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Adrián Balseca e il colonialismo epistemico


Adrián Balseca, The Unbalanced Land, 2019
Adrián Balseca, The Unbalanced Land, 2019

Se nel pensiero eurocentrico la critica alla modernità è stata abbondante e prolifica, tuttavia, la sua controparte coloniale, quella che Walter Mignolo ha definito il «lato oscuro», è stata, invece, costantemente ignorata. Nozioni essenziali come «modernità-colonialità» (Enrique Dussel), «colonialità del potere» (Anibal Quijano) o «colonialità del genere» (María Lugones) hanno evidenziato il razzismo implicito nella razionalità moderna.

Le voci che provengono dal Sud globale sono piene di alternative al produttivismo, all’individualismo e al disprezzo per il pianeta, tutti caratteri che ormai ben conosciamo come costitutivi del paradigma modernista. Emergono nuovi approcci sociali che rimettono al centro le strutture dell’oppressione per rovesciarle: questo è il significato di Cambio de fuerza, titolo della prima esposizione personale dell’artista ecuadoregno Adrián Balseca (Quito, Ecuador, 1989) in corso al PAV – Parco Arte Vivente – a Torino, che racconta la sua decennale produzione artistica ed ecologica.

Recuperare le visioni comunitarie, i saperi e i sistemi di vita del mondo indigeno e latinoamericano, dove la politica «nasce direttamente dall’organizzazione della riproduzione materiale e simbolica della comunità» (Silvia Federici), sono tra i presupposti della sua ricerca estetico-politica. Balseca ha partecipato a collettivi come La Selecta-Cooperativa Cultural e Tranvía Cero, creati a Quito per promuovere l’arte contemporanea e la cooperazione sociale, ha guardato alle forme di resistenza di chi, condividendo terra e lavoro, mette il corpo al centro della lotta ecologica e della difesa del territorio dal saccheggio e dalla predazione ecocida del modello di sviluppo estrattivo occidentale.

In tempi di fascistizzazione generalizzata, Adrián Balseca percorre la prospettiva decoloniale dall’interno, tracciando una via di fuga ben precisa che rifiuta la retorica della modernità e le logiche della colonialità per entrare a gamba tesa – come fa anche Marco Enrico Giacomelli in questa lettura critica – nello spirito della disobbedienza estetica ed epistemica.


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L’intreccio fra le costellazioni semantiche dell’arte, dell’ecologia e della politica rappresenta storicamente l’identità perspicua del PAV – Parco Arte Vivente – fondato nel 2008, in un’ex area industriale, da Piero Gilardi (qualcuno, ora, lo definirebbe un «artivista» ante litteram).

Questo posizionamento è andato approfondendosi e insieme espandendosi grazie alla direzione di Marco Scotini: ne sono prove, per citare alcuni esempi, le mostre collettive intitolate Vegetation as a political agent (2014), La Macchina Estrattiva (2017), Sustaining Assembly (2021) e Recombinant Ecologies (2024), senza dimenticare i solo show di artisti quali Wurmkos, Uriel Orlow, Zheng Bo, Ravi Agarwal, Regina José Galindo e Marko Tadić.

In questa lignée s’inserisce sartorialmente l’opera-to di Adrián Balseca, ecuadoriano classe 1989. Cambio de fuerza è la sua prima mostra personale in Italia, benché fosse stato invitato alla collettiva Rethinking Nature, allestita al Madre di Napoli nel 2021-22.

In quell’occasione, fra le opere presentate dall’artista di Quito, particolarmente indicativa della sua ricerca risultava il film – visibile anche al PAV – intitolato The Skin of Labour (2016). Il perno intorno al quale esso ruota è l’estrattivismo socio-politico-economico perpetrato dalle potenze coloniali europee (e in seguito nordamericane e, in un futuro che facilmente prevediamo prossimo, asiatiche) ai danni, appunto, delle popolazioni sudamericane, in primis native.

Un epifenomeno drammatico dell’estrattivismo in terra ecuadoriana è consistito nella «febbre della gomma» e della sua industria: l’albero di hevea brasiliensis, utilizzato dalle comunità indigene amazzoniche a scopo impermeabilizzante, nel XIX secolo fu «scoperto» dai colonizzatori europei. Le conseguenze furono almeno duplici: da un lato, le popolazioni locali vennero espropriate delle terre in cui vivevano per far posto alla monocoltura; dall’altro, quelle stesse comunità furono impiegate per coltivare – in condizioni di sostanziale schiavitù – le suddette piantagioni.


Adrián Balseca in collaborazione con Segundo Teodoro Ruíz, Project for a portrait. On The Origin of Intriduced Species, 2016
Adrián Balseca in collaborazione con Segundo Teodoro Ruíz, Project for a portrait. On The Origin of Intriduced Species, 2016

Il film di Balseca racconta questa vicenda in maniera ellittica, mostrando guanti di lattice nei quali cola la preziosa e candida linfa, la quale da seconda pelle si trova ad essere la prima, non sovrapposta ma imposta alle mani dei lavoratori.

Si dirà, giustamente, che – senza la conoscenza di questi retroscena – il film è quasi privo di intelligibilità: se ne potrà magari apprezzare l’afflato poetico, in tal modo però fraintendendone il senso. Ora, senza impegolarci in sterili disquisizioni su forma e contenuto, interpretazione e sovrainterpretazione, significante e significato, va sottolineato un altro aspetto che connota fortemente la programmazione del Parco Arte Vivente: la cura nel mettere a disposizione del visitatore un abbondante materiale documentario.

Attenzione però: quest’ultima è una definizione imprecisa. Se infatti è vero che la pratica di mettere in mostra i bozzetti, le lettere, gli appunti, i disegni, e magari i cataloghi, i cartoncini d’invito e le riviste d’epoca risale ormai a qualche decennio fa e soprattutto non contraddistingue la pratica allestitivo-curatoriale del PAV (non contraddistingue nemmeno il campo dell’arte, se è per questo); d’altro canto, quel che il PAV e Marco Scotini fanno – e invitano gli artisti a fare: punto d’importanza capitale – è qualcosa di ben diverso. Si tratta infatti, sulla scorta di un’approfondita riflessione sui temi e le pratiche dell’archivio e del display – di cui è abbondante la bibliografia dello stesso Scotini, e la declinazione del Disobedience Archive allestito all’ultima Biennale di Venezia ne era un fulgido esempio –  di agevolare un doppio movimento. Movimento che permette di sfumare, di sfocare anzi, i rispettivi confini di «opera» e «documento», cosicché il secondo esce dal proprio platonico mutismo, abbandonando lo statuto di lettera morta, mentre – cioè: contemporaneamente – la prima offusca la propria aura vitalistica, evenemenziale, assolutistica e universale, trovandosi ben rivettata a terra. Un movimento, in altre parole, di reciproco e non necessariamente pacifico accostamento, che intacca altresì una filosofia della storia linearmente deludente: il documento, infatti, in tal modo si presentifica o, per meglio dire, si contemporaneizza, e l’opera si spoglia della retorica teleologica del messaggio messianico per i posteri.


Adrian Balseca, Untitled, 1987-1992, 35mm, film slide Adolfo Maldonado (Clinica Ambiental) parte del Archivo Visual Amazonico
Adrian Balseca, Untitled, 1987-1992, 35mm, film slide Adolfo Maldonado (Clinica Ambiental) parte del Archivo Visual Amazonico

Questa convergenza al qui-e-ora non va tuttavia intesa come un processo destinato alla stasi, a una (nuova) conservazione, bensì valorizzata in tutta la sua (doppia) dinamica. Indica un presente vivo, propositivo e finanche trasformativo – in una parola: politico.

Adrián Balseca fa esattamente e consapevolmente questo: «Le foto, i film, i frammenti e i documenti qui raccolti rendono conto della mia ricerca sulla finanziarizzazione e la tecnologizzazione dell’ordine naturale», dichiarava al tempo della mostra napoletana. Si badi bene: non c’è gerarchia nell’elenco iniziale, ovvero «i frammenti e i documenti» non hanno un ruolo ancillare rispetto a «le foto, i film». E quest’impostazione è ribadita anche in occasione della rassegna torinese, nel corso della quale l’artista ha dichiarato: «Questa mostra mi ha offerto la preziosa opportunità di mettere in dialogo una varietà di mie opere, accanto a selezioni tratte dal mio archivio personale. […] Presentare gli archivi che ho raccolto è diventato un modo per ampliare e condividere il mio processo creativo».


Adrián Balseca, Cambio de fuerza, veduta dell’esposizione al PAV, Torino, 2024-25
Adrián Balseca, Cambio de fuerza, veduta dell’esposizione al PAV, Torino, 2024-25

Grazie a questo approccio – che, ad esempio, ha condotto Balseca a dedicare la sua residenza del 2022 alla Delfina Foundation di Londra all’approfondimento delle conseguenze della «rubber fever» (1870–1920) nell’impero britannico – è così possibile comprendere appieno anche le altre opere/documenti esposti al PAV. Dove talora pure la firma dell’autore perde di centralità ed eccezionalità, come quando Balseca sceglie di esporre Untitled, una selezione di materiali provenienti dall’Archivo Visual Amazónico, fra i quali le fotografie scattate negli anni Ottanta del XX secolo dal medico ed ecologista Maldonado Adolfo.

In un’antologica che comprende numerosi lavori prodotti fra il 2014 e il 2024, va senz’altro e infine citata la serie di artefatti (impossibile, per le ragioni succitate, definirli «opere» o «documenti») in forma di mappa che impegnano Balseca da oltre un lustro: da Texaco-Gulf, cartografia delle concessioni petrolifere all’interno della foresta pluviale, a The Unbalanced Land (2019), ove si mostra e letteralmente si fa udire l’incommensurabilità fra la tuttora diffusissima proiezione cartografica proposta all’inizio del Novecento da John Paul Goode e la sinuosità di aree come quella amazzonica (è la ben nota differenza fra la carta e il territorio, per citare Michel Houellebecq).

È questo forse il caso migliore per illustrare la potenza politicamente trasformativa che risiede nell’intelligente compenetrazione di opera e documento, di mostra e archivio. Est-etica nella quale nessun termine è servo d’un altro.

 

Adrián Balseca, Cambio de fuerza, veduta dell’esposizione al PAV, Torino, 2024-25
Adrián Balseca, Cambio de fuerza, veduta dell’esposizione al PAV, Torino, 2024-25.

 

*Le parole di Balseca sono tratte rispettivamente dalla «Dichiarazione dell'artista» sul sito Internet del Museo Madre di Napoli e dall’intervista condotta da Alessia Riva, «Estrattivismo e forme di resistenza in Italia e in Sud America» pubblicata da Artribune il 30 dicembre 2024.

 

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Marco Enrico Giacomelli (Torino, 1976), dottore di ricerca in Estetica e giornalista professionista, ha studiato filosofia alle università di Torino, Bologna e Paris 8. Dall’inizio del secolo ai primi mesi del 2023 è stato direttore responsabile e vicedirettore editoriale prima di Exibart.onpaper e poi di Artribune Magazine. Insegna alla NABA di Milano, allo IED di Torino e all’Accademia di Belle Arti di Verona. Ha scritto decine di articoli di taglio giornalistico e accademico, nonché un libro su documenta fifteen (Ma dove sono le opere d'arte?, Castelvecchi, 2023), uno su Mike Kelley (Di tutto un pop, Johan and Levi, 2014) e uno su René Daumal (Un filosofo tra Patafisica e Surrealismo, Bulzoni, 2011). Ha tradotto testi di Gilles Deleuze, Marc Augé, Nicolas Bourriaud e Boris Groys, nonché pubblicato un’edizione critica del diario scritto da Achille Compagnoni in occasione della prima scalata del K2 (Marsilio, 2014, con una esposizione al Museo della Scienza e della Tecnologia di Milano). Le ultime mostre d’arte che ha curato sono state Don Yuan di Gianni Colosimo e Luisa Bruni (Riccardo Costantini Contemporary, Torino 2023) e L'elefante nella stanza di Carlo Galfione (Il Fondaco, Bra 2024). Dirige la rivista Art Cluster Zine e collabora con AES Arts+Economics, Antinomie e Machina.

 

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