è nelle mani di nessuno, caso e decisione si intrecciano senza soluzione di continuità e definiscono i destini, tragici, dei personaggi.

Una costruzione che, in fondo, non è poi così lontana dalla realtà.

Legandosi a questa tradizione di cinema ribelle, Athena impone un passaggio di fase, ed è qui la sua importanza fondamentale, perché legge e mette in mostra uno scenario che non sta solo sullo schermo, ma è diventato il nuovo paradigma sociale vigente.

Le rivolte ormai esplodono su di un crinale che corre in discesa, di una società che sempre più stenta a tenere insieme i pezzi di sé stessa.

Le spinte centrifughe per uscire dalla gabbia d’acciaio si scontrano con la crescente ferocia dei custodi di uno status quo in rapida caduta. L’inimicizia assoluta è la norma che si staglia sopra le storie individuali e muove gli attori in campo.

Athena è una tragedia che non parla più di semplici rivolte, e ce lo dice apertamente negli ultimi momenti del film, attraverso i titoli di un notiziario, è l’orizzonte di una guerra civile che viene ad agitarsi dal cemento delle periferie.

Ricordate l’incipit de L’odio, quasi trent’anni fa?

«Questa è la storia di un uomo che cade da un palazzo di cinquanta piani.

Ad ogni piano si ripete: il problema non è la caduta, ma l’atterraggio».

Allora, ci si era appena lanciati.

La gioventù di Athena, oggi, è a un metro dal cemento.


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Jack Orlando, militante autonomo. Autore di No Justice no Peace. Storia militante delle lotte per l'autodeterminazione afroamericana (redstar press, 2019) Epidemia delle Emergenze. Contagio, immaginario, conflitto, con Sandro Moiso (il Galeone, 2021). Redattore di «Carmilla Online», dirige il Radical Bookstore di DeriveApprodi a Roma.

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