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Alma e Fania. Mala ed Edek

Da Auschwitz e Birkenau bolle di storia e di memoria


La più grande macchina della morte mai progettata e costruita dall’uomo racchiude ancora nel suo racconto fuori da ogni tempo la traccia di passioni, sentimenti e speranze che cercavano di sopravvivere tra le pieghe del Nulla.


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La cittadina polacca di Oświęcim dista meno di sessanta chilometri da Cracovia, ed è da qualche anno diventata, pandemie e congiunture particolari di questi mesi a parte, una delle mete di viaggio più importanti dell’intera nazione. La località offre tutto ciò che occorre ai visitatori: centri di accoglienza con bagni e punti di ristoro, negozi di souvenir, ristoranti sbrigativi, persino una pizzeria «italiana» con insegna ben visibile. Questo perché in tutta Europa, se non in tutto il mondo, Oświęcim è meglio conosciuta e ricordata con il suo nome tedesco: Auschwitz. Del complesso di campi di concentramento e di sterminio conosciuti con questo nome, a ridosso del centro abitato sorge lo Stammlager, il campo principale. Che accoglie le numerose comitive provenienti da tutta Europa con le sue ricostruzioni storicamente più o meno attendibili, come un crematorio assemblato a guerra finita e un’annessa grande «camera a gas» che forse non è mai stata usata come tale. Gli allestimenti degli stessi padiglioni del lager, intitolati alle nazionalità a cui i reclusi e i deportati appartenevano, oggi appaiono troppo «d’epoca» e spesso non privi di retorica. Il «memoriale» italiano, del Blocco 21, ora dismesso, è stato per esempio un vero modello di supponenza formalistica, pur essendo opera collettiva di autori e artisti come Primo Levi e Ludovico di Belgioioso (entrambi qui deportati), Luigi Nono, Mario Samonà. Lo stesso padiglione ebraico, il più drammatico per i reperti che contiene, come i celebri ammassi di occhiali, di valige, di scarpe, di stoviglie di latta e di alluminio, non riesce a non sconcertare coloro che conservano il ricordo di foto in apparenza casuali, e che invece si trovano di fronte a vere e proprie bacheche da museo. Non a caso qui parlano di «Collezioni storiche», un termine davvero inappropriato e fuori luogo. A tre chilometri dalla città, nel sobborgo di Brzezinka, si trova invece il campo di Auschwitz II – Birkenau. A Birkenau, lo dico senza timore di retorica, pochissimo si è travisato di ciò che qui è avvenuto tra l’ottobre del 1941 e il 27 gennaio del 1945. Nella sua immensa solitudine, nel vuoto di ciò che è stato distrutto (i crematori e la maggior parte degli oltre trecento «blocchi» di cui rimangono eretti come spettri i soli camini in muratura) ma anche nel pieno dei pochi edifici e delle poche costruzioni rimaste (la Quarantine; il Krankenbau e alcune baracche delle tre sezioni femminili; la Scuola, con i suoi struggenti graffiti infantili; il Messico, parte del campo mai entrato in funzione; soprattutto il basso edificio dell’ingresso, sormontato dalla torretta, e le tre banchine ferroviarie della bahnrampe) il lager mostra ancora di essere ciò che è stato: la più grande «macchina della morte» mai progettata e costruita dall’uomo. Di questa funzione assoluta, Birkenau continua ancora a impersonare la scena del suo ormai lontano «presente». Questa terribile immediatezza è una sensazione sempre molto forte, che rende inutile qualsiasi spiegazione da guida turistica: credo di aver fatto personale esperienza di ciò nel corso delle tre visite che ho potuto rendere, negli anni passati, a questo luogo. Molto, moltissimo è stato detto e scritto, su Birkenau. Parole nobili e riflessioni importanti in molti casi. Ma che qui non servono. Qui ogni formula celebrativa, ogni discorso – ogni preghiera, persino, Qaddish o Requiem - suona inutile e senza senso. Qui, in un tempo sospeso che non ha trovato la redenzione del diventare passato, è viva una memoria che parte dai gesti più umilianti del sopravvivere, momenti «normali» della più feroce quotidianità – rimanere immobili, tenere gli occhi bassi, tremare, piegarsi sotto il peso della fatica, crollare sotto le percosse. E arriva quasi sempre all’altra «normalità» del Campo, quella del morire in pochi minuti – non più di venti o trenta, quanti ne occorrevano per marciare incolonnati dalla bahnrampe dell’arrivo e della selezione fino al Krematorium III, il più grande ed efficiente. Tra queste due polarità, le bolle di un ‘infinito presente’, spesso impensabili e sconcertanti, ma che molto contribuiscono a rendere incomprensibile certo, ma ancora ben scandito e ben percepibile il «tempo senza tempo» di cui ho cercato di parlare: come il bordello del campo e le sue complesse regole burocratiche; come i giardini fioriti e la pacchiana eleganza tutta trine e merletti della casa del Comandante, appena fuori le recinzioni; come le partite di calcio tra le guardie e il Sonderkommando dei detenuti addetti ai crematori, apparente complicità che non impedì la rivolta del 7 ottobre 1944. Come due storie a loro modo esemplari, certo non le sole ma nelle quali vale la pena di cercare, anche senza poterli trovare, più profondi motivi di riflessione, oltre che sulla storia, anche sulla singolarità del destino e sui paradossi delle passioni, dei sentimenti, delle speranze che anche nelle condizioni più estreme, anche sull’orlo della catastrofe continuano ad alimentare le sorti umane. Intanto, quella di Alma Rosè, di Fania Fènelon e dell’orchestra femminie di Birkenau, la Mädchenorchester, creata nella primavera del 1943 per ordine della SS-Oberaufseherin Maria Mandel, responsabile della sezione femminile del campo. Di essa facevano parte giovani detenute di diverse nazionalità, professioniste alcune in campo musicale, altre semplici dilettanti. Il suo ruolo principale era quello di suonare al cancello del campo quando le squadre di lavoro uscivano o rientravano. Veniva impiegata anche nel cerimoniale nelle rare visite di delegazioni ufficiali, e nel fine settimana allietava i momenti di svago e le grandi bevute delle SS e degli altri militari del campo. Diretta dapprima da un’insegnante di musica polacca, Zofia Czajkowska, aveva un repertorio molto limitato, marce militari tedesche e canzoni popolari polacche, per lo più. Nel corso del ’43 entrarono a far parte dell’orchestra la violoncellista Anita Lasker-Wallfische e la cantante pianista Fania Fénelon, e la direzione fu affidata ad Alma Rosé, musicista austriaca sino ad allora di notevole fama, nipote di Gustav Mahler e direttrice di un complesso femminile di grande successo, oltre che ottima solista di violino. Con la Rosè, direttrice di polso e, malgrado le circostanze, molto ambiziosa, l’orchestra arrivò a essere un gruppo sempre più coeso ed esercitato, divenendo capace di affrontare quasi professionalmente un repertorio di composizioni classiche vere e proprie, come la Träumerai di Schumann, quasi sempre richiesta da Josef Mengele, assiduo frequentatore dei «concerti» del gruppo. L’orchestra divenne a suo modo, anche se sembra paradossale affermarlo, una sorta di «attrazione» del Campo. Poi, la brusca cesura: la Rosé morì improvvisamente nell’aprile del 1944, probabilmente per avvelenamento da cibo. Da allora l’orchestra ebbe vita sempre più precaria, conclusasi con trasferimenti delle sue componenti a Ravensbrück e a Bergen-Belsen, dove alcune delle orchestrali trovarono la morte. A guerra finita, un certo rumore polemico su questa vicenda fu creato dalle memorie di Fania Fénelon. La musicista francese fu esplicita nel rievocare la figura della Rosé come quella di una persona autoritaria e dispotica, capace di imporre alle sue sottoposte regole disciplinari durissime e di sottoporle a tour de forces massacranti di prove e di esecuzioni: tutto ciò per compiacere i «padroni» tedeschi e far con essi bella figura, e ricavare da ciò privilegi e benefici materiali, come l’essere sempre curata nell’aspetto e ben vestita, non solo indispensabili alla sopravvivenza, ma capaci anche di soddisfare un’ambizione senza limiti, soprattutto nelle circostanze date. A sostegno delle sue tesi, la Fènelon portò racconti di fittissime conversazioni tra Alma Rosè e la Mandel, a suo giudizio inusuali in un rapporto ordinario tra una prigioniera e una carceriera di alto grado. Nelle stesse memorie, un certo scandalo fu suscitato anche dalle allusioni a esplicite relazioni amorose tra le orchestrali. Accuse di questo tipo suscitarono ovviamente reazioni anche pesanti da parte di amici e di estimatori della Rosé, che in una serie di ricostruzioni biografiche accreditarono un’immagine della musicista completamente diversa, quella di una persona generosa e appassionata che fece di tutto per salvare le proprie sottoposte. Oggi è assolutamente impossibile stabilire come siano veramente andate le cose. Inutile dire che una polemica di questo tipo, sempre oggi, può apparire anche come il risultato, diretto o indiretto non importa, delle lacerazioni emotive e psicologiche prodotte dal vivere nella più terribile delle «istituzioni totali». Ma non c’è dubbio che il tema della ‘zona grigia’ del rapporto tra oppressi e oppressori si presti comunque a riflessioni che è lecito fare, anche se per quanto approfondite possano essere, non arriveranno mai a essere conclusive.

Suggestiva e in qualche modo più larga dei percorsi obbligati delle «storie del Campo» la vicenda di amore e speranza, pur tragica nei suoi esiti, in cui si intrecciarono le vite dell’internato polacco Edek Galiński e della deportata belga Mala Zimetbaum. La figura di questa donna, soprattutto, sembra poter ancora oggi essere presa a paradigma del coraggio e della determinazione femminile anche nelle condizioni più estreme. Mala Zimetbaum era una giovane ebrea nata a Brzesko, in polonia, il 26 gennaio 1918. Nata in una famiglia povera (suo padre era cieco) che si era trasferita ad Anversa, si era impegnata negli studi fino a imparare il fiammingo, il francese, il tedesco e l'inglese, oltre al polacco e al russo che già sapeva. Mala fu arrestata l'11 settembre 1942 e portata a Birkenau. Sopravvissuta alla selezione sulla judenrampe, divenne la prigioniera 19.880 e venne presto impiegata come läuferin, interprete e portaordini, addetta soprattutto allo smistamento delle prigioniere nelle baracche. Un ruolo che per molti versi le poteva offrire migliori condizioni di vita e maggior sicurezza. Al contrario però delle altre prominenz e kapos del campo, che si mostravano spesso più crudeli delle loro superiori, si distinse subito tra le sue compagne per la disponibilità ad aiutare in ogni modo chi ne aveva bisogno, e per il coraggio dimostrato in molte occasioni. Per queste sua qualità era diventata molto popolare tra le prigioniere, e anche per questo i suoi interventi la costringevano sempre più a esporsi e correre rischi sempre maggiori. Edek Galiński era nato a Jarosław il 5 ottobre 1923. Arrestato nella primavera del 1940, era stato tra i primi prigionieri politici rinchiusi nello stammlager. Grazie a una forte fibra e a grandi doti di resistenza, era sopravvissuto per quattro anni lavorando nell’officina metallurgica del campo. Mala ed Edek si erano conosciuti nell’autunno del ’43, quando Edek era stato trasferito a Birkenau per effettuare alcune riparazioni nel campo femminile. Tra loro era scoppiato l’amore. «Amo e sono ricambiata,» aveva confidato Mala a una delle compagne di prigionia. Mala ed Edek progettarono di fuggire: pochissimi sino ad allora erano riusciti ad evadere dal campo, quasi tutti i fuggitivi erano stati ripresi ed erano stati uccisi. I due amanti, comunque, elaborarono un piano minuzioso. Un sottufficiale tedesco, tra i pochissimi disposti ad aiutare in segreto i prigionieri, procurò loro una divisa da ufficiale e persino una pistola con due colpi. Il 24 giugno 1944, Edek e Mala si presentarono al cancello del campo, lui travestito da ufficiale, lei con abiti da lavoro maschili e un lavandino capovolto in testa, che tra l’altro le nascondeva il viso. Edek mostrò un lasciapassare contraffatto che parlava di una riparazione idraulica da effettuare fuori del campo. Superarono il posto di guardia e riuscirono a raggiungere il villaggio di Kozy. Da lì, dopo una sosta eccessiva per i tempi di una fuga (i due non avevano saputo resistere alla tentazione di godere in maniera prolungata della loro intimità amorosa) Mala ed Edek tentarono di raggiungere la Slovacchia, dove vivevano i parenti di lei e dove avevano intenzione di nascondersi fino alla liberazione. Ma la fortuna non era dalla loro parte. Il 6 luglio 1944, incontrarono una guardia di frontiera tedesca. Mala, che si trovava davanti, fu fermata. Edek poteva fuggire ma non lo fece. Furono identificati e rispediti ad Auschwitz. Rinchiusi nelle celle del Blocco11 dello stammlager, subirono due mesi di torture che avrebbero dovuto spingerli a confessare i nomi di coloro che li avevano aiutati. Non cedettero. Il 15 settembre del 1944 furono riportati a Birkenau per essere impiccati con un’esecuzione pubblica, evento non frequente pur in un luogo in cui le uccisioni erano migliaia al giorno, ma che avrebbe dovuto servire di esempio a tutti i prigionieri, schierati davanti ai patiboli. Le sentenze furono eseguite ma non ebbero la spettacolarità sperata. Edek infilò la testa nel cappio da solo e si buttò giù dallo sgabello prima della lettura rituale della sentenza e prima che il boia procedesse. Tutti i prigionieri schierati davanti a lui si tolsero i berretti in segno di rispetto, e le guardie dovettero disperdere rapidamente l’assembramento prima che scoppiassero tumulti o incidenti. Anche Mala non assecondò i carnefici nel loro intento. Quando era già sulla piattaforma riuscì a tagliarsi le vene delle braccia con un rasoio che si era procurata, e schiaffeggiò con le mani insanguinate una guardia che era corsa a fermarla. Qualcuno riferì che la donna riuscisse a dirgli: «Io muoio da eroina, tu morirai da cane». Le SS iniziarono a prenderla a calci sotto gli occhi di tutte le detenute. Fu gettata in un forno crematorio ancora viva.


Immagine: Sergio Bianchi, Faccia, 1992.

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