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Appunti per un neoliberalismo dai margini



Utilizzando in particolare le analisi di Quinn Slobodian e Melinda Cooper, Luca Villaggi riflette sulla natura del progetto neoliberale. Lo fa riattraversando criticamente la riflessione di Karl Polanyi, i rischi di un certo conservatorismo o nostalgia a cui possono condurre: infatti, se mercato e capitale sono concepiti come forze essenzialmente disgreganti della vita sociale, la resistenza viene immaginata in termini di restaurazione, o al massimo di rinnovamento, di quelle proprietà e di quelle solidarietà sociali che il capitalismo tende a distruggere. Secondo l’autore, approfondire i modi con i quali il neoliberalismo ha cercato di «disciplinare i margini» e di ricostruire una società profondamente diseguale, differenziata e gerarchica, rappresenta un compito imprescindibile per la riflessione critica.


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Le riflessioni che seguono sono state sollecitate da Globalists. The End of Empire and the Birth of Neoliberalism di Quinn Slobodian e Family Values. Between Neoliberalism and the New Social Conservatism di Melinda Cooper, dei quali si è tentato di individuare una chiave di lettura comune. Da un lato abbiamo un volume che si propone di enfatizzare la natura antidemocratica e neocoloniale del progetto neoliberale, dall’altro lato abbiamo un testo che sottolinea la perturbante affinità elettiva del pensiero neoliberale con il neoconservatorismo sociale. Da una parte, vi è la rigorosa ricostruzione della prospettiva globale che il neoliberalismo dell’Europa centrale e continentale assume fin dalla propria origine, e dall’altra parte incontriamo un’analisi della convergenza che unisce i neoliberali statunitensi con una variegata costellazione di conservatori sociali nel tentativo di risolvere la crisi della famiglia fordista.

Ciò che le riflessioni di Quinn Slobodian (2018) e di Melinda Cooper (2017), solo apparentemente distanti fra loro, offrono, è una genealogia del neoliberalismo più complessa rispetto alle letture neo-polanyiane che, in modo estremamente schematico e semplificato, tendono a interpretare il fenomeno neoliberale nei termini di un nuovo progetto di liberazione delle forze del mercato dal controllo dello Stato e della società. Il limite principale insito in tali letture, a cui i lavori di Cooper e Slobodian contribuiscono a porre rimedio, è l’assenza di una analisi dei modi in cui la neoliberalizzazione, del welfare, dei rapporti di lavoro, delle politiche pubbliche, si sia innestata su società già profondamente diseguali e gerarchizzate lungo gli assi del genere, della razza e della classe. In particolare, Cooper e Slobodian mostrano efficacemente come il pensiero neoliberale, nelle sue varie sfaccettature interne, sia stato modellato in reazione ad una serie di grandi movimenti sociali che interessavano i margini del capitalismo industriale del secondo dopoguerra.


Il doppio movimento nel pensiero di Karl Polanyi

Ma partiamo dall’inizio; l’inizio non può che essere l’opera di Karl Polanyi, e soprattutto la specifica congiuntura storica in cui prende corpo la sua riflessione. Come è noto, Karl Polanyi conclude La grande trasformazione nel 1944, e il suo pensiero può essere letto come un tentativo di dare conto delle cause che portarono all’avvento del nazismo, del fascismo e dei totalitarismi novecenteschi, e più nello specifico, come una precoce teoria generale dello Stato sociale, che aveva già conosciuto un primo momento di sperimentazione con il New Deal di Roosevelt, e che nei decenni successivi si sarebbe diffuso in Europa attraverso le variegate esperienze del welfare state postbellico e, negli Stati Uniti, avrebbe conosciuto un ulteriore approfondimento attraverso il progetto della Big Society di Johnson.

Per Polanyi, il secondo conflitto mondiale testimonia in modo irreversibile il fallimento del capitalismo liberale ottocentesco e di ciò che definisce il fondamentalismo del mercato. La sua tesi afferma che le economie di mercato dipendono sempre da una serie di presupposti metaeconomici, che i rapporti di mercato sono embedded, incorporati in un contesto sociale, culturale e istituzionale che li mette in forma, e vede nel liberalismo moderno il tentativo di sradicare il sistema di mercato da questa cornice e di realizzare l’utopia di un mercato «libero» dallo Stato e dalla società, in grado di autoregolarsi. Secondo Polanyi, questo movimento di mercificazione mette alla prova le stesse premesse da cui dipende l’economia di mercato, scatenando in sua resistenza un contromovimento di protezione della società. Egli si concentra soprattutto su quelle che chiama merci fittizie; lavoro, terra e moneta sono i supporti di ogni sistema economico, che il capitalismo del laissez-faire include progressivamente nei circuiti dello scambio disgregando il tessuto sociale e, in ultima analisi, la stessa capacità di funzionamento del mercato.

A questi effetti distruttivi si contrappone necessariamente un principio di protezione sociale, che pone una serie di limiti al mercato e contribuisce a stabilizzare la vita sociale. Il fascismo del Ventesimo secolo era quindi una conseguenza, di matrice indubbiamente conservatrice, reazionaria e violenta, dell’esasperazione dei legami sociali provocata dall’espansione del libero mercato, e l’alternativa dipinta da Karl Polanyi prefigurava le istituzioni del welfare state socialdemocratico che si sarebbero sviluppate nei decenni successivi.


Da embedment a encasement

Nonostante facesse riferimento a una congiuntura storica e politica ben precisa, il pensiero di Polanyi è stato ampiamente convocato negli ultimi anni per interpretare il neoliberalismo, letto essenzialmente come un progetto di smantellamento delle forme di interventismo e di protezione statale che avevano controllato il mercato fino agli anni Settanta e Ottanta, e di rilancio dell’originaria utopia liberale. A lato di questo recupero lineare, altre prospettive hanno tentato di espandere la riflessione polanyiana, e di includere tra i presupposti extraeconomici del capitalismo ambiti quali la natura non umana e la sfera della riproduzione sociale, spazi eminenti delle crisi contemporanee, come fatto recentemente da Nancy Fraser e Rahel Jaeggi nel corso della loro recente conversazione congiunta (2019).

In ogni caso, le lezioni seminali di Michel Foucault al Collège de France (2005) chiariscono come il pensiero neoliberale abbia fin dalla propria origine un’impronta fortemente costruttivista e produttiva e non meramente negativa e distruttiva, e il testo di Quinn Slobodian (2018) interroga precisamente questo tema. In riferimento al contesto europeo, mostra come gli ordoliberali fossero contemporanei di Polanyi, stessero assistendo ai medesimi avvenimenti storici da lui osservati, e fossero consapevoli della crisi delle forme precedenti del capitalismo e del pensiero liberale. In particolare, il pensiero dell’ordoliberalismo si pone esso stesso il problema di intervenire sulle condizioni metaeconomiche del mercato, ma per proteggerlo, e non per promuovere forme di giustizia e sicurezza sociale in modo coerente con la visione polanyiana.

Slobodian si concentra soprattutto sull’idea hayekiana della costituzione economica; secondo il filone ordoliberale, il mercato non è un’entità naturale che deve essere liberata da ogni vincolo esterno, ma richiede piuttosto la creazione di un ordinamento statale, istituzionale, legale e giuridico finalizzato a produrre e a preservare le dinamiche di concorrenza. In particolare, Slobodian opera uno spostamento terminologico e suggerisce di passare dal concetto di embedment a quello di encasement, per indicare come il neoliberalismo non tenda tanto a liberare, ma piuttosto a rivestire il mercato, a progettare e costruire un ordine finalizzato a isolare e mettere al riparo l’economia di mercato da una serie di minacce e di rotture che si manifestarono nel corso del Ventesimo secolo.


Globalizzare l’ordoliberalismo

L’analisi di Sblobodian qualifica e complica ulteriormente le comprensioni ampiamente consolidate del pensiero neoliberale. Innanzitutto, mostra come il neoliberalismo sia caratterizzato fin dalla sua nascita da una vocazione globale, e aggiunge alla classica suddivisione tra ordoliberalismo tedesco e neoliberismo americano una terza corrente; la scuola di Ginevra, che definisce come ordoglobalista. Fondamentalmente, la scuola di Ginevra proietta il tema della costituzione economica, quindi di un ordine istituzionale e giuridico teso a governare e difendere il mercato, su una scala sovranazionale. Secondo tale linea di pensiero, il mondo del capitalismo è un mondo raddoppiato, un mondo duplice, scisso tra un’economia di mercato globale e una moltitudine di Stati-nazione. Il suo obiettivo è la costruzione di un sistema di governance e di istituzioni globali in grado di mantenere un equilibrio tra questi due mondi, vale a dire racchiudere e salvaguardare un’economia capitalistica e di mercato, che secondo la corrente ordoglobalista non può che essere mondiale, e limitare e isolare le opposizioni e le interferenze provenienti dai governi nazionali, dalle richieste democratiche, dalle pressioni per la giustizia sociale e la redistribuzione economica.

Slobodian ricostruisce, con una analisi storiografica enormemente accurata, il protagonismo giocato dai membri della scuola di Ginevra nella definizione di una serie di strutture che hanno plasmato il mondo contemporaneo, come Wto, Icc, Eec. Ma da dove viene l’esigenza della progettazione di un quadro istituzionale, legale e giuridico internazionale finalizzato a sostenere, proteggere e riparare il mercato globale? Slobodian non esita ad affermare che il pensiero ordoglobalista prende atto della fine dell’epoca imperiale e coloniale, si confronta con le rivendicazioni di autodeterminazione nazionale espresse dal vecchio mondo delle colonie e precisa la propria idea che, nel mondo dopo la fine dell’Impero, gli Stati-nazione debbano restare incorporati all’interno di un ordine sovranazionale che preservi, a livello globale, il primato del capitale e della concorrenza di mercato.

Il punto di vista ordoglobalista sulla storia del Ventesimo secolo coglie un processo di espansione mondiale della democrazia, che occorre limitare e vincolare, e che si articola in tre momenti fondamentali; la Prima guerra mondiale, con il conseguente crollo degli imperi dell’Europa centrale e orientale, la «grande depressione» degli anni Trenta, con l’esperimento del New Deal che si sarebbe in seguito diffuso nel mondo occidentale attraverso l’esperienza del welfare state, e il processo di decolonizzazione del Sud globale, che non solo sfidò dai margini le gerarchie allora vigenti nel sistema mondiale, ma tentò anche di articolare un progetto di redistribuzione economica e regolazione del capitalismo all’interno dello Stato dello sviluppo sintetizzabile come un’equivalente dello Stato sociale democratico al di là dell’Occidente (Mezzadra – Neilson 2020).

Globalists di Quinn Sblobodian è un testo importante che invita a riformulare la genealogia del neoliberalismo tenendo a mente questo progetto di un ordine globale, ma soprattutto suggerisce di provincializzare la nostra ricostruzione del pensiero neoliberale andando oltre i confini europei (Chakrabarty 2004) e di porre attenzione al modo in cui la riorganizzazione del mondo contemporaneo sia stata modellata dal tentativo di disciplinare le istanze anticoloniali che provenivano dai margini degli imperi globali in via di dissoluzione.


Quanti sono i movimenti del capitale?

Family values di Melinda Cooper (2017) compie un’operazione simile e, anche in questo caso, il confronto con Karl Polanyi è un punto di partenza obbligato. Cooper non esista a individuare un certo conservatorismo cui rischiano di condurre le analisi polanyiane; se mercato e capitale sono concepiti come forze essenzialmente disgreganti della vita sociale, la resistenza viene immaginata in termini di restaurazione, o al massimo di rinnovamento, di quelle proprietà e di quelle solidarietà sociali che il capitalismo tende a distruggere. Inoltre, lo stesso Polanyi, pur prefigurandosi lo Stato redistributivo e socialdemocratico, esprime una forte nostalgia verso la terra, la comunità e la famiglia, in quanto fattori essenziali di coesione sociale.

Quelle di Cooper sono osservazioni per certi versi contigue alla riformulazione avanzata da Nancy Fraser dello schema polanyiano nei termini di un triplo movimento (2013), aggiungendo alla dialettica tra mercificazione e protezione sociale un terzo polo, quello della emancipazione e proponendo di riscrivere la storia del capitalismo esaminando le molteplici modalità con cui gli assi di oppressione sociale fondati su razza, genere e sessualità si sono assemblati con le strutture di protezione societaria e con i processi di espansione del mercato e dello sfruttamento. Per di più Cooper, attingendo direttamente alle riflessioni marxiane, ritiene che un doppio movimento agisca anche all’interno delle dinamiche del capitale. Non solo perché, come ipotizzato dallo stesso Polanyi, le forme di protezionismo sociale che rispondono agli effetti disgreganti del «libero» mercato sono necessarie per tutelare il funzionamento complessivo del capitalismo, ma soprattutto perché esiste un doppio movimento interno alle logiche del capitale, che tende sicuramente a superare e sconvolgere tutti i limiti e i vincoli esterni posti alla valorizzazione e all’accumulazione, ma allo stesso tempo tende a ristabilire altri limiti, e in particolare a ripristinare e rinnovare una serie di valori e di istituzioni tradizionali, come la razza, la nazione e la famiglia, per regolare la distribuzione e l’appropriazione privata della ricchezza sociale.

Si potrebbe vedere una dinamica simile a quella che Gilles Deleuze e Félix Guattari hanno teorizzato attraverso la nozione di assiomatica del capitale (2017), riferendosi alle modalità con le quali le eccedenze vengono catturate e ricodificate ai fini di un allargamento dei confini della mercificazione e dell’accrescimento continuo del valore. Ciò che si può sottolineare, è che gli elementi di tradizione e di conservazione sociale che riemergono e vengono riaffermati non restano «intatti», ma sono costantemente reinventati e modificati dalle trasformazioni strutturali del capitalismo.


Oltre la crisi della famiglia fordista

Le osservazioni su Polanyi riportate servono a Melinda Cooper per inquadrare una questione ben precisa; il neoliberalismo, a partire dagli anni Settanta, inizia a interessarsi alla crisi della famiglia. Va detto che l’analisi di Cooper è circoscritta alla politica statunitense, e soprattutto all’alleanza tra il neoliberalismo americano e il neconservatorismo sociale – di fatto, alla peculiare coalizione che ha influenzato in modo significativo la politica americana a partire dall’amministrazione di Ronald Reagan – e tuttavia, la questione della famiglia tradizionale sembra essere centrale nello sviluppo del neoliberalismo anche in altri contesti. Secondo Cooper, questa alleanza non si limita a criticare lo Stato sociale del secondo dopoguerra, ma si pone soprattutto l’obiettivo di rispondere ai movimenti di liberazione degli anni Sessanta e Settanta che misero in crisi, «dal basso», uno specifico istituto del welfare fordista, il salario famigliare.

La questione della riproduzione della forza lavoro è utile per comprendere meglio questo punto (Federici 2020). Come è noto, il marxismo e la teoria critica hanno ampiamente descritto in che misura la valorizzazione e l’accumulazione del capitale dipendano dallo sfruttamento della forza lavoro. Il fatto è che la forza lavoro è racchiusa nel corpo del suo portatore o della sua portatrice, ed è questa corporeità che i movimenti femministi e antirazzisti degli anni Settanta contribuiscono a politicizzare; se si tratta di un corpo maschile o di un corpo femminile, di un corpo bianco, asiatico o africanoamericano, la questione cambia significativamente, in termini di regimi di lavoro e di sfruttamento della forza lavoro. Ma soprattutto, i corpi si sviluppano nel corso del tempo, sono fragili, vulnerabili, ed esprimono una serie di bisogni fisici, affettivi, sociali. Si può definire lavoro riproduttivo tutto quel lavoro che si prende cura di questa dimensione bisognosa e vulnerabile della corporeità. Per quanto riguarda la riproduzione sociale, il welfare fordista presentava una contraddizione irrisolvibile; da un lato, socializzava parte della riproduzione della forza lavoro, che era fornita essenzialmente dal servizio pubblico – istruzione, sanità, edilizia popolare, previdenza sociale, e così via – ma dall’altro lato dipendeva da un’enorme quantità di lavoro domestico gratuito, femminilizzato, non riconosciuto socialmente (Federici 2014).

È in questo senso che si può sostenere che nei sistemi di sicurezza e protezione sociale del secondo dopoguerra fossero radicati e incorporati elementi gerarchici e di conservatorismo sociale; il welfare state fordista era fondato sull’istituto del salario famigliare e della correlata divisione sessuale e razziale del lavoro. Cooper sintetizza così tale ordine: il lavoratore capofamiglia bianco che attraverso il lavoro salariato guadagnava un reddito abbastanza elevato per mantenere l’intera famiglia e accedeva ai sistemi di assicurazione sociale, le donne costrette a svolgere il lavoro domestico e di cura all’interno del nucleo familiare in forma non retribuita e subalterna, mentre gli uomini afroamericani erano esclusi dal pieno godimento del salario famigliare fordista e le donne afroamericane e razzializzate spesso lavoravano a basso salario presso le famiglie bianche di classe medio-alta.


Un neoliberalismo dai margini?

Secondo Melinda Cooper, è precisamente la combinazione di protezionismo sociale con alcuni tratti gerarchici, autoritari, disciplinari che aveva connotato il welfare fordista a venire messa in discussione dai movimenti di liberazione degli anni Sessanta e Settanta, animati da quei soggetti che non potevano trovare una risposta completa all’interno della mediazione costituzionale e welfaristica novecentesca. Cooper precisa come tali istanze non mettessero in questione il sistema di welfare in quanto tale, ma piuttosto rivendicassero un’espansione delle politiche di redistribuzione e sicurezza sociale che fosse sganciata dalla normatività sessuale, razziale e di genere prescritta dall’istituto del salario famigliare fordista. La convergenza tra i neoliberali statunitensi e i neoconservatori sociali in una certa misura riesce a recepire e capovolgere di segno queste trasformazioni, e prova a reagire alla crisi restaurando e reinventando la famiglia tradizionale, nella duplice prospettiva di scaricarvi una mole crescente delle funzioni di welfare e di sicurezza socioeconomica in via di smantellamento, e di sfruttare contestualmente i margini che si erano liberati per creare ed espandere nuovi mercati.

Per concludere, i ragionamenti incrociati di Melinda Cooper e Quinn Slobodian mostrano come nella fase neoliberale ci sia in gioco molto di più di una dialettica tra Stato e mercato o di una rivoluzione «dall’alto» contro il patto sociale del secondo dopoguerra, e intimano di prendere sul serio la reazione condotta contro i movimenti che hanno contestato la divisione geografica tra «libero» lavoro salariato, con il suo correlato di diritti e garanzie conquistati dalle lotte operaie, e lavoro servile e coatto nelle colonie, e la separazione tra lavoro produttivo, collocato al centro della cittadinanza sociale, e lavoro riproduttivo e domestico. Approfondire i modi con i quali il neoliberalismo ha cercato di disciplinare i margini e di ricostruire una società profondamente diseguale, differenziata e gerarchica, rappresenta un compito imprescindibile per la riflessione critica.


Bibliografia

D. Chakrabarty, Provincializzare l’Europa, Meltemi, Milano 2004.

M. Cooper, Family Values. Between Neoliberalism and the New Social Conservatism, Zone Books, Princeton 2017.

G. Deleuze – F. Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, Orthotes, Salerno 2017.

S. Federici, Il punto zero della rivoluzione. Lavoro domestico, riproduzione e lotta femminista, ombre corte, Verona 2014.

S. Federici, Genere e capitale. Per una lettura femminista di Marx, DeriveApprodi, Roma 2020.

M. Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979), Feltrinelli, Milano 2005.

N. Fraser A triple movement?, «New Left Review», 81, 2013, pp. 119-132.

N. Fraser – R. Jaeggi, Capitalismo. Una conversazione sulla teoria critica, Meltemi, Milano 2019.

S. Mezzadra – B. Neilson, Operazioni del capitale. Capitalismo contemporaneo tra sfruttamento ed estrazione, Manifestolibri, Roma 2020.

K. Polanyi, La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca, Einaudi, Torino 2010.

Q. Slobodian Globalists. The End of Empire and the Birth of Neoliberalism, Harvard University Press, Cambridge 2018.


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