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Abitare e costruire tra perturbamento e paura



Che i mortali sono vuol dire che, abitando, abbracciano spazi e si mantengono in essi sulla base del loro soggiornare presso cose e luoghi. […] Il rapporto dell’uomo ai luoghi e, attraverso i luoghi, agli spazi, risiede nell’abitare. La relazione di uomo e spazio non è null’altro che l’abitare pensato nella sua essenza. Se riflettiamo nel modo che ora si è tentato nella relazione tra luogo e spazio, ma anche sul rapportarsi dell’uomo allo spazio, ne risulta illuminata l’essenza di quelle cose che sono dei luoghi e che noi chiamiamo edifici. (Heidegger, Saggi e discorsi, p. 105)


Per Heidegger l’angoscia è consustanziale alla dimensione umana, all’esserci, a colui che viene gettato nel mondo, che vive con angoscia questa gettatezza. «Il “davanti-a-che” dell’angoscia non è mai un ente intramondano» (233-234). Per questo non si può cercare presso di esso rifugio o appagamento. «Il “davanti-a-che” dell’angoscia è completamente indeterminato» (ibidem), per questo l’angoscia è diversa dalla paura. L’angoscia è allora un modo di essere, un modo di abitare il mondo. Regola la cautela dell’apertura al mondo.

Il perturbante, lo spaesamento è, sia per Freud che per (in parte) Heidegger, l’incontro con qualche cosa di familiare che non si rivela tale. Il simile ma non l’uguale provoca perturbamento. Precede la paura dell’incontro con l’altro, dello scontro con l’altro, delle conseguenze dello scontro con l’altro. Precedere, è questa posizione latente, questa mancanza di coordinate sicure, questo orizzonte confuso che è il modo degli umani di rapportarsi all’ambiente; segna la dimora degli uomini e delle donne nel mondo. Precedere non è infatti avere davanti, e questa latenza è il perturbante. Questo perché l’ambiente umano è un ambiente che si genera e si evolve a partire dal confronto e dagli apparati tecnici attraverso i quali ci si rapporta con il mondo stesso, diverso da quello dei viventi non umani che vivono in un ambiente determinato dai loro caratteri percettivi che modellano il loro modo esclusivo e istintuale di abitare il mondo (Jakob von Uexküll). Istinto e rigidezza percettiva sono infatti collegati: avendo di fronte a sé soltanto un mondo poco variegato, le cose da fare saranno in qualche modo de-finite (non infinite), alle quali si può accedere e alle quali si può reagire, in alcuni casi, anche soltanto con l’istinto. Alle quali cioè si reagisce in un modo pressoché automatico. Non così degli umani che si muovono invece in una apertura.

Allora non ci si sente a casa propria quando siamo in un ambiente sconosciuto, quando non conosci, non ri-conosci, gli altri. La sensazione è di spaesamento, fa riferimento al paese, a un luogo che è tale nella misura per la quale è luogo di incontro e di vita con gli altri. Nella solitudine la differenza tra essere a casa e non essere a casa è poca cosa. Dover andare nella casa degli altri è spaesante, provoca angoscia. L’incontro, la semplice possibilità di un incontro con uno sconosciuto, con lo sconosciuto è portatrice di angoscia. Aprire la casa all’esterno, a chi non appartiene a un determinato contesto sociale (la domus-familia a Romae l’oikos- famiglia in Grecia), la tribù, la stirpe, gli antenati nel quale si è e ci si sente a casa, non solo perché si è tra i propri familiari, ma «anche perché, come mostra la contrapposizione domi bellique, «in pace e in guerra», nella casa sono possibili certe relazioni e escluse altre, come quelle che si hanno con un hostis, un nemico pubblico» (Agamben). Il perturbante siede allora sulla soglia di casa, si manifesta nell’opposizione oikos/polis, sulla determinazione che fa del costruire non un semplice edificare rifugi ma un modo di abitare il mondo. Benveniste faceva notare che i termini indoeuropei che designano la casa sembrano sovrapporre due nozioni diverse: da una parte la casa-abitazione, che esprime un’appartenenza sociale (che in latino si dice domus, il luogo della familia e della gens) e dall’altra la casa-edificio (che in latino si dice aedes). Secondo Benveniste, la casa-abitazione e la casa-edificio, anche se, almeno in parte, possono coincidere nello spazio, esprimono due realtà distinte. Stessa cosa, come abbiamo accennato, in Grecia dove oikos sta sia per casa che per famiglia, ricombinando l’abitare e il costruire sotto lo stesso apparato semantico. Sono due mondi uno privato e uno pubblico che si confrontano nella configurazione dell’edificio che deve raccogliere e proteggere, ma nello stesso tempo aprirsi al sociale. È in questa apertura, su questa soglia, in questa sospensione che si manifesta tutta la dinamica dell’abitare degli umani.

L’esser-ci è l’in-essere, essere in mezzo alle cose e agli altri. Con più cose familiarizzi e meno probabilità ci sono nell’incappare nell’altro come nemico. Meno probabilità che l’indeterminatezza, si trasformi in paura, ma che rimanga soltanto l’angoscia di questa indeterminatezza che allora rimane latente e non si trasforma in paura. L’effetto della paura tende a rendere il gruppo tanto più coeso, e quindi discriminante verso l’esterno e repressivo al proprio interno, quando più alta è la percezione del rischio in generale sia che questo rischio abbia o meno dei fondamenti reali. Costruire è allora creare spazi che rendano abitabile l’angoscia, l’indeterminatezza dell’abitare umano, in quanto apertura. Spazi che non trascendano l’angoscia in paura; spazi aperti e non angusti, proprio perché angustia è un parente etimologico della angoscia. Semplicemente l’angoscia è una dimensione, un modo di stare/abitare, derivante dalla gettatezza (la traduzione del termine heideggeriano sarebbe: deiezione, così Volpi per Essere e Tempo) dell’esserci, dentro un’apertura la cui ricomposizione non diventi angusta.

La moltitudine non è un’unità, come lo è il popolo, ma in contrasto alle masse e alla plebe, noi possiamo vederla come qualcosa di organizzato. In effetti, essa è un attore attivo di auto organizzazione (Negri, vedi anche Virno). Mentre il popolo si diluisce e scompare nel corpo del sovrano (Hobbes), la moltitudine è invece un insieme di singolarità. Popolo e moltitudine, nel senso usato qui sopra, abitano in maniera diversa il mondo. Il popolo hobbesiano cerca rifugi nei quali chiudersi con i propri simili, cerca un’identità che è rifugio e muro nei confronti del diverso. La paura del popolo crea muri. La relazione delle singolarità moltitudinarie ripete la differenza, differisce la differenza, rompendo l’identità, e aprendo alla collaborazione, alla fratellanza/sorellanza.


«L’uguale si volge sempre verso il senza-differenze affinché tutto si accordi in esso. Il medesimo, invece, è la reciproca appartenenza del differente a partire dalla riunione operata dalla differenza. Il medesimo si lascia dire solo quando è pensata la differenza».


Il popolo, in quella particolare accezione del termine, vive e si diluisce nel gigantismo delle metropoli (Agostini), le riempie casa per casa. La moltitudine invece abita la città nel senso che la costruisce. «L’abitare sarebbe quindi in ogni caso il fine che sta alla base di ogni costruire» (Heidegger, pp. 96-97). Costruire è per noi una capacità umana che va oltre il saper costruire del castoro o il nido della rondine. È quel sapere tecnico che rinnova il gesto; che lo rifonda e lo rigenera; che confronta il gesto e il fare con il gesto dell’altro; che decide con l’altro cosa costruire, dove e in che modo e per il benessere di chi. I popoli nomadi che costruivano volta a volta il proprio abitare avevano infatti un vantaggio nel riuscire a ben costruire, a costruire un rifugio ospitale (riferito all’ospite), perché si è sempre ospite anche a casa propria, se non ci si vuole chiudere nella solitudine identitaria o in quella tout court.

«L’uomo si comporta come se fosse lui il creatore e il padrone del linguaggio, mentre è questo, invece, che rimane signore dell’uomo» (ibidem). Il linguaggio è signore in quanto «langue» che permette agli umani di prendere la «parole» (Saussure). La langue è questa capacità di linguaggio, è questa indeterminatezza originaria umana che usa strumenti tecnici e linguistici per costruire il proprio abitare, per prendere la parola che è allora una forma dell’edificare e dell’abitare.

Heidegger nel medesimo saggio trova una cosa che gli serve per ricollegare l’essere all’abitare, non sfruttando gli ulteriori sviluppi che la cosa può permettere. «L’antica parola alto tedesca per bauen, costruire, è “buan”, e significa abitare» (ibidem), che rimanda anche al trattenersi, al rimanere. La connessione (Heidegger parla di «significato autentico») tra abitare e costruire si sarebbe poi persa se non per una traccia che porta a «Nachbar, vicino. Il Nachbar è il Nachgebur, Nachgebauer, colui che abita nelle vicinanze» (ibidem). E qui si ferma, ma abitare è allora avere un vicino. Costruire è allora abitare nelle vicinanze di qualcuno. Costruire non è allora elevare muri, ma aprire i rifugi, creare soglie e aperture. «Il costruire come abitare si dispiega nel “costruire” che coltiva, e coltiva ciò che cresce; e nel “costruire” che edifica costruzioni» (Heidegger, p. 98).

Abitare e costruire sono in un certo senso un coltivare, un accudire, un governare. All’origine, in quel riferimento all’arché, che proviene dalla processione dei termini come l’antico sassone «Wuon», il gotico «Wunian» e l’antico «Bauen» che significano il rimanere, il trattenersi. In particolare, fa notare Heidegger, Wunian significa essere contento, «avere la pace (Friede), rimanere in essa. La parola Friede indica il Freire, o Frye, ciò che è libero; e fry significa preservato dai mali e da minacce» (ivi, p. 99). Abitare-costruire è allora un modo di stare al mondo che impedisce all’angoscia dell’esserci di trasformarsi in paura.


«Passare un ponte, traversare un fiume, varcare una frontiera, è lasciare lo spazio intimo e familiare ove si è a casa propria per penetrare in un orizzonte differente, uno spazio estraneo, incognito, ove si rischia, – confrontati a ciò che è altro – di scoprirsi senza “luogo proprio”, senza identità. Polarità dunque dello spazio umano, fatto di un dentro e di un fuori. Questo “dentro” rassicurante turrito, stabile, e questo “fuori” inquietante, aperto, mobile, i Greci antichi hanno espresso sotto la forma di una coppia di divinità unite e opposte: Hestia e Hermes. Tanto Hestia è sedentaria, vigilante sugli esseri umani e le ricchezze che protegge, altrettanto Hermes è nomade, vagabondo: passa incessantemente da un luogo all’altro, incurante delle frontiere, delle chiusure, delle barriere. Maestro degli scambi, dei contatti, è il dio delle strade ove guida il viaggiatore, quando Hestia mette al riparo tesori nei segreti penetrali delle case. Divinità che si oppongono, certo, e che pure sono indissociabili. È infatti all’altare della dea, nel cuore delle dimore private e degli edifici pubblici che sono, secondo il rito, accolti, nutriti, ospitati gli stranieri venuti da lontano. Perché ci sia veramente un “dentro”, bisogna che possa aprirsi su un “fuori”, per accoglierlo in sé. Così ogni individuo umano deve assumere la parte di Hestia e la parte di Hermes. Tra le rive del Medesimo e dell’Altro, l’uomo è un ponte».


Costruire ponti è un modo per lasciare la paura fuori casa.



Immagine: Thomas Berra


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Gilberto Pierazzuoli, laureato in Lettere presso il Dipartimento di storia dell’arte dell’Università di Firenze con una tesi sulle rappresentazioni folcloriche, il carnevale e la festa. Ha insegnato Italiano e Storia in un Liceo artistico. Tra le sue pubblicazioni: Mangiare donna. Il cibo e la subordinazione femminile nella storia (Jouvence, 2016) e Gioco, giocattoli, robot e macchine umane (Robin Edizioni, 2016). Fa parte della redazione di «La Città Invisibile», magazine del laboratorio politico perUnaltracittà.

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