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Asja Lacis, l’arte e la rivoluzione





I compagni del Collettivo le Gauche ci consentono di ripubblicare il ritratto di Asja Lacis (1891-1979) apparso sul loro sito. Asja Lacis, lettone, è stata una regista teatrale d’avanguardia, attrice e drammaturga, teorica del teatro e della rivoluzione, militante e femminista ante litteram. È in Russia dopo la Rivoluzione, qui vive l’Ottobre teatrale di Vsevolod Mejerchol’d e Vladimir Majakovskij. Asja Lācis, con il suo pensiero e con la sua azione, ha influenzato intellettuali come Walter Benjamin e Bertolt Brecht.


* * *


Dominare il caos che si è – Tra Nietzsche e Lenin contro i maestri dello scopo

Era una ragazza che amava la letteratura, l’arte, e divorava i libri, che si trattasse di Dostoevskij, Lermontov o Byron. I professori che percepivano la sua passione erano contenti di nutrirla. Ma fu proprio negli anni del ginnasio che Asja Lacis esperì per la prima volta il dolore e il peso dell’ingiustizia e della disuguaglianza sociale per essere, là dentro, l’unica figlia di operai. Le figlie dei nobili, degli industriali e dei grandi latifondisti, che potevano vestire costose uniformi con tessuti di qualità, insultavano e deridevano il grembiulino usurato di Asja. Era perciò ansiosa di respirare altre arie quando nel 1912 lasciò la Lettonia, i colori vivaci della sua Riga, per andare a studiare in Russia a San Pietroburgo, dove all’Istituto psico-neurologico si svolgeva un corso biennale di cultura generale, obbligatorio per ogni facoltà, in cui erano ammesse pure le donne. A quel tempo nell’impero zarista era cosa molto rara l’ammissione del sesso femminile all’università. La direzione dell’Istituto accoglieva e radunava professori e ricercatori di idee progressiste, allontanati dalle università di stato, tra cui si contavano anche studiosi come il bolscevico Mikhail Reissner, il quale promuoveva densi dibattiti tra gli studenti nel suo corso di psicologia criminale.


«Nel corso di uno di questi si discusse il dialogo tra Ivan e il diavolo dal romanzo I fratelli Karamazov di Dostoevskij. Il diavolo espone la sua concezione del futuro: Si deve distruggere nell’umanità l’idea di Dio, affinché possa dominare la natura con l’aiuto della scienza e della volontà. L’uomo deve trasformarsi in Uomo-Dio. E poiché questi riconosce che la vita è soltanto un attimo, amerà il suo prossimo disinteressatamente. […] Attorno a questa tesi si accesero violente discussioni, perché fra gli studenti erano presenti molte tendenze politiche […]» (p. 57).


Ma soprattutto Asja Lacis ricorderà il seminario sul tema «Schopenhauer, Wagner, Nietzsche». Ebbe infatti modo di approfondire lo studio di quest’ultimo, il filosofo tedesco autore del Così parlò Zarathustra che lei aveva già letto al ginnasio, e di cui ora ne poteva studiare un’opera precedente: La gaia scienza. La Lacis e i suoi compagni trovavano pane per i loro denti in quest’opera di distruzione della Morale, dell’idea di Dio e dei suoi surrogati, delle sue “ombre”. Una tagliente critica del finalismo e dell’antropocentrismo. Una filosofia per l’affermazione dell’arte, della gaiezza congiunta al sapere scientifico – un sapere gaio perché consapevole dei propri limiti e finalizzato alla gioia, al riso, all’arte, alla vita vera e felice – contro il moralismo idealista. Contro i profeti di un mondo dietro le cose: i metafisici vecchi e nuovi.


«Ci faceva grande effetto che Nietzsche incitasse a lottare apertamente e senza alcuna pseudo-pietà cristiana per i nostri fini e i nostri ideali. Questa franchezza rude era in violento contrasto con le consuetudini dell’ambiente borghese, in cui parole e fatti divergevano. […] imparammo a conoscere la sua distinzione dei generi dell’arte […] Io ero per il dionisiaco; già al ginnasio mi piacevano le “foglie di vite nei capelli” di Hedda Gabler. Spesso mi sorgevano dei dubbi, ma più dubitavo, più sostenevo il dionisiaco» (p. 57-58).


L’ambiente universitario la portò a immergersi maggiormente nei dibattiti politici, interessandosi a questioni sociali e di genere, alla condizione femminile in Russia e nel mondo, alle rivendicazioni dei movimenti più progressisti. In quelle giornate la giovane Asja si innamorò del teatro.

In Europa, irradiandosi in tutto il mondo, esplodevano numerose le avanguardie artistiche, differenziandosi in diversi paradigmi, accomunati dalla volontà di un’intera generazione di giovani di rompere con tutto ciò che era accademico o tradizionale. Questi nuovi scandalosi movimenti colpivano, dopo la pittura, tutto lo spettro delle arti, compreso il teatro. Anche in Russia, a Pietroburgo, dove i teatri «soffocavano in un’atmosfera di burocratismo e accademismo» era sempre più vivo il fermento di un vasto ambiente teatrale che voleva cercare e sperimentare cose nuove, e per questo colpevole secondo i benpensanti di distruggere l’arte stessa. Le avanguardie artistiche e letterarie nate in quel periodo storico influenzeranno tutto lo sviluppo stilistico dei decenni successivi su scala mondiale.

Emersero sulla scena russa il dottor Dappertutto, ovvero il regista Vsevolod Mejerchol’d, e Vladimir Majakovskij, che in ogni teatro suscitavano lo sgomento dei vecchi conservatori e gli scrosci di applausi dei giovani. Asja Lacis era avvolta in questo entusiasmo, si interessava al teatro, lo studiava, lo frequentava e prendeva parte alle discussioni. Adorava lo sperimentalismo del tanto calunniato e criticato Mejerchol’d, le cui innovazioni nella recitazione, nella scenografia e nelle tecniche lasciarono il segno nella storia del teatro e la cambiarono. Non poteva poi certo perdersi lo spettacolo del primo teatro futurista del mondo (come esso si autoproclamava), con Majakovskij regista e protagonista, il quale aveva costituito la scena sul palco con tendaggi e grossi cartelloni, che divennero poi elementi scenografici molto comuni.


«Il pubblico fischiava e urlava come impazzito: “Majakovskij è un idiota, un pazzo, fermate questo imbroglione! Ridateci i soldi!”. Dalla scena, in perfetta dizione veniva la risposta: “Cretini siete voi!”. Per me lo scherno dell’autosufficienza e dell’autosoddisfazione piccolo-borghese era un sorsata rinfrescante. Più tardi compresi di quanto coraggio dia prova chi se ne infischia delle opinioni universalmente riconosciute» (p. 62)


Asja racconterà nelle sue memorie autobiografiche della felicità, in quei tempi di reazione politica, che in tanti provavano per la


«rivolta di Mejerchol’d e di Majakovskij contro il culto piccolo-borghese della mediocrità, del decoro esteriore e del benessere, della rivolta contro quel sentimentale, ipocrita amore per il prossimo, sotto cui si nasconde uno spietato egoismo» (p. 62).


Ma quel mondo in fermento ovunque venne sconvolto dall’esplosione della gigantesca e allucinante carneficina che fu la prima guerra mondiale. Le fangose trincee d’Europa si farcivano dei corpi degli uomini mandati a morire e a soffrire come cani in una guerra come non se ne erano mai viste, per gli interessi imperialisti delle diverse nazioni.

Nel ’14, con lo scoppio della guerra, la Lacis tornò a Riga in Lettonia, per poi trasferirsi a Orel e infine a Mosca dove si fermò a studiare scienza teatrale. L’invasione tedesca della Lettonia portò molti profughi a Mosca, dove esisteva un ufficio che se ne occupava. Nonostante la guerra, l’ambiente era vivace:


«Le scuole davano recite, concerti, si organizzavano serate per gli intellettuali e così via. Scrittori, pubblicisti e artisti profughi appartenevano a diverse tendenze artistiche e politiche. […] Io lavoravo come maestra in una delle scuole per i profughi. […] di giorno ero maestra, di sera allieva di teatro».

Nel labirintico intreccio di vicoli e strade di Mosca, architettonicamente così diversa da Pietroburgo, e in cui era diversa anche la fertile scena teatrale pullulata di piccoli spazi disseminati in città; Asja ha pure l’occasione di vedere l’arte occidentale di Degas, Gauguin, Monet, Manet, Matisse, Cézanne e soprattutto il Picasso del periodo giallo.

«Mentre sostenevo gli ultimi esami allo studio, a Pietrogrado fu preso il Palazzo d’inverno: i soviet erano al potere» (p. 65)


La Grande guerra aveva messo l’intera Russia in ginocchio, e nel febbraio del 1917 era iniziata la rivoluzione con la costituzione del governo provvisorio di Kerenskij. Ma il governo provvisorio e i menscevichi proseguivano la guerra e sbandieravano il loro cieco patriottismo. Si continuava a morire come mosche nelle fredde trincee russe. Un treno tedesco aveva riportato a casa dall’esilio Lenin insieme a molti suoi compagni. La tempesta rivoluzionaria culminò con la presa del potere dei bolscevichi nell’ottobre e la seguente fuoriuscita della Russia dal conflitto mondiale.


«Da Pietrogrado la rivoluzione balzò verso Mosca […] La sera mentre rincasavo sentivo le palle di fucile fischiarmi sul capo. La rivoluzione stava cambiando i rapporti tra le persone, la concezione del lavoro; si aprivano prospettive completamente nuove».

(p. 66)


Asja fu subito dalla parte dei rivoluzionari: «Quando lessi sui muri delle case i primi appelli «A tutti! A tutti!» firmati da Lenin, fui completamente dalla parte dei soviet» (p. 66).

Le piaceva l’idea alla base dei soviet per cui le cose venivano decise collettivamente da chi poi le avrebbe fatte, dai lavoratori; sia nei singoli nuclei produttivi per pianificare la produzione, sia nella vita politica per amministrare la cosa pubblica e l’economia. Senza divisione tra chi pensa, chi decide e chi fa, in uno spazio di confronto e potere costituito da uguali. Era la prima volta nella storia dell’umanità che una rivoluzione proletaria vinceva prendendo possesso di un intero stato, con l’esplicita intenzione di abbattere il capitalismo per edificare una società senza classi, e lo faceva nella nazione più grande del mondo.

La pace, la sanità e la scuola pubbliche gratuite, la terra ai contadini, la giornata lavorativa di otto ore, uguali diritti tra uomo e donna, legalizzazione dell’aborto, del divorzio, dei metodi contraccettivi, dell’omosessualità, l’abolizione dei titoli e dei privilegi nobiliari, la prima donna ministro nella storia; sono tra le prime riforme e conquiste della rivoluzione il cui motto era «tutto il potere ai soviet!».

Asja però già conosceva i soviet. Era nata nel 1891 nella campagna lettone, col nome Anna Liepina, suo padre era artigiano: faceva il sarto e il sellaio. Lei non aveva giocattoli, passava il tempo a giocare in un angolino dietro il telaio, o a ascoltare fiabe, nella piccola stanza in affitto in cui vivevano. Il padre decise di andare a lavorare in fabbrica e così si trasferirono nella capitale Riga. Fu allora che decise di adottare per sempre il nome Asja, dopo aver letto l’omonimo racconto di Turgenev su questa fanciulla che dichiarò il suo amore a un ragazzo, il quale ebbe paura e fuggì, per poi ripensarci e tornare indietro quando ormai lei era già sparita. Il cognome Lacis è del primo marito Julius Lacis, un drammaturgo, oltre che deputato e ministro, fucilato nel ’41 per attività antisovietica. Con lui ebbe la figlia Dagmara, ma divorziarono subito. Decise comunque di mantenere il cognome Lacis. Nella sua adolescenza a Riga conobbe i soviet: «Mio padre era un operaio di idee progressiste; prese parte alla rivoluzione del 1905 e affidava anche a me volantini da distribuire» (p. 56).


Esercitare la libertà – La rivoluzione e/o il gioco teatrale dei bambini


«Con la rivoluzione tutto iniziava a cambiare, anche l’arte: il teatro irrompeva nella strada e la strada nel teatro. Cominciava l’ottobre teatrale». (p. 66)


Ovunque nelle città russe fiorivano circoli teatrali e artistici, che si esprimevano quotidianamente negli spazi cittadini, cercando il confronto con le persone, con i lavoratori, con le donne, con i reduci. Mejerchol’d fu il primo nel mondo del teatro a schierarsi coi bolscevichi. Nel 1918 Asja Lacis si trasferì a Orel per lavorare come regista al teatro cittadino. Era una persona tanto fantasiosa, e si era già fatta un’immagine della sua carriera teatrale a Orel, in questa giovane Russia sovietica. Ma le cose andarono diversamente da come si aspettava:


«Per le strade di Orel, nelle piazze dei mercati, nei cimiteri, nelle cantine, nelle case distrutte vedevo schiere di bambini abbandonati: i besprisorniki. Fra loro c’erano ragazzi con visi neri, non lavati da mesi; indossavano giacche a brandelli da cui l’ovatta pendeva a ciuffi, calzoni imbottiti larghi e lunghi tenuti su con una corda. Erano armati di bastoni e spranghe di ferro. Andavano sempre in giro a gruppi guidati da un capo e rubavano, rapinavano, uccidevano. In breve, erano bande di teppisti, vittime della guerra mondiale e di quella civile» (p. 67).


Nella Russia post-rivoluzionaria erano circa sette milioni i bambini orfani o abbandonati, vagabondi che vivevano in strada, per lo più organizzandosi in bande criminali. Il governo e le amministrazioni locali tentavano di catturarli e sistemarli nei collegi, ma talvolta venivano semplicemente perseguitati.

Sarà Stalin nel ’35 a decretare l’inizio della liquidazione del fenomeno non solo con le fucilazioni dei besprisorniki con più di dodici anni, ma anche con l’eliminazione dei libri che avevano provato a descrivere il tutto.

Invece negli ospizi municipali e negli orfanotrofi stavano gli orfani di guerra, curati e assistiti. Eppure


«si guardavano intorno come vecchi: occhi stanchi, tristi, nulla li interessava. Bambini senza infanzia… Non si poteva rimanere indifferenti davanti a quello spettacolo, dovevo fare qualcosa e capii subito che non sarebbero bastate le canzoncine e i balletti. Per ridestarli dal loro letargo occorreva un impegno che li coinvolgesse totalmente e che riuscisse a liberare le loro facoltà traumatizzate. E io sapevo quale forza prodigiosa fosse racchiusa nel gioco teatrale» (p. 67).


Si mise d’accordo con il responsabile dell’Istruzione popolare della città, e fu così che mise a disposizione la bella casa aristocratica dove viveva per accogliere i bambini e creare lì con loro un laboratorio di teatro per ragazzi. «Avevamo calcolato che sarebbero venuti quindici bambini: ne arrivarono cento» (p. 68). Asja Lacis pensa a un teatro di bambini come esperimento di estetica pedagogica non autoritario, che nella pratica del gioco teatrale sviluppa coscienza critica nei ragazzi e riattiva quelle energie espressive depotenziate dalla miseria e dai traumi.


«Certo sarebbe stato semplice trovare un brano adatto, assegnare le parti e provare fino ad arrivare alla rappresentazione. Questo avrebbe certamente occupato i bambini per un periodo di tempo, ma la loro evoluzione difficilmente ne sarebbe stata stimolata. Quando si prova con i bambini un dato testo, si lavora fin dall’inizio per una meta precisa: la prima rappresentazione. I bambini avvertono incessantemente una volontà estranea che li guida e li costringe: la volontà del regista. Per questa strada non avrei potuto raggiungere il mio scopo, che era la loro educazione estetica, lo sviluppo delle loro facoltà artistiche e morali. Io volevo che il loro occhio vedesse meglio, che il loro orecchio udisse più finemente, che le loro mani formassero dal materiale informe degli oggetti utili» (p. 68).


L’attività teatrale dei bambini non era quindi indirizzata dall’inizio alla fine alla recita pensata e diretta dal regista adulto. Il gioco teatrale si svolgeva come esercizio, non in vista della rappresentazione, ma come esercizio collettivo per conoscere i corpi, aumentarne la potenza, le capacità, e farlo divertendosi, con delle regole, migliorando il proprio umore nel gruppo, per stare meglio ed essere meglio, esprimersi meglio, col corpo e col linguaggio, collettivamente.

La Lacis ripartì il lavoro in sezioni: disegno e pittura per sviluppare l’occhio insieme alla riproduzione manuale, esercitandosi al rigore necessario per il disegno dal vero. Un pianista guidava l’educazione musicale. Nella sezione tecnica si costruivano oggetti, edifici, animali, scoprendo nuovi materiali e usando la fantasia. Altre sezioni erano dedicate alla ginnastica, alla padronanza del corpo, al ritmo, alla dizione e all’improvvisazione. La mattina e la sera i bambini venivano portati fuori, nel giardino, per continuare il lavoro sull’osservazione: «e facevamo notare loro come i colori mutassero a seconda della distanza e dell’ora del giorno, come di mattina e di sera suoni e rumori risuonassero diversamente, e come il silenzio possa cantare…» (p. 69).


«La società borghese pretende dai suoi membri che producano merci il più rapidamente possibile, e questo principio si palesa nell’educazione dei bambini in tutti i suoi aspetti. Se, per esempio, questi bambini giocano al teatro, hanno sempre il risultato davanti agli occhi: la rappresentazione, l’apparizione davanti al pubblico. Così va perduta la gioia del produrre giocando» (p. 69).


Asja cercava i besprisorniki, voleva ottenere la loro fiducia e coinvolgerli nel laboratorio teatrale, perché vedeva nella loro violenta vitalità un continuo infrangere il patto sociale e le regole vigenti. Un elemento con una forte carica espressiva e sovversiva, un soggetto sociale incapace di omologarsi alle norme della convivenza piccolo-borghese. Queste bande di orfani teppisti erano la comunità in cui scorgeva la possibilità di un teatro come prassi emancipatrice, liberatoria, come esercizio collettivo e politico di creazione, di espressione, per il benessere psico-fisico del gruppo, per la crescita e l’educazione dei singoli. Non li cercava per ammirare la bellezza o la spontaneità di questo particolare sottoproletariato, ma per aiutarli: aiutarli a vivere meglio e a potenziare al massimo la loro vitalità eversiva, la loro intelligenza, la loro creatività, per liberare le facoltà traumatizzate da una quotidianità scandita dalla miseria nera. Farlo nel gioco teatrale, insieme, relazionandosi, confrontandosi, aiutandosi, per far vivere ai bambini «la gioia del produrre giocando».

I suoi primi incontri con i besprisorniki furono deludenti ma non mollò:


«li invitai a venire da noi, mi schernirono, mi minacciarono con i bastoni e mi mandarono a quel paese. Ma io ritornai. Si abituarono a me e ai nostri battibecchi, tanto che se non mi facevo vedere per un po’ e poi tornavo, mi si facevano intorno urlando come con una vecchia conoscenza» (p. 70).

Intanto nella casa-laboratorio il lavoro proseguiva a meraviglia. Dopo un po’ di tempo i bambini iniziarono a chiedere di «materializzare in oggetti la fantasia e le capacità acquisite. Una tappa importante: questo bisogno doveva essere soddisfatto, la fantasia infantile non deve andare perduta; passammo quindi all’improvvisazione con materiali concreti.» Asja scelse un pezzo per bambini di Mejerchol’d, cioè Alinur (tratto dalla fiaba di Oscar Wilde Il ragazzo delle stelle). Senza che i ragazzi conoscessero i suoi piani, gli affidò l’esercizio di improvvisare una scena tratta da questo lavoro. Nella scena in questione alcuni briganti stavano attorno a un fuoco nella foresta a vantarsi delle loro imprese. Fu in quel momento che ricevettero la prima visita dei besprisorniki:


«I bambini saltarono in piedi e volevano scappare via da quegli invasori, che effettivamente avevano un aspetto temibile: elmi di carta sul capo, corazze di rami e latta, picche e bastoni in mano. Convinsi i bambini a continuare l’improvvisazione senza prestare attenzione agli intrusi. Dopo un po’ Vanika, il capo dei besprisorniki, entrò nel cerchio di quelli che recitavano e fece un segno al suo gruppo: i compagni spinsero da parte i bambini e cominciarono a recitare essi stessi la scena. Si vantavano di assassinii, incendi, ruberie, con cui cercavano di superarsi a vicenda in crudeltà; poi si alzarono e squadrarono con disprezzo i nostri ragazzi: “Ecco come sono i briganti!” secondo tutte le regole pedagogiche avrei dovuto interrompere i loro discorsi selvaggi e impudenti, ma io volevo riuscire a conquistare un ascendente su di loro. Infatti vinsi la partita; i besprisorniki ritornarono e presero in seguito parte attiva al nostro teatro». (p. 71).


Il gruppo era ora più numeroso. Lavorarono seriamente allo spettacolo ed emerse il desiderio di mostrare il lavoro anche a tutti gli altri bambini della città. Così fissarono una data e


«la rappresentazione pubblica si trasformò in una festa. I bambini del nostro studio si avviarono in una specie di corteo carnevalesco al teatro all’aperto della città. Portavano con sé, cantando per le strade, gli animali, le maschere, gli accessori e le scene» (p. 71).


Si unirono a questo corteo tante persone, spettatori piccoli e grandi, cantando e danzando.

Senza aver mai approfondito né il pensiero di Leonardo Da Vinci né di Spinoza; Asja Lacis era comunque arrivata a concepire l’arte come generatore di realtà virtuale in cui la scienza può interfacciarsi per progredire, e l’immaginazione come forma di conoscenza potenzialmente potentissima. I bambini erano cresciuti nel gioco e gli educatori con loro, stupendosi di tutto ciò che non avevano previsto, alimentando la formulazione teorica tratta dall’esperimento. Questo all’interno della dimensione teatrale per bambini, per gli orfani e i besprisorniki, per aiutarli a recuperare vitalità e a gioire collettivamente nel gioco creativo e liberatorio, oltre che educativo. Quindi una dimensione politica di maturazione di un soggetto rivoluzionario.

«Il teatro irrompeva nella strada e la strada nel teatro»

Questa grande esperienza del laboratorio teatrale per bambini del 1918-19 sarà la base di quello che dal 1924 in poi Asja Lacis e Walter Benjamin teorizzeranno insieme nel loro Programma per un teatro proletario di bambini. In realtà il programma venne definitivamente steso nel ’28 quando Asja ne parlò con R. Becher e G. Eisler, che erano intenzionati a ricreare quel tipo di teatro nella Karl-Liebknecht-Haus.


Esplorare le lotte – Le avanguardie, i caffè, i teatri e la sinistra culturale europea

Questioni personali riportarono Asja a Riga nel 1920, dove poté dare il proprio aiuto al Partito comunista clandestino. Accettò di creare e dirigere un teatro-studio per i giovani lavoratori che frequentavano l’università popolare, dove i comunisti erano forti. Diede vita a un teatro costruttivista dove alle improvvisazioni dei giovani lavoratori e alle lezioni, andavano ad assistere i sindacati di sinistra del luogo. Il tutto aveva una forte connotazione politica. Spesso si esibivano in strada e in piazza. Erano molti gli arresti e le perquisizioni. Alcuni scrittori e lavoratori rivoluzionari rinchiusi nel carcere di Riga vennero fucilati, e Asja Lacis organizzò in piazza uno spettacolo di protesta sul tema del carcere e delle fucilazioni, vennero tutti arrestati e imprigionati. Questo periodo della carriera di Asja venne successivamente definito come quello del «teatro perseguitato».

Nel 1922 per sfuggire alla dura repressione del regime bianco in Lettonia, Asja Lacis scappò in Germania; a Berlino il partito era legale. Lì conobbe e visse con Aleksej Tolstoj, Boris Pilnjak, Aleksej Rèmizov, Andrej Belyj e altri con cui iniziò a vivere la vita culturale notturna della Berlino degli anni venti:


«Passavamo per un infinità di vicoli sconnessi, salivamo una scala nel buio pesto. A un segnale la porta veniva aperta. Entravamo allora in un mondo di fiaba con alberi, fiori e donne seminude; faceva molto caldo e aleggiava un profumo di giacinto» (p. 82).

Aleksej Tolstoj organizzava continue spedizioni nei teatri di Berlino, popolati da esperienze «varie e multiforme», come le definiva Asja. Rimase profondamente segnata dalla scoperta di questo mondo, le cui venature rivoluzionarie erano in quel momento sul punto di scoppiare.

Nei caffè e nei teatri di Berlino frequentava Fritz Lang e Bernhard Reich, conosciuti nella casa berlinese della stella del cinema Maria Leiko. Tutti le domandavano sempre della Russia, del teatro russo, di Stanislavskij, del teatro da camera, di Mejerchol’d, Tàirov, dell’ottobre teatrale e del suo anticonformismo a cui avevano dato forma Nicholai Evreinov e Vladimir Majakovskij.

Asja e Reich si trasferirono a Monaco dove inaugurò da subito la sua grande amicizia con Bertolt Brecht. Passavano intere giornate a parlare e discutere, lui le chiedeva della rivoluzione, lei le parlava del femminismo della Kollontaj e della Larissa Reissner. Lui la coinvolse come assistente nella sua preparazione della Vita di Edoardo II d’Inghilterra, con l’incarico di provare le scene di massa, e successivamente come attrice nei panni del giovane principe Edoardo.


«Brecht rappresentava un caso particolare fra la gente di teatro. Esteriormente non aveva nulla dell’“artista”: portava un abito sportivo grigio senza cravatta e mai un vero cappello, ma un berretto con la visiera […] Quando Brecht chiese per me un contratto alla direzione del Teatro da camera di Monaco, ne ebbe un rifiuto categorico: “Una comunista nel nostro teatro, impossibile!”. Brecht rimase inamovibile e diede un ultimatum: rischiava non poco. La direzione cedette, ma immediatamente dopo la prima fui espulsa da Monaco» (p. 86).


Andò a vivere in una modesta abitazione in Baviera, dove due anni prima era stato stroncato nel sangue il governo consiliarista, e gli operai che non avevano perso speranze si riunivano per farsi raccontare da lei la vita nella Russia sovietica. Brecht e la moglie Helene Weigel riuscirono a farle avere un permesso di soggiorno a Monaco, dove tornò. L’amicizia tra i due era intensa e lei ricorderà nelle sue memorie la delicatezza e la dolcezza di lui. E in quell’ambiente denso delle avanguardie teatrali cresceva la figlia Dagmara.

Bert Brecht (come si faceva chiamare) si serviva di scenografie semplici, prive di sfarzi, e gli stessi costumi degli attori protagonisti erano di semplice tela di sacco. Questo perché riversava grande concentrazione nella raffinazione della gestualità, con la sua caratteristica precisione professionale: poteva far ripetere un gesto all’infinito se gli sembrava importante.


«[…] rimaneva tuttavia sempre cortese e paziente, non era mai sgarbato con gli attori secondari. Voleva che in ogni gesto fosse espresso l’intero carattere; plasmava dialogo e verso diversamente da come gli attori erano abituati: voleva far perdere loro il vizio dell’approssimazione, della nebulisità, della generalizzazione. Era già l’inizio del linguaggio gestuale. Per gli attori lavorare con lui era difficile, perché Brecht proponeva sempre qualcosa di nuovo e consegnava foglietti con battute diverse perfino durante la prova generale. Ma la sua forza creativa li travolgeva e lavoravano con interesse e pazienza» (p. 85).

Il teatro espressionista del giovane Brecht, fresco delle frequentazioni a Zurigo con i primi dadaisti Tristan Tzara e Hans Arp, si rivelò l’interlocutore perfetto per Asja Lacis.


Dai muri di Napoli – Asja ingegnere dell’avanguardia

La piccola Dagmara si era ammalata di polmonite e i medici consigliarono un soggiorno a Capri, dove madre e figlia si trasferirono insieme a Reich. Lì Asja frequentava Filippo Tommaso Marinetti, Maksim Gor’kij, Sofia Krilenko, Theodor Adorno, Ernst Bloch, Siegfried Kracauer, Alfred Sohn-Rethel, Melchior Lechter, Friedrich Gundolf. Presto anche Bertolt Brecht e la moglie li raggiunsero per andare a visitare Pompei, Positano, Sorrento e Napoli.

Proprio a Napoli strinse la più importante, profonda e intima delle amicizie, mentre era con la piccola «Daga» al mercato:


«volevo comprare delle mandorle, ma non sapevo come si chiamassero in italiano e il venditore non capiva che cosa volessi da lui. Si fermò accanto a me un uomo che disse: “Posso aiutarla, signora?”. “Con piacere”, risposi. Ebbi le mandorle e me ne andai col mio pacchetto attraverso la piazza. Il signore mi seguì e mi chiese: “Posso accompagnarla e portarle il pacchetto?”. Lo guardai attentamente. Continuò: “Permetta che mi presenti: dottor Walter Benjamin”» (p. 89).


In quel periodo, in quell’ambiente frequentato da Asja, si troveranno ad incrociarsi molte delle personalità culturalmente più influenti del ventesimo secolo per l’occidente. Il soggiorno a Capri e a Napoli segnerà le rispettive prospettive delle diverse correnti presenti.

Asja e Benjamin passarono i mesi seguenti insieme, visitando le città italiane, discutendo continuamente sui più svariati argomenti, divenendo sempre più intimi e affezionati.

Scrissero insieme l’articolo Napoli, pubblicato sulla «Frankfurter Zeitung» del 9 agosto 1925, nel cui testo si sviluppa una riflessione sulla teatralità della vita quotidiana il cui palco scenico è l’architettura urbana, i muri decorati e imbrattati delle strade, gli animali randagi. Il testo si compone di immagini-pensiero che rendono la teatralità antropologica partenopea, dove gli autori vedono la resistenza di un popolo povero e oppresso. Tanti anni dopo i curatori delle opere di Benjamin e della prima edizione degli Scritti completi, ovvero Theodor Adorno, sua moglie e Gershom Scholem; decideranno di rimuovere il nome di Asja Lacis come coautrice dell’articolo.

Nel 1925 la Lacis è a Parigi, dove la sera nel cielo rosa scompaiono le sagome degli alti palazzi moderni, e a pancia piena prende forma un mondo notturno molto variopinto. Asja racconta del costoso divertimento del quartiere di Montmartre, e poi del più economico quartiere bohème di Montparnasse, «quartiere degli studenti, degli artisti e delle prostitute»; i cui locali hanno le pareti tappezzate di disegni di Braque e Picasso. Racconta dei teatri parigini, delle tante tipologie diverse di teatro che offrivano, le analizza una ad una con osservazioni e giudizi personali. Racconta con scherno di quelle ricche donne parigine che vestivano ogni sera l’alta moda del momento solo per fare da controfigura al marito o per sperare di sfuggirgli.

Asja e Benjamin si trasferirono a Berlino, e insieme visitarono mezza Germania:


«Partimmo, invece, per nave verso Amburgo […] Ricordo un caffè in cui c’era un’arena dove cavalcava una donna nuda imbellettata di rosa. C’era odore di stalla. Gli imprenditori del divertimento sapevano bene che è più facile estrarre l’oro dalle tasche degli uomini che dai fiumi» (p. 93).

È Asja Lacis a far incontrare per la prima volta Benjamin e Brecht, che iniziarono così la loro amicizia e un loro dialogo intellettuale.

Tra gli argomenti di discussione delle giornate di Asja e Walter Benjamin ne riporto qui uno centrale:


«Spesso si svolgeva tra di noi un dialogo di questo genere: “Tu sei colto, sei intelligente, hai una specializzazione, eppure non hai una base economica.” Walter taceva e io continuavo: “A Riga anche a me andava male economicamente: perché? Perché lottavo contro lo Stato borghese, altrimenti avrei potuto guadagnare molto denaro. Ma da che parte stai tu, campione della cultura? Tuo fratello è nel Partito comunista! Perché tu no?”. Walter diceva: “Eh già, per te è tutto facile!” Disse perfino: “Tu sei come un cavallo con i paraocchi: vedi soltanto davanti a te e la strada ti sembra dritta. Per me è più difficile, più complicato, io debbo ancora pensare a molte cose”. Benjamin non entrò mai nel Partito comunista, ma cercò il contatto con i comunisti e frequentò manifestazioni della Lega degli scrittori proletari» (p. 95).


Sarà proprio Asja Lacis a destare in Benjamin un serio interesse per la politica, offrendogli ciò che egli stesso definirà «una profonda consapevolezza dell’attualità del comunismo radicale». Asja ha il carisma per illuminare a Walter Benjamin la necessità di una trasformazione sociale profonda, che trova ragione nella comprensione scientifica delle relazioni strutturali motrici del capitalismo studiate dal marxismo.


«Benjamin nel complesso adesso era legato più intensamente, più strettamente, con la prassi, con la terra. […] Mi accompagnava quasi sempre alle manifestazioni pubbliche della Lega degli scrittori proletari nelle sale popolari […] Erano manifestazioni straordinarie, grandiose; specialmente quando Erich Weinert declamava le sue poesie, l’intera sala era elettrizzata dal suo pathos rivoluzionario. I comunisti e i loro simpatizzanti erano convinti che presto in Germania la rivoluzione proletaria sarebbe scoppiata e avrebbe avuto la meglio» [1] (p. 103).


«Questa strada si chiama/VIA ASJA LACIS/dal nome di colei che/DA INGEGNERE/l’ha aperta dentro l’autore». Così Walter Benjamin apriva Strada a senso unico, dedicando l’opera alla giovane donna che come un ingegnere aveva aperto in lui quella strada.

Benjamin tenterà di divorziare dalla moglie per sposare Asja, anche per permetterle di prolungare il permesso di soggiorno, ma il tentativo fallisce. Negli anni seguenti Asja Lacis viaggerà molto tra Lettonia e Russia, impegnandosi ovunque in progetti teatrali o cinematografici. Come a Mosca, dove le venne concessa la direzione di una colonia estiva per bambini a Solkoniki. Lì in Russia sia Brecht che Benjamin (e altri amici) andarono più volte a trovarla. Ma era anche un periodo in cui per anni Asja soffrì di gravi esaurimenti nervosi e seri crolli psicologici. Durante uno di questi Benjamin riuscì a farla curare nella clinica di un neurologo a Francoforte, dove lui strinse i rapporti con Adorno.


«A Königstein in una località di villeggiatura sui monti Taunus, si formò intorno a Benjamin e Adorno un piccolo gruppo. Riuniti a un tavolo dello “Schweizerhäuschen”, Benjamin, Lacis, Adorno, Gretel Karplus e Max Horkheimer si immergevano in discussioni […] Queste “conversazioni di Königstein” lasciarono tracce nel pensiero di tutti i partecipanti e contribuirono a plasmare quella che divenne nota come Scuola per la ricerca sociale di Francoforte» (p. 35).


Asja partecipa a queste discussioni, tessendo una compenetrazione tra il suo pensiero e la storia della Scuola di Francoforte ormai non più solo limitata al suo rapporto personale con molti dei membri dell’ambiente della Scuola. D’altra parte possiamo vedere pure le divergenze di Asja rispetto alla Scuola di Francoforte e rintracciare un’affinità col suo pensiero anche in varie altre prospettive di ricerca (di cui la Scuola era solo una) che vivificavano nuove elaborazioni teoriche mai intraviste dalle mortifere ortodossie di partito. Se non ci sono noti chiari e netti giudizi della Lacis sulla successiva produzione teorica della Scuola, sappiamo però bene dell’antipatia che Adorno, Bloch e Kracauer provavano nei confronti di Asja fin dai tempi di Capri. Le componenti politiche e personali di questa discordia verso Asja Lacis sono chiaramente intrecciate e difficilmente indagabili. Sicuramente l’approccio più pratico con cui lei viveva la spazializzazione teorica, tipico di chi impegna attivamente la propria esistenza per le cose in cui crede, già la separavano dal modus vivendi di alcuni di questi intellettuali.

Comunque di certo non era e non resterà mai estranea a certi temi:


«Friedrich Wolf, parlando a Mosca della situazione politica che caratterizzava la Germania alla fine degli anni venti, evidenziava già al tempo come una grande attenzione dovesse incentrarsi sulla psicologia della piccola borghesia e sulla sua disponibilità al fascismo […] Nel frattempo Walter aveva studiato a fondo la teoria letteraria marxista, allora molto influenzata da Plechanov e dagli studiosi sovietici […] Egli riteneva però che nella realtà i fattori si presentano spesso in combinazioni assolutamente particolari, uniche: e di questo la metodologia di Plechanov non teneva conto. Arrivò al punto fondamentale: “L’odierna storia della letteratura marxista individua le concezioni filosofiche, la posizione politica dello scrittore, il ruolo politico dell’opera, ma si comporta con troppa indifferenza nei confronti dell’analisi e della valutazione degli aspetti estetici e poetici dell’opera.” Discussi accanitamente con lui […] In seguito ho capito che aveva ragione, poiché aveva individuato il difetto di molti critici d’allora: la sociologia volgarizzata» (p. 105).


Arte nella rivoluzione – La fredda ombra della restaurazione

Mentre la Lacis lavorava a Riga o a Mosca, Benjamin andava a trovarla di sorpresa:


«A Walter Benjamin piaceva molto la mia incapacità di nascondere sentimenti e impressioni, che esprimevo impulsivamente, e cercava perciò spesso di farmi delle sorprese» (p. 107).

Intanto il dipartimento di Mosca per l’istruzione popolare acconsentì alla sua idea di organizzare un cinema per ragazzi. Lavorò a questo progetto con Nadežda Krupskaja, rivoluzionaria, pedagogista e moglie del defunto Lenin; ridotta a figurina di contorno dell’immagine nazionale dal regime stalinista. Anche in questa occasione Asja cercò e ottenne, nonostante le iniziali difficoltà, il contatto con i besprisorniki, riuscendo a coinvolgerli e a regalargli una normalità diversa dalla strada e dal crimine.

Nel 1928 la Lacis tornò a Berlino, dove ritrovò Brecht, Benjamin e Becher. Quest’ultimo le organizzò una conferenza sulla drammaturgia sovietica contemporanea, in cui lei parlò dettagliatamente di Višnèvskij, Glebov, Bill’-Belocerkovskij, il teatro politico, gli autori della RAPP (l’Associazione russa degli scrittori proletari). Dato il grande successo della conferenza decisero di ripeterla in una grande sala, per i disoccupati. Ma durante la relazione Asja venne interrotta dagli uomini delle SA (le Sturmabteilungil, il primo gruppo paramilitare del partito nazista), che entrarono gridando «Via l’agitatrice rossa!» Comunque la conferenza venne al tempo pubblicata su una rivista, e voglio citarne dei passi significativi:


«In Occidente si ha questa idea: nella Russia sovietica è stata istituita la dittatura degli operai e dei contadini; ogni scrittore di cui vengano rese pubbliche le opere sotto questa dittatura, siano esse libri o rappresentazioni teatrali, è quindi ideologicamente a favore del proletariato. […] Nulla è più errato di questa interpretazione. È un dato di fatto che in un paese, in un sistema sociale, in cui domina la lotta di classe – e l’URSS è un paese del genere, e la dittatura del proletariato è un sistema del genere – essa deve trovare, e trova, espressione nelle diverse ideologie in lotta tra loro all’interno delle opere artistiche. Per questa ragione letteratura sovietica non equivale a letteratura proletaria e a letteratura rivoluzionaria, bensì a letteratura russa nata sotto il segno della più aspra lotta di classe» (p. 109).


Asja qui e altrove mostra tutta la sua consapevolezza riguardo l’ardua impresa di sviluppare il socialismo in Urss, e della permanenza in quel momento di interessi contrapposti, di nuove classi sociali contrapposte, che generavano nella società effetti divergenti. Ma questo non leniva minimamente la sua fiducia nel bolscevismo, forse anche perché ancora non si era resa conto della gravità della situazione.

Con gli anni trenta le avanguardie e lo spirito culturale degli anni venti erano definitivamente morti, e in Urss nel mondo artistico si imponeva sempre più il realismo socialista. Nei primi anni del nuovo decennio Asja sarà impegnata in un progetto cinematografico in Russia, col suo amico Erwin Piscator, iniziatore e teorico del teatro Agitprop in Germania.

Nel ’36 Stalin cambia la costituzione leninista del ‘18 con una nuova, dove si proclama la già avvenuta realizzazione del comunismo e spariscono molti elementi centrali nella teorizzazione comunista dei bolscevichi tra cui l’estinzione dello stato come obiettivo del socialismo, la rotazione dei ruoli e altri strumenti democratici. Negli anni si era forgiata un’intellighenzia tecnica, espressamente richiesta dal segretario generale del partito, atta a far arrivare, rispettare e applicare i piani statali nelle fabbriche; piani economici quinquennali compilati da un pugno di tecnici.

Nuovi decreti governativi stabilivano il licenziamento per un solo giorno d’assenza non giustificata, intanto si proclamava abolita la disoccupazione e quindi il sussidio di disoccupazione con essa; e chi perdeva il lavoro veniva privato della carta annonaria che gli dava l’alloggio nelle case della fabbrica in caso non ne avesse uno proprio. Fu creato il commissariato agli affari interni (NKVD) che aveva il potere di gestire tutte le istituzioni detentive e correttive (prigioni, luoghi di isolamento, colonie di correzione, campi di lavoro forzato). Esso non era altro che un appendice di un partito sempre più tutt’uno con lo stato burocratico e militarizzato. La produzione veniva concretamente amministrata dall’alto da individui tanto lontani dagli uomini e dalle donne rivoluzionarie del ‘17 tanto quanto Napoleone era stato lontano dai sanculotti. Gli operai erano da anni separati dai mezzi di produzione, proprietà di uno stato gerarchico che escludeva loro dalla gestione pianificata, diretta e democratica del lavoro. I mezzi di produzione erano effettivamente proprietà privata dello stato sovietico, lanciato con violenza tirannica verso la consolidazione di un capitalismo di stato mascherato da comunismo. Nel ’36 scoppia la guerra civile in Spagna. Stalin e il partito vedono la possibilità di un posto al sole in Europa, l’Armata Rossa si allea con le forze repubblicane e col PCE (il Partito Comunista di Spagna, di tendenza stalinista), senza mai risparmiare piombo e bombe per i rivoluzionari del POUM (Partito Operaio di Unificazione Marxista) e del CNT-FAI (Confederazione Nazionale del Lavoro-Federazione Anarchica Iberica); a vantaggio della reazione fascista dei falangisti. Alla fine degli anni trenta in Urss vennero definitivamente eliminati i sindacati, che come i soviet erano da tempo ben lontani dall’essere uno strumento politico operaio.

Per gli stranieri divenne più difficile andare in Russia, e la relazione tra Asja e Benjamin divenne solo epistolare. Iniziarono le purghe, la vecchia guardia del partito finiva sotto terra, e anche molti amici di Asja del mondo culturale russo venivano inquisiti. Majakovskij, il grande vate della rivoluzione, si era già suicidato nel 1930. Anche Asja Lacis venne arrestata dal KGB, imbastendo contro lei un processo farsa, e nel 1938 venne spedita in Kazakistan, prigioniera in un campo di lavoro. Ci rimase per dieci anni.

Sappiamo pochissimo sul periodo della sua prigionia, ma di certo si sa che creò un collettivo teatrale femminile dentro al campo, nonostante le durissime condizioni fisiche del lavoro e della repressione. Dieci anni sono molto tempo. Nel 1948 viene liberata e mandata a vivere a Valmiera, lontana dal centro della società, dove diresse un piccolo teatro locale. Riprese i contatti con Friedrich Wolf, con Brecht e con Reich. Chiese a Bertolt Brecht notizie di Walter Benjamin, lui rispose «Benjamin è morto». Sulla scoperta da parte di Asja Lacis del suicidio di Benjamin per sfuggire ai nazisti, e sul tornado di emozioni che questo scagliò su di lei, Roser Amills ha scritto il romanzo Asja Lacis, amor de direccion unica [2], dove viene romanzata la vita della donna che aveva fatto innamorare Walter Benjamin. Nelle ultime lettere scambiate tra Asja e Walter, tra le varie cose, spiccano conversazioni sul pensiero e le teorie dello psicologo e pensatore russo Lev Vygotskij, il grande padre della scuola storico-culturale; della cui opera si è iniziato un recupero critico solo negli anni ottanta. Nel 1956 muore anche Brecht, stroncato da un infarto dopo mesi di malattia, aveva 58 anni.

Nel 1958 Asja Lacis andò in pensione e si dedicò alla stesura delle sue memorie, sposò Bernard Reich (anche lui processato durante le purghe), e scrisse il suo libro autobiografico Revolutionär im beruf, pubblicato nel 1976 in Italia col titolo Professione: rivoluzionaria [3]; con un saggio di Eugenia Casini-Ropa e prefazione di Fabrizio Cruciani. Negli anni settanta Asja e Reich, nella loro casa a Riga, crearono un punto d’incontro e dialogo per moltissimi giovani artisti, non solo sovietici. Asja Lacis si spense nel novembre del 1979 all’età di 88 anni.


Epilogo e conclusioni – Corpi emancipati nell’ombra di Narciso; l’attualità di Asja Lacis

Un pensiero della creazione e dell’affermazione, è quello che emerge dalla storia di Asja Lacis. Una filosofia della vita. L’idea di libertà come esercizio di liberazione, dove la potenza dei corpi può essere conosciuta solo facendone esperienza, nella lotta emancipatrice e nella pratica artistica. Così la giovane Asja nel biennio ‘18-‘19, nella sperimentazione con i bambini segnati dalla storia, tracciava una prospettiva attualissima.

Al centro di tutto stava il gioco immaginativo del teatro. L’immaginazione prosegue per immagini quali stati mentali naturalmente correlati con le tracce prodotte nelle relazioni causali tra corpi affetti. L’immaginazione è cognitio ex signis, prima articolazione spontanea e produttiva tra informazione e soggetto interprete. Questa forma di conoscenza inadeguata tratta il segno come indice da concatenare ad altri segni derivati dalle esperienze ed inferenze già trattate. L’esempio classico consiste nel vedere il segno di uno zoccolo sul fango, che va poi ad associarsi al proprio complesso schema signico di ordine mnemonico e che, a seconda della propria esperienza, va a immaginare e connotare il presunto ungulato artefice dell’impronta come cavallo impiegato nel lavoro agricolo piuttosto che nello sport o nella guerra. In tal concatenamento si forma un ordine interpretativo, che fa dell’immaginazione una spada di Damocle: è potenzialmente virtuosa, come potenzialmente dannosa. È dannosa quando si confonde l’interpretazione con la dimostrazione. Diviene fortemente virtuosa quando si ha chiara coscienza della non esistenza degli oggetti immaginati.

Così l’immaginazione diventa costitutiva nella costruzione di esercizi di pensiero, collettivi nel caso teatrale, in cui sorgono universi paralleli condivisi e plasmati dai bambini immersi nel gioco della recitazione e dell’improvvisazione di storie. Una dimensione di fantasiosa finzione artistica che, se da un lato è liberatrice e costruttiva, educatrice e non disgregante o traumatica; dall’altro si pone come interfaccia per un’analisi scientifica da parte di un osservatore (mai realmente esterno). È esattamente per questo che oggi ci interessa leggere un libro su Asja Lacis: ci porta l’esperienza e le idee di una donna che ha posto come virtù dell’arte non la capacità di restituire un’immagine fedele e mimetica di un qualsiasi modello, come fa uno specchio, bensì quella di produrre una rappresentazione compatibile con una realtà potenzialmente esperibile da un qualsiasi utente. Una produzione espressionista che non necessità di meno rigoroso allenamento alle giuste tecniche di quanto non ne serva alla rappresentazione mimetica; anzi Asja faceva esercitare i bambini proprio al rigore del disegno dal vero, per renderli capaci poi di sviluppare altro grazie a questo esercizio. Nella Lacis sulla scia dell’arte post-impressionista, dell’espressionismo, dei Fauves e poi delle avanguardie europee e russe; è recuperato un realismo diverso, non mimetico o fenomenologico, ma costruttivista, che nel teatro dà espressione alla realtà interiore dei bambini e mette in mostra possibili configurazioni reali; ampliando l’esperienza visiva e cognitiva dei partecipanti e degli spettatori. Un teatro didattico, che prima di essere prova per l’apparizione finale davanti alla platea è soprattutto costante pratica creativa e emancipatrice di gruppo per il gruppo. Un teatro politico. Nel laboratorio teatrale per bambini di Asja Lacis l’arte e i suoi piccoli attori diventano un generatore di realtà virtuale, da cui trae materiale l’elaborazione teorica necessaria ad una pratica demistificante e liberatoria che già vive nel gioco teatrale dei besprisorniki.


«L’arte non è fine a sé stessa, ma aiuta a raggiungere i più alti obiettivi dell’umanità. In questo senso, il socialismo e l’arte devono andare di pari passo. La creazione artistica, come diceva Andrej Belyj, assomiglia alla “fabbricazione di esplosivi […].” Questa nuova vita si collegherà con l’arte. Allora arte e vita diventeranno tutt’uno. La vita è creativa, fluisce sempre; la vita è dinamica. L’arte fa parte di questo movimento e se inizia a fermarsi si sclerotizza» (p. 125).


Questo è forse il lascito più attuale di una donna rivoluzionaria che visse un secolo fa, in un mondo molto diverso dal nostro. Un lascito che si somma alle sue numerose riflessioni sulle questioni di genere, ai suoi scritti sulla drammaturgia russa, sulle condizioni dei lavoratori in Lettonia, sul comunismo e sulla rivoluzione. Va ricostruendosi una vita che supera costantemente le proprie formulazioni con la propria esperienza diretta, piena di debolezze e insieme di grandi vicissitudini.

Negli anni sessanta e durante la contestazione del ’68, la Lacis divenne punto di riferimento per alcuni gruppi di giovani in diverse nazioni, soprattutto nella scena teatrale tedesca dove spiccava il drammaturgo Heiner Müller, molto interessato al lavoro di Asja. L’ultima apparizione di Asja Lacis di cui siamo a conoscenza è un intervento del 1973 al convegno «Teatro in esilio» alla Akademie der Künste di Berlino Ovest. Negli anni novanta esce Asja. La vita avventurosa della regista Anna Lacis, un triste libro di memorie della figlia Dagmara, dove essa dà libero sfogo alla sua privata esperienza con la madre; scrivendo il libro nello stile di un best-seller americano. Emerge una figura di donna e madre avventuriera, incosciente, libertina, sessualmente emancipata e irresponsabile nei confronti della figlia.

Ma la vita di Asja Lacis sta venendo man mano riscoperta davvero solo negli ultimi anni. La sua dolce anarchia, la sua profondità teorica, la sua forte attualità su diversi fronti; sono già contenuti espressi nel nuovo libro Asja Lacis L’agitatrice rossa, Teatro, femminismo, arte e rivoluzione [4], curato da Andris Brinkmanis, edito da Maltemi editore per la collana Georchivi, dove è raccolta e ordinata una foltissima selezione di scritti teorici e autobiografici di Asja, preceduti da due testi introduttivi di Andris Brinkmanis e Eugenia Casini-Ropa. Soprattutto a quest’ultima si deve la riscoperta di Asja Lacis in Italia. È un libro che ci restituisce l’opera di una donna poco conosciuta, che oggi in un ottica di edificazione e approfondimento di nuove inedite elaborazioni critiche interdisciplinari inscritte nella prospettiva aperta da Marx e altri, ci è utile in questo arricchimento trasversale e (per dirla con Gramsci) per portare questo pensiero «all’altezza dei tempi». Un libro che per primo in Italia accompagna i lettori verso una riscoperta integrale dell’intera vita di Asja Lacis. La riscoperta del suo elaborato pensiero, in cui da sempre per Asja «Nella lotta, l’arte deve diventare strumento e alleato.»



Note

[1] Si sente chiaramente qui la traccia degli studi nietzschiani della giovane Asja Lacis: «Vi scongiuro, fratelli, restate fedeli alla terra, e non credete a coloro quali vi parlano di sovraterrene speranze! Essi sono degli avvelenatori, che lo sappiano o no. Sono spregiatori della vita, moribondi ed essi stessi avvelenati, dei quali la terra è stanca: se ne vadano pure!» (Friedrich Nietzsche. Proemio di Zarathustra – §3). Un rimando dunque ad un certo tipo di realismo anti metafisico, teorizzatore di un unico piano di immanenza. [2] R. Amillas, Asja. Amor de direccion unica, Comanegra, 2017 [3] A. Lacis, Professione rivoluzionaria, Feltrinelli, Milano 1976 [4] A. Lacis, L’agitatrice rossa, Teatro, femminismo, arte e rivoluzione, cura di Andreis Brinkmanis, Maltemi, Sesto San Giovanni 2021



Riferimenti bibliografici

- A. Lacis, L’agitatrice rossa, Teatro, femminismo, arte e rivoluzione, a cura di Andreis Brinkmanis, Maltemi, Sesto San Giovanni 2021.

- L. Vinciguerra, La semiotica di Spinoza, Edizioni ETS, Pisa 2012.

- R. Dunayevskaya, Marxismo e libertà, dal 1776 a oggi, La nuova Italia, Firenze 1958

- F. Nietzsche, La gaia scienza. Seconda edizione (1887), Einaudi, Torino 1979

- R. Lupacchini, Nella mente della natura, la scienza della luce e la dottrina delle ombre, Edizioni ETS, Pisa 2020


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